Esame di Cintura Nera di Karate – 29/09/2013, racconto di Chiara

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Mi alzo in piedi.

Fuori è ancora buio, ma inizio già a prepararmi: so che la giornata sarà lunga. La brezza fresca del mattino che passa attraverso la finestra aperta mi accarezza rapida e frizzante la schiena, mentre mi siedo a tavola ancora assonnata per fare colazione. Sono sola. In cucina l’aroma del caffè si diffonde, sommandosi al profumo effervescente dell’aspettativa e della tensione. La mente è attraversata da immagini frammentarie degli ultimi allenamenti, dei volti del maestro e dei compagni di viaggio che mi hanno accompagnato per tutto questo tempo. Il karate è un percorso.

Karate: parola completa, KarateDo. E ripensandoci, un ricordo mi attraversa la mente.

Ho dieci anni, e sono seduta a gambe incrociate sul parquet della palestra. La timidezza mi impedisce di parlare con chicchessia, come al solito, ma dopotutto è la prima volta che vengo qui, la prima volta che vedo queste persone vestite di bianco, con cinture di ogni colore legate in vita. Ci sono tanti bambini della mia età, più grandi e più piccoli, alcuni hanno già la tuta bianca, che scopro chiamarsi kimono, altri, come me, indossano una semplice tuta da ginnastica: probabilmente sono qui per una semplice lezione di prova, e come me sono seduti a terra. In questo momento, il maestro sta allenando i ragazzi più grandi, ma dopo aver interrotto la lezione si avvicina a noi. ‘Che cos’è il karate?’ chiede, guardando ad una ad una le nostre espressioni confuse. Un bambino coraggiosamente salta su. ‘Il karate è combattere!’ esclama, convinto. Il maestro lo guarda e sorride. Poi, chiama a sé uno dei ragazzi più esperti e gli chiede di essere colpito: quello carica un pugno e sferra il colpo, ma il maestro con una rapida tecnica delle gambe si scosta fuori portata, e il ragazzo finisce a terra, sbilanciato dal suo stesso attacco. Il maestro, niente affatto scomposto, torna ad osservare il bambino; ‘il Karate’, lo corregge, ‘è non combattere. Il Karate è zanshin, consapevolezza. Il Karate è equilibrio.’ Adesso il suo sguardo si sposta su tutti noi, a turno. ‘KarateDo: la Via della Mano Vuota, ovvero ‘allenarsi ad allontanare dalla propria mente i pensieri negativi, cosi in palestra come anche nella vita’.

Sono ormai passati sei anni da quel momento, sei anni di crescita, di emozioni, di paure e di soddisfazioni, e oggi, tanto tempo dopo, mi attende l’esame di passaggio alla cintura nera. Quella bambina che si affacciava timida alla porta della palestra mai avrebbe immaginato tutto ciò che seguì quella prima lezione di Karate.

Afferro la borsa e scendo di fretta le scale di casa, attendendo fuori dalla porta l’auto di un compagno che mi porterà al palazzetto dello sport.

Il cielo mattutino si rischiara lentamente mentre l’auto ormai affollata imbocca l’autostrada verso Follonica, dove si terrà il nostro esame. L’ansia da prestazione inizia a farsi sentire, ma le nostre risate alleggeriscono l’umore di tutti. Appena arrivati, indossiamo subito i kimoni e iniziamo il riscaldamento: i primi a dare l’esame saranno due di noi, i ragazzi più grandi, che passeranno al ‘secondo livello’ della cintura nera. Non tutti sanno che la cintura nera non sempre è il più alto grado nell’ambiente del Karate: questa infatti si compone a sua volta di dieci livelli, detti ‘dan’. Il primo dan corrisponde alla prima cintura nera, il secondo dan è il passaggio successivo e così via; questi riconoscimenti possono essere ricevuti via via a patto che l’atleta sia non solo particolarmente capace, ma anche anagraficamente abbastanza anziano per il dan che vuole conseguire (in Italia, il più alto dan detenuto è l’ottavo, e da soli due atleti, molto anziani).

Accompagnamo quindi i nostri amici verso la piccola palestra in cui avrà luogo il loro esame e rimaniamo con loro ad attendere che vengano chiamati. Quando giunge il loro momento, rimaniamo ad assistere alla loro prova: i giudici sono particolarmente severi e puntigliosi, e osservano con attenzione la postura, le tecniche e la potenza dei colpi. L’esame è suddiviso in due parti: la prova di kata e la prova di kumite. Quando penso alla parola kata, la mia mente si riempie di nuovo di ricordi.

