accadde…oggi: nel 2003 muore Maria Uva, di Ermanno Salvatore

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Questa storia inizia negli anni trenta. Gli anni in cui l’Egitto ed il Canale di Suez erano controllati dagli inglesi. Erano gli anni in cui le navi da guerra italiane, sfidando le minacce della flotta inglese, attraversavano il Canale per recarsi nei porti dell’Eritrea e della Somalia. Quando arrivavano a Port Said, per iniziare la traversata, venivano accolte da entusiastiche dimostrazioni di affetto da parte dei connazionali italiani residenti in Egitto. Ad organizzare quella calorosa accoglienza era una giovane italiana nata in Francia e residente in Egitto. Divenne famosa in tutto il mondo per le manifestazioni di fervido patriottismo di cui si rese protagonista nei confronti delle navi e soprattutto dei soldati italiani. Il suo nome era Maria Uva ma tutti a Port Said la chiamavano: “la ragazza del Canale di Suez”. Il rito patriottico di salutare e accompagnare le navi dei legionari in transito era cominciato per caso, al passaggio del piroscafo “Argentina”. Maria era andata con alcuni amici sulla riva del Canale a sventolare la bandiera italiana. Fu tale l’entusiasmo dei soldati per gli inattesi e festosi saluti di quegli italiani che Maria Uva decise di ripeterli e continuarli per tutto il periodo della campagna d’Etiopia. Ogni giorno si alzava all’alba e tornava a casa la sera senza più un filo di voce ma al mattino successivo l’aveva già miracolosamente recuperata. Nacque in Francia nel 1906. Appena bambina rimase orfana e questa tragedia la costrinse a trasferirsi dalla sorella emigrata da alcuni anni in Egitto. Da giovane conobbe un italiano, Pasquale Uva che sposò nel 1933. Pasquale, era nato in Egitto da genitori pugliesi, lui viveva a Port Said dove gestiva un’ autorimessa. Ai tempi della campagna etiopica, nel 1935 -36 . Maria diventò un mito per i nostri marinai. Insieme al marito e ad altre donne delle comunità italiane di Port Said, Ismailia e Suez, aspettava i piroscafi all’ingresso del Canale e in automobile li accompagnava sin dove era possibile (quasi 90 chilometri) sventolando un immenso tricolore, lanciando messaggi e saluti, cantando attraverso un megafono motivi popolari e inni patriottici. Il Canale di Suez era così stretto che si poteva parlare senza troppa fatica con i militari a bordo delle navi. I soldati, commossi e sorpresi di trovare una simile accoglienza a tanta distanza dall’Italia, rimanevano muti ad ascoltare le canzoni delle donne, ma appena il canto finiva scoppiava a bordo un entusiasmo incontenibile. Scrisse un testimone dell’epoca, il colonnello Varo Varanini: “Maria Uva, invocata da prora, chiamata da poppa, cantava, cantava, cantava. Ad ogni strofa un applauso fragoroso, mentre un grido formidabile si alzava dalla coperta, dai ponti, dalle cabine, dalle stive del vapore, diventato loggione, palco e platea. Un teatro semovente, gremito di migliaia e migliaia di spettatori”.

Maria, ormai era diventata per tutti “l’Usignolo del Canale”, “la Signora di Suez”, “l’Angelo protettore”, “La madonna del legionario”, ” Il Fiore italiano”, insomma non si contavano più gli appellativi. Spulciando fra le migliaia e migliaia di lettere di quei volontari, si leggono espressioni di commossa riconoscenza, non soltanto da parte di umili soldati, cui costava una grande fatica scrivere poche righe, ma anche firmate da personaggi importanti. Nel 1936 il duca di Bergamo, comandante della Divisione “Gran Sasso”, elogiava Maria Uva: “per aver profuso tutto il sorriso e il fervore del suo cuore conquistando la riconoscenza di centinaia di migliaia di soldati che non la dimenticheranno mai e porteranno caro il ricordo dell’esempio di amor Patrio che Ella ha loro offerto”.
Le vicende di Maria Uva furono ben presto conosciute anche all’estero grazie alle lettere che inviavano a casa i volontari venuti dalle comunità italiane sparse nel mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina, dalla Francia al Belgio, dalla Germania alla Tunisia. Da queste lettere si apprende che oltre alle tante italiane di Port Said, Ismailia e Suez, che seguivano Maria Uva sulle sponde del Canale, c’era anche un sacerdote, padre Agostino Romoli, il quale, anche di notte, a bordo di un motoscafo, si recava sotto bordo a portare saluti e benedizioni. Sul suo esempio le signore cominciarono a servirsi di imbarcazioni per avvicinarsi il più possibile ai piroscafi e far sentire ai legionari ancora più calorosa quella partecipazione. Si racconta che ad un certo punto del
percorso Maria avvertiva, attraverso il megafono, che di lì a poco la strada si sarebbe discostata per alcuni chilometri dal Canale: “Staremo un’ora senza vederci, il percorso stradale tornerà al Canale poco prima di Ismailia, ci rivedremo lì, arrivederci”. E i volontari aspettavano (se era già sera nessuno andava a dormire), aspettavano, appoggiati ai parapetti delle navi, di riprendere a cantare con quella “sorella italiana”. Intanto la sua popolarità cresceva fra le comunità italiane nel mondo, anche a Brooklyn, dove la sua immagine era esposta nei negozi di
Little Italy. Maria Uva era divenuta in pochi mesi il simbolo del patriottismo italiano. E venne il triste giorno della resa dei conti, quando Maria e il marito dovettero abbandonare Port Said. Gli inglesi non avevano perdonato la loro “sfida”. Ritirata la licenza a Pasquale, i coniugi Uva erano rimasti privi di risorse vitali. Non solo, ma erano stati definiti “very dangerous persons”. Dovevano andarsene. Nel 1937 Maria si ritrovò a Roma all’altare della Patria, fu poi ricevuta a Palazzo Venezia dove le venne consegnato un distintivo fregiato del gladio romano col quale il Duce le manifestava la riconoscenza del popolo italiano per il suo esemplare patriottismo. Soldati italiani imbarcati sulla nave Colombo nel Canale di Suez 1936 In Italia Maria e Pasquale trovarono affettuosa solidarietà. Furono aiutati dal governo a saldare i debiti che erano stati costretti a contrarre in Egitto per sopravvivere, e ottennero entrambi un impiego dignitoso. Ma i problemi non erano finiti.

Negli anni terribili seguiti alla primavera del 1945, Maria Uva rischiò addirittura di essere condannata a morte per i suoi “trascorsi fascisti”. Si salvò quando dimostrò, anche grazie al provvidenziale intervento dell’ambasciatore di Parigi, che era francese. Ne sarebbe derivata una seria complicazione diplomatica. In Egitto aveva lasciato tutto. Si era portata però il patrimonio più prezioso della sua vita: tutte le lettere dei legionari, migliaia e migliaia.

Scrisse anche un libro dal titolo: “Il libro di Maria Uva” che narra le sue scorribande di quegli anni su e giù per il Canale di Suez. All’età di 96 anni Pasquale Uva, il marito di Maria, morì nel 1969 a Meldola in provincia di Forli. Maria invece mori all’età di 97 anni, era il 23 ottobre del 2003. Anche il Presidente della Repubblica Italiana Azeglio Ciampi, inviò all’istituto geriatrico “Davide Drudi” di Meldola, dove “la ragazza di Suez” trascorse i suoi ultimi anni:

“uno speciale, affettuoso pensiero per la gentile signora Maria Uva”.