ritratto di una grande attrice risorgimentale oggi dimenticata, Carlotta Marchionni, di Laura Candiani

Come talvolta accade, e come ci hanno insegnato la storia e la letteratura, cominciando col bellissimo canto del Purgatorio dedicato proprio ai superbi e alla caducità della fama, certi nomi un tempo celebri cadono presto nella generale dimenticanza. Dante, come esempio significativo, ricorda nel canto XI, per bocca di Oderisi da Gubbio, il senese Provenzano Salvani: quando era in vita il suo nome risuonava in tutta la Toscana, ora a mala pena lo si rammenta nella sua città. La sorte di Carlotta Marchionni è simile: oggi è quasi del tutto sconosciuta, ma nella prima metà dell’Ottocento fu ritenuta una paladina del Risorgimento, un’attrice straordinaria e una impareggiabile interprete delle tragedie di Vittorio Alfieri e di Silvio Pellico.

Nata quasi per caso a Pescia (allora provincia di Lucca, ora di Pistoia) il 14 giugno 1796 quando i genitori erano impegnati in una tournée con la compagnia Mancini, era figlia d’arte da parte della madre Elisabetta (Bettina) Baldesi, attrice versatile e apprezzata protagonista delle opere alfieriane, mentre il padre Angelo era un più modesto caratterista e interprete delle maschere di Arlecchino e Brighella, soprattutto in compagnie di giro toscane. Dopo aver studiato nel collegio delle Orsoline a Verona, che le lasciò una profonda devozione, Carlotta iniziò a calcare le scene da bambina, in piccoli ruoli di paggetto, ma appena quattordicenne interpretava già parti d’ingenua e di generica. Fra i 18 e i 20 anni entrò nella compagnia Antonio Belloni-Ferdinando Meraviglia, di cui faceva parte anche la madre insieme a Carlo Calamari; successivamente la compagnia prese il nome Marchionni e Carlotta cominciò a ricoprire i ruoli di prima attrice, mentre le esibizioni si tenevano per lo più in teatri toscani. Nel 1811 recitò nell’Oreste di Alfieri, ma nel 1812 e poi nel 1814, a Lucca, fu la tragica protagonista di Mirra, che divenne un suo cavallo di battaglia. Si esibì con grande successo in varie compagnie, fra cui Pani e Venier, sempre nelle parti principali, e si segnalò sia in classici sia in drammi popolari. A Firenze si distinse nel ruolo di Isabella nella tragedia Filippo di Alfieri, ma fu pure apprezzata in lavori più brillanti del repertorio goldoniano. Nel 1815, quando recitava a Milano al Teatro Lentasio, venne notata dallo scrittore Ludovico di Breme, abate ed ex cappellano presso la corte napoleonica, in un particolare momento di transizione a livello sia culturale che personale. Carlotta ne divenne dunque l’ispiratrice e l’amante, oltre che l’interprete a Mantova, nel novembre dello stesso anno, di una sfortunata messa in scena della tragedia Ida, che non venne gradita dal pubblico e che l’autore quindi decise di non pubblicare. Riscosse invece il generale plauso nella Francesca da Riminidi Silvio Pellico che, dopo l’accoglienza trionfale al Teatro Re di Milano il 18 agosto 1815, venne portata in tournée nei principali teatri italiani negli anni seguenti. In quel periodo Pellico, ormai scrittore conosciuto, era impegnato in prima linea nella polemica classico-romantica che si esprimeva sulle pagine della rivista Il Conciliatore e la stessa Carlotta era ritenuta un’attrice affermata, amica personale di Pellico, ma anche di Maroncelli, Pietro Giordani e di altri patrioti. Si sa che ricevette pubblici apprezzamenti da Stendhal ed ebbe cordiali rapporti sia con Byron che con Madame de Staël, ovvero il fior fiore degli intellettuali dell’epoca. A partire dal 1816 introdusse importanti novità nella recitazione, che faranno scuola, in particolare: la rinuncia al fastidioso brusio del suggeritore, le prove lunghe e approfondite che spesso guidava personalmente, la naturalezza in scena, l’espressività dello sguardo e del portamento, senza artifici, la maggior cura nell’interpretazione, alla maniera della scuola francese. Quello stesso anno un grave lutto colpì la sua famiglia per la morte accidentale e prematura della sorella Giuseppina, anche lei attrice, che era stata morsa dal cane del collega attore Luigi Domeniconi; il fratello Luigi, invece, aveva da tempo lasciato la compagnia teatrale della madre per disaccordi professionali e si era stabilito a Napoli, dove portò avanti la propria carriera.

Nel 1818 Carlotta si distinse nella commedia La lusinghiera di Alberto Nota, nel complesso ruolo di donna Giulia; nel 1820 il commediografo Carlo Roti scrisse appositamente per lei il dramma Bianca e Fernando, ma intanto si esibiva in un repertorio vasto e vario, in grado com’era di passare da Mirandolina e Rosaura a Clitennestra e Pia de’ Tolomei. L’arresto di Maroncelli e Pellico, la morte di Ludovico di Breme nel 1820 e il coinvolgimento politico di Angelo Canova, attore della compagnia Marchionni, accusato di aver aderito alla Carboneria e condannato per questo a cinque anni di carcere, segnarono un punto di svolta nella sua vita personale e nella carriera. Il giudice istruttore nel processo sequestrò diverse lettere dirette proprio a lei e alla cugina Teresa, per breve tempo fidanzata di Pellico, contenenti sia dichiarazioni d’amore, sia riferimenti alla situazione politica per cui le due donne vennero convocate dal tribunale di Venezia nel febbraio del 1821. A questo punto entrambe decisero di lasciare Milano dove la censura austriaca era sempre più opprimente. Sciolta la propria compagnia teatrale, Carlotta, insieme alla fedele Teresa, alla madre e a Calamari, entrò nella Compagnia Reale Sarda di Torino dove rimase fino al suo ritiro dalle scene che avvenne il 3 marzo del 1840, sostenendo i ruoli primari e poi negli ultimi anni quello di madre nobile. Il debutto avvenne al Teatro Carignano di Torino con La bella fattora, adattamento di un testo francese; in quel periodo veniva descritta nelle memorie del collega Righetti come «snella, di portamento leggiadro, vivace d’espressione, insinuante nella voce, dotata di perfetta dizione e di pronta intelligenza». Da evidenziare che il suo contratto prevedeva che fosse la prima attrice assoluta, cioè senza rivali o sostitute, venisse stipendiata direttamente dalla Tesoreria dello Stato e ricevesse una paga di undicimila lire, all’epoca una cifra davvero considerevole. Per circa un triennio (1836-39) fu affiancata dalla collega Antonietta Rocchi-Robotti a cui fece da maestra per i ruoli giovanili, ma che poi dovette cedere il posto ad Adelaide Ristori. Per lei scrissero Marenco (Pia de’ Tolomei), Giacinto Battaglia, Brofferio, Alberto Nota. Proprio con un suo lavoro, La fiera, Marchionni decise di lasciare le scene, nonostante l’età ancora piuttosto giovane. Il pubblico torinese le rivolse omaggi osannanti e le venne donata una preziosa corona di foglie d’alloro modellate in oro e argento. Il giornale teatrale Il Figaro scrisse, dopo il suo congedo, che compendiava «in sé stessa i tratti speciali del dramma moderno», esprimendo «tutte le gradazioni della poesia; dalle note gravi alle dolci, dalle elevate alle volgari, dalle fantastiche alle appassionate». Assai significativo e indice della sua indiscutibile fama che nell’occasione venisse pure pubblicato il volume di autori vari: Poesie per la prima attrice italiana Carlotta Marchionni, scelte fra le edite ed inedite, con la giunta di altre: scritte nell’occasione che abbandona il teatro: precedute dalla sua biografia. Ottenuta una adeguata pensione per la sua attività professionale, divenne insegnante all’Accademia filodrammatica di Torino, di cui poi fu nominata direttrice, e tornò alcune volte in scena per beneficenza come nel 1843, quando interpretò di nuovo, a dieci anni esatti dalla prima, la tragedia Gismonda da Mendrisiodi Pellico. In questo periodo prese sotto la sua ala la futura grande interprete Adelaide Ristori (1822-1906) –allora giovanissima –riservandole sempre un’ammirazione incondizionata.

Carlotta Marchionni, in un’epoca in cui le attrici erano spesso considerate donne di facili costumi, dette di sé un’immagine di castità e dedizione alla carriera teatrale, quasi confondendo arte e vita privata, e così appare anche nel giudizio dell’allieva e amica Ristori nella autobiografia Ricordi e studi artistici. In realtà la scoperta di una serie di lettere e documenti presso la Biblioteca Nazionale di Firenze e l’archivio dell’Università di Padova ha portato, in tempi recenti, alla rivelazione di alcune storie sentimentali finora ignote o quasi: si comincia in gioventù con la passione per il collega e maestro Fernando (Ferdinando) Meraviglia. Si prosegue con la relazione con il nobile milanese e attore dilettante Giulio Caponago, risalente all’estate-autunno del 1820, rivale di Maroncelli, anch’egli innamorato dell’attrice; intorno al 1824 si sa di una breve storia con l’egittologo Ippolito Rosellini. Negli anni Trenta, infine, ebbe un amore travagliato con l’architetto mantovano Rodolfo Vantini, che avrebbe voluto sposarla a patto che abbandonasse le scene, ma lei non fu disposta a un tale sacrificio. Qualche sospetto di un’altra vicenda amorosa riguarda lo scrittore Angelo Brofferio che la descrive in una sua poesia, ma probabilmente si trattò solo di una bella amicizia. Carlotta Marchionni morì a Torino il 1° febbraio 1861.

Nel Cimitero Monumentale di quella città lei stessa aveva fatto erigere nel 1835 un monumento funebre in onore dell’amata madre in cui compare mentre la morente le dà l’ultimo affettuoso saluto, cosa che in realtà non poté avvenire perché Carlotta in quel triste momento era lontana. Volle allora che la carezza mai data rimanesse per sempre scolpita nel marmo e insieme a lei verrà sepolta. Nella cittadina natale una lapide la ricorda nell’atrio del teatro Pacini e una via ne ha preso il nome, pur rimanendo da tempo senza il relativo cartello indicatore. Anche a Bruzzano (Milano) e a Bologna le sono state intitolate due strade. In suo onore furono coniate due medaglie, una a Bologna e l’altra a Milano, fatto davvero eccezionale, che era stato riservato in passato solo alla grande Isabella Andreini nel lontano 1605. Due busti marmorei la raffigurano, uno a Bologna, l’altro a Torino, nel vestibolo del Teatro d’Angennes. Ora è giunto il momento di fare la sua conoscenza.