Alcuni giorni dopo la mia prima visita alla palestra di karate, cammino di nuovo su quel parquet da danza che ricopre il pavimento della stanza in cui ci alleniamo. Questa volta, però, mi guardo impacciata al grande specchio che decora le pareti: adesso indosso anch’io la strana tuta bianca, che sembra quasi un camice. Le maniche sono troppo lunghe, l’orlo mi sfiora la punta delle dita e rischio di inciampare nei larghi pantaloni candidi. Ma quando crescerò questo non sarà più un problema, e io ormai so già di voler crescere con un kimono addosso. La palestra è piccola ma luminosa: le voci acute degli altri bambini risuonano nell’aria, lasciando un debole eco che penetra le orecchie, e il forte odore dei materassini da ginnastica riempie le narici. Il maestro richiama la nostra attenzione e ci dispone lungo una delle pareti. Dopo che tutti noi ci siamo voltati nella sua direzione, lui si allontana, fino a trovarsi al centro della palestra. Da ogni parte cala il silenzio, il nostro sguardo catturato dalla rigida posizione di saluto che il maestro assume. Adesso, il tempo si è fermato. D’un tratto, con uno scatto repentino, ecco che il maestro avanza di un passo, il braccio teso in un colpo, le gambe flesse che sostengono il peso dell’attacco. Silenzio. Poi, con un rumore secco di stoffa tesa all’improvviso, la gamba sotto il kimono sferra un calcio rapido e preciso, prima di tornare con altrettanta velocità al suo posto. Di nuovo silenzio. Lo sguardo del maestro è fisso di fronte a sé, in un punto preciso del vuoto, mentre il silenzio viene interrotto da lenti passi, potenti calci e precisi pugni in ordine e ritmo preciso. Ad un certo punto, la strana sequenza di movimenti termina: il maestro unisce i piedi e tende le braccia lungo i fianchi mentre accenna un leggero inchino alla propria immagine riflessa nello specchio. Poi con un respiro profondo si rilassa e si volta sorridente nella nostra direzione, studiando le nostre espressioni sconcertate. Il suo volto è arrossato e coperto di sudore, eppure quelle mosse sembravano così spontanee… Che cosa significa tutto ciò? Che cosa stava facendo?

‘Questo’ dice, lo sguardo fisso nel nostro ‘si chiama kata. Il kata è un combattimento sempre uguale contro uno o più avversari immaginari. Il kata è il Karate nella sua forma più nobile: è combattere senza combattere, è trovare quella connessione tra la mente e il corpo che porta sempre più vicini al Do, alla Via, a sé stessi: l’unico vostro vero nemico è dentro ognuno di voi.’

Mi incammino velocemente verso il tatami, la pedana.

Il cuore mi batte nella testa, l’emozione mi fa tremare le gambe. Finalmente, dopo tante ore di attesa, tocca ai futuri primi dan affrontare l’esame, e quindi a me. Poco fa è stata estratta una lettera da cui i giudici inizieranno a chiamare i karateki, e io risulto essere la prima all’interno del mio gruppo. I miei compagni mi accompagnano fino al recinto del tatami, ma i suoni delle pacche amichevoli sulla schiena e delle parole di incoraggiamento sono  sordi e distanti nella mia mente. Mi dispongo al centro della pedana, come il mio maestro fece sei anni fa e respiro a fondo per fare la mossa più importante del Karate: il saluto all’avversario. Inspiro a fondo e unisco i piedi, le braccia distese lungo i fianchi chinandomi leggermente verso i giudici. Per un attimo, chiudo gli occhi: tutto quanto svanisce e mi trovo in una bolla, il vuoto creato dalla mia mente mi difende dall’esterno… mi separa da tutto ciò che mi circonda… mi opprime, mi sento soffocare. No. Apro gli occhi. Il rumore delle voci degli spettatori mi riporta alla realtà. Tiro su la testa: non sono pronta; ma il nome del kata che sto per fare mi esce automaticamente dalle labbra, lo esclamo, e adesso devo iniziare. Mi volto di scatto e uno, due, tre colpi: la bolla attorno a me si smuove ma non scoppia. Quattro. Qualcosa dentro di me si sveglia. La paura comincia ad arretrare. Cinque, sei. Sette, otto. La precisione dei colpi inizia ad essere maggiore, un’improvvisa sicurezza mi investe, la bolla trema convulsamente. Nove, dieci! Undici, dodici! Tredici, quattordici! Finalmente inizio a vedere la paura per quella che è: una proiezione della mia mente. Finalmente, vedo il nemico. Finalmente, vedo l’alleato. Sono sempre io. La bolla non è mai esistita. Io, bianco e nero. Io, inizio e fine. Fine. Fine del kata. Adesso sono di nuovo in posizione di riposo, e osservo i giudici sotto una nuova luce. Per oggi, ho vinto. Ho vinto con me, contro di me. Ho vinto anche se per tutto il resto del mondo dovessi aver perso. E ho vinto anche se la mia prova non è ancora finita: infatti, mi viene fatto un cenno, e capisco che posso iniziare con la seconda parte dell’esame: un incontro di combattimento reale con un avversario, detto kumité. Non tutte le tecniche del karate sono ammesse nel kumité, poiché molte di essere sono considerate troppo pericolose o rischiose. Ma allo stesso tempo è incredibile ed affascinante il modo in cui due persone entrano in sintonia nel combattimento: per molti occidentali, questa pratica è considerata dannosa, e spesso è così, almeno per quanto riguarda gli scontri fisici tipici della nostra cultura. Nel karate, il kumité è un arricchimento, una sfida non tanto con gli altri quanto ancora una volta con sé stessi, con la propria capacità di apprendere ‘tutto’ e ‘sul momento ‘ dalle abitudini di un’altra persona, un allenamento per la vita di tutti i giorni.

Gli arbitri danno il via e io e il mio compagno di kumité diamo inizio all’incontro: calci, pugni, parate e contrattacchi si alternano in una danza senza fine, creando una profonda e ancestrale sintonia tra i nostri pensieri. I colpi si susseguono sotto lo sguardo attento dei giudici, che dopo poche manciate di secondi, sospendono il nostro combattimento e ci lasciano andare.

Dopo quella che mi sembra un’eternità, finalmente mi allontano dalla pedana. Il primo a farmi i complimenti è proprio il mio compagno di combattimento, seguito a ruota da tutti gli altri componenti del nostro gruppo: tutto ciò che pochi minuti fa per me era vuoto e insignificante adesso è un’esplosione di colori e suoni, un affollarsi di persone attorno a me che mi abbracciano e si congratulano per la mia performance. Sento di non essere più la stessa persona che si era incamminata tremante verso i giudici, preoccupata di dare il meglio. So che, almeno per oggi, quella ragazzina sul tatami ha dato sé stessa, e a chi poi, se non a sé stessa?

Molti dicono che il Karate sia uno sport individuale, che miri all’egoistico perfezionamento di sé stessi, lungo una strada che per ognuno di noi è diversa.

Una volta, un interessante episodio è avvenuto mentre mi stavo allenando in palestra: stavo provando per l’ennesima volta un kata, cercando di migliorarlo ogni volta. Avevo intorno a me alcuni compagni dalla cintura nera, che avevo chiamato affinché giudicassero la mia prova. Una volta terminato, chiedo loro un parere, e il giudizio unanime è che la mia performance è decisamente buona; mantengo per qualche secondo l’ultima posizione di difesa del kata, con le gambe leggermente divaricate e flesse  come prevede la tecnica, ma proprio nel mentre un bambino molto piccolo, con una cintura di livello molto inferiore alla mia, si avvicina, mi picchietta con la mano la spalla ed esclama: ‘hai un piede nella posizione sbagliata!’, quindi si avvicina e mi corregge la posizione, effettivamente errata, che né io né gli altri, con sommo stupore di tutti, non avevamo notato. Io non credo che il karate sia uno sport individuale. L’aiuto che ognuno di noi offre al meno esperto (o anche al più anziano!) sono anzi lo spirito, la vera essenza di questo meraviglioso sport. Perché capita che qualche volta la strada giusta per te siano proprio gli altri ad indicartela. C’è chi dice che il livello raggiunto all’interno dell’ambiente del karate sia per metà merito tuo, e per metà merito dei tuoi compagni. E io sono fiera di loro.

Mi alzo in piedi.

La panchina dello spogliatoio è piuttosto scomoda, e decido che attenderò l’inizio della lezione non chiusa lì ma proprio in palestra, dove adesso i bambini più piccoli stanno finendo di allenarsi per poi lasciare il posto a noi agonisti. Entro nella stanza, faccio un cenno di saluto al maestro e mi siedo in un angolo, iniziando il riscaldamento. L’atmosfera di questo posto è rimasta invariata dopo tutti questi anni: lo stesso pavimento in parquet spicca contro gli specchi sulle pareti e l’odore degli attrezzi ginnici caratterizza ancora l’aria. Solo i bambini sono cambiati. Alcuni saltano negligenti sul piccolo trampolino che occupa un angolo della palestra, altri chiacchierano tra loro, guardandosi ogni tanto intorno per controllare che il maestro non li veda. Ma quella che attrae la mia attenzione è una bambina. Avrà più o meno otto anni, si capisce che è qui per la prima volta, indossa ancora la tuta da ginnastica. È seduta a terra e si guarda attorno spaesata. Per un attimo incrocio il suo sguardo: è intimorita dall’ambiente, ma chiaramente incuriosita. E per un attimo, un attimo fugace, in lei vedo me, la bambina che arrivò in palestra sei anni fa. Dopo un minuto di esitazione, decido di avvicinarmi e di chiederle se le è piaciuta la sua prima lezione: per quanto mi riguarda, per me fu la mia preferita.