un dettaglio minore, di Adania Shibli, recensione di Paola Naldi

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Questo libro è stato scritto nel 2002 ed è uscito in Italia nel 2012, ma sembra scritto in questo periodo. Non per niente è stato oggetto di polemiche, in quanto alla scrittrice, essendo palestinese, non è stato consegnato un premio letterario assegnatole da una giuria di Francoforte.

Un dettaglio minore è un breve romanzo che, con una scrittura essenziale e inquietante, ci presenta due eventi distanti nel tempo e in qualche modo connessi.

Una prima parte narra un fatto molto grave del 1949, durante la Nakba, l’esodo e l’espulsione di 700.000 palestinesi, tolti dalle loro case e dalle loro terre.

Alcuni soldati israeliani attaccano dei beduini indifesi nel deserto del Negev, mentre stanno abbeverando i loro dromedari. Catturano una giovane ragazza piangente e terrorizzata.

Questa viene trattata come una bestia, denudata e lavata davanti a tutti, violentata prima dal capitano e poi da altri soldati, infine uccisa e seppellita nella sabbia. Un episodio atroce, cui fa da sfondo il latrato di un cane, che sembra l’unico essere a provare compassione per la ragazza e quasi a volerla difendere.

Questa parte, scritta in terza persona, descrive dettagliatamente la figura del capitano, con le sue operazioni accurate e sistematiche, quasi patologiche.

“Si diresse verso il suo alloggio, si fermò al centro della stanza per alcuni istanti, poi tornò verso la porta e la spalancò per attenuare un po’ l’oscurità. Staccò l’asciugamano ormai completamente asciutto dalla parete dove era appeso, lo bagnò versandovi sopra l’acqua direttamente dalla tanica e si deterse il sudore e la sabbia dal volto e dalle mani.”

Tutto è incredibilmente pacato, quasi asettico, mentre si compie un atto feroce. Per l’essenzialità dei tratti, il protagonista della prima parte appare freddo, enigmatico, quasi ossessivo, una specie di automa. La distanza, che la narratrice pone tra sé e il fatto narrato, non fa altro che sottolinearne l’assurda ferocia, la totale mancanza di qualsiasi seppur minima forma di empatia.

Ordini impartiti, ordini eseguiti sanciscono l’esercizio di un potere che invade uno spazio ampio, nel quale l’individuo si annulla. Una violenza “organizzata”, “la banalità del male”!

Sono i fatti stessi nella loro crudezza a creare comunque emozione.

Il ritmo scandito, l’ossessiva ripetizione di atti e termini sono come un martellamento, una specie di tam-tam da sfondo sonoro.

Molti anni dopo una donna di Ramallah cerca tracce di questo episodio, che l’ha particolarmente colpita. I fatti avvenuti nel 1949 sono resi noti nel 2003 dal quotidiano israeliano Haaretz attraverso un articolo accessibile online.

Il racconto diventa in prima persona. La donna, nata 25 anni prima, il giorno della tragedia, avverte una sorta di richiamo che le chiede di scavare nel passato, per dare evidenza a una storia, che in qualche modo è anche la sua. Vuole ridare voce a una creatura “disumanizzata”, quasi semplice “danno collaterale”.

Fa un viaggio alla ricerca della verità, in un clima ansiogeno e claustrofobico. La paura è il sentimento che pervade tutta la seconda parte. La paura, Adania Shibli la tratteggia perfettamente, la fa sentire, la fa provare, perché la conosce e quando si conosce bene una sensazione è facile riuscire a trasferirla agli altri, come lei fa con le parole. Una vita fatta di vincoli e divieti!

C’è qualcosa di kafkiano nella burocrazia tra cui deve disbrigarsi per poter passare da una zona all’altra o per noleggiare un’auto.

“Il tragitto più lungo che posso compiere con la mia carta d’identità verde, che attesta la mia appartenenza alla zona A, è da casa mia al mio nuovo lavoro. Dal punto di vista legale, però, ogni abitante della zona A può recarsi nella zona B a meno che non ci siano circostanze politiche o militari a impedirlo. In realtà, oggi queste circostanze eccezionali sono talmente tante che sono diventate la norma”

Non riesce a riconoscere la sua terra, non ha più punti di riferimento.

La mappa che ha a disposizione non fa che evidenziare la profonda trasformazione del territorio, divenuto irriconoscibile. Il paesaggio è deserto, poche le presenze con cui avere un contatto.

“Ho paura di perdermi dentro questo paesaggio che mi provoca una forte nostalgia dopo una così lunga assenza, con tutti i cambiamenti che ha subito e l’ennesima conferma che di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan sono tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte alla mia destra e a sinistra.”

La giovane palestinese ha le sue ossessioni. Piena di angoscia suda e si agita ogni volta che deve affrontare un militare israeliano. Non vuole fermarsi, pur conoscendo il rischio che corre.

C’è un cane in entrambe le narrative. Abbaia di continuo nella prima, quasi a voler difendere la ragazza presa prigioniera e, quando sentiamo il latrato di un cane nella seconda, ci sembra quasi che debba essere il fantasma dell’altro, riapparso per ricordare un’ennesima morte che è stata un altro dettaglio minore. Quando la protagonista si ferma per fare benzina, l’odore che punge le sue narici richiama quello, soffocante, che aleggiava intorno alla beduina, dopo che le avevano cosparso la testa di benzina prima di tagliarle i capelli, per eliminare i pidocchi. Era stato per la giovane beduina tutto un seguito di piccole violenze, tutti dettagli minori, prima di arrivare alla fine.

Le due ragazze poi sembrano anche loro dettagli minori, presenze da annientare senza pietà, perché considerate senza alcun valore.

Si tratta di un racconto molto visivo, perché sono fortemente caratterizzati i particolari e abbiamo immagini della vita in Cisgiordania, con il lancio frequente di missili, la convivenza con una “guerra” costante, i paesaggi della Palestina, i silenzi, le colline sabbiose, i muri, villaggi senza animazione, cieli azzurri, tutto interrotto da numerosi e inquietanti check point.

La sua è una scrittura “militante”, nel senso che conta la storia, la veridicità dei fatti, la testimonianza, cui cerca di far corrispondere una modalità di scrittura asciutta, semplificata al massimo.

La narrazione mi ha coinvolto e la trovo particolarmente efficace.

Adania Shibli è nata nel 1974 in Palestina. È autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi. Nel 2001 e 2003 le è stato conferito il premio Qattan Young Writer’s Award-Palestine. Il suo romanzo Masa−S (2002), è stato tradotto in italiano con il titolo Sensi (2007), seguito dalla raccolta di racconti brevi Pallidi segni di quiete (2014). Il suo romanzo qui tradotto, Tafsı−l tha−nawı − (2002), è stato finalista al National Book Award 2020 e all’International Booker Prize 2021. Adania Shibli è anche impegnata nella ricerca accademica e nell’insegnamento.