Nora e Silia, da bambole a femministe? di Asia Roberta Cogliati

Attorno alle figure femminili dei drammaturghi Henrik Ibsen (1828 — 1906) e Luigi Pirandello (1867 — 1936) emergono alcune tematiche di genere degne d’attenzione: la rappresentazione della moglie borghese come una bambina, da cui scaturisce poi anche l’interessante tema del complesso edipico e la possibilità di uscirne.
Nora Helmer, che abbandona marito e figli alla fine di Casa di bambola (1879), è stata protagonista di una discussione molto ambivalente. L’azione così ribelle e anticonformista rispetto alla società borghese di fine Ottocento ha suscitato non poche riflessioni, da chi l’ha vista come una paladina del femminismo a chi invece l’ha apertamente criticata. In Italia, come leggiamo dalle cronache teatrali di Antonio Gramsci (1891 — 1937), filosofo e politico italiano, la ricezione del pubblico non è stata estremamente positiva, scrive infatti: «E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito […]». Il pubblico italiano, infatti, non è riuscito a comprendere l’azione così estrema di Nora, soprattutto l’abbandono dei figli. La scelta di andarsene dal focolare protetto, dalla casa borghese e quindi dallo status sociale e da tutti i comfort annessi è inverosimile per chi, invece, era ancora totalmente immerso in questi meccanismi. Sempre secondo Gramsci il dramma necessita un contenuto morale che coinvolga emotivamente gli spettatori e Casa di bambola è perfetto in quanto narra di un cambiamento di costume rispetto al passato, per cui le forme di liberazione e realizzazione femminile non sono più esclusivamente circoscritte alla famiglia. Nora viene vista dunque in questo caso come un’anima in cerca di una sua libertà e della sua vera interiorità. Il costume della borghesia italiana, purtroppo, non era ancora pronto ad accogliere questo mutamento e non riesce, ma soprattutto non può, comprendere il dramma esistenziale di Nora.
L’intenzione femminista è però smentita dall’autore stesso, ed effettivamente la fine di Nora non è certa, non si sa se la sua partenza sia definitiva o meno. Il destino di Nora dipende da come scegliamo di interpretare il suo percorso. Possiamo, infatti, rintracciare in lei una dimensione edipica, riscontrabile soprattutto negli atteggiamenti del marito Torvald nei suoi confronti, dato che la tratta come una bambina da viziare ed esibire. Nora si crogiola in questa visione ideale dove suo marito — padre è un eroe pronto a difenderla in ogni occasione, fino alla smentita finale, quando il mondo favoloso in cui viveva crolla a pezzi.
La dicotomia di Torvald come marito — padre è evidente, ad esempio, in questa dichiarazione tratta dalla pièce: «Tant’è vero che è diventata sua due volte, per così dire, come se egli l’avesse messa al mondo una seconda volta». L’utilizzo del campo semantico della nascita incide notevolmente su quella che è Nora agli occhi di Torvald: una bambina che ha due paternità, la prima naturale, e la seconda coniugale. C’è però qualcosa che si rompe in Nora, dato che non ritorna sotto la protezione del marito, bensì decide di lasciare la casa, consapevole che il loro matrimonio non sia salvabile. Ecco che intorno alle motivazioni della sua scelta si diramano più interpretazioni. Scipio Slataper (1888 — 1915), scrittore italiano, vede Nora come un personaggio positivo, emblematico, un’eroina che nasce quando il mondo a cui credeva viene distrutto. Lei era convinta che suo marito fosse un eroe che la proteggeva e in cambio le chiedeva solo di amarla e di essere una buona moglie trofeo, ma quando le azioni di Nora in difesa di questo amore non vengono riconosciute e apprezzate da Torvald, accade che questa convinzione crolla e si ritrova a dover essere eroina di sé stessa.
Improvvisamente Nora acquisisce quell’umanità che prima, essendo vista e trattata, pure da sé stessa, come una bambola, non aveva.
Georg Groddeck (1866 — 1934), psicoanalista tedesco, la pensa diversamente: a suo parere Nora non è altro che un’abilissima dissimulatrice, che trasforma e plasma la vita a seconda dei suoi sogni. Nora in questa concezione è consapevole del suo essere una bambola e ne trae vantaggio finché è utile al suo obiettivo.
Lei sceglie di comportarsi come una bambina, di compiacere il marito e di negargli l’accesso alla sua interiorità che, a contrario di Slataper, Groddeck pensa lei abbia fin dal principio e che la nasconda appositamente.
Quindi chi è effettivamente Nora Helmer alla fine di Casa di bambola? È veramente consapevole della sua umanità e interiorità? O forse è solo delusa dal fatto che Torlvald non rispecchi il suo ideale di marito — padre e quindi lascia la casa per cercare un altro eroe disposto a difenderla a ogni costo? A riguardo Roberto Alonge (1942), critico teatrale italiano, commenta: «Nora ha attraversato indenne tutto il campo di guerra femminista per ritrovarsi identica a sé stessa. Non è logicamente possibile contestare la condizione di moglie — bambola, invocare una pari dignità dei due coniugi, e poi riprendere a prospettare il sogno di un cavaliere che galoppi in suo aiuto, bello e intrepido come un San Giorgio. […] Torvald è irrecuperabile, è bruciato. Non è stato in grado di garantirle appoggio, di proteggerla, dopo averglielo assicurato e urlato a sazietà, a ogni piè sospinto. Nora è partita per un viaggio senza ritorno, se n’è andata alla ricerca di un uomo vero, di un padre. Non si fermerà prima di averlo incontrato» (Roberto Alonge, Epopea borghese nel teatro di Ibsen, Napoli, Guida Editori, 1983).
Il complesso edipico che caratterizza il matrimonio di Nora e Torvald si ritrova anche in Il giuoco delle parti (1918) di Luigi Pirandello, soprattutto tra la protagonista femminile Silia e il suo amante Guido. Anche Silia viene, infatti, presentata con atteggiamenti infantili, come fosse una bambina, ma sia lei che Nora in realtà sono “altro” che dissimulano. Guido dichiara di volere la versione bambina di Silia, non “l’altra”, per un suo desiderio edipico di possesso e protezione come fosse sua figlia, fino ad arrivare ad aiutarla a togliere di mezzo il marito. Lei quindi assume consapevolmente il ruolo di bambina, per ottenere quello che vuole. Silia è una delle prime donne del teatro pirandelliano che viene analizzata puramente nella sua femminilità, complessa e contraddittoria, ma è anche una donna consapevole del gioco di ruoli in cui è immersa, anzi intrappolata, dato che lei stessa manifesta la sensazione di trovarsi in prigione. Per lei la prigione è la consapevolezza che la donna sia vista unicamente come un oggetto del desiderio maschile, infatti inizialmente è restia a concedersi all’amante Guido, per rifiutare questo concetto maschilista.
Si può notare l’affinità nell’intento femminista della protagonista di Ibsen con quella pirandelliana, ma le loro azioni vengono svuotate dalla recita di cui prendono parte. Silia, a differenza di Nora, non è madre perché Leone non è riuscito a darle figli e lei proietta questa mancanza, essendo ciò che l’avrebbe completata secondo il ruolo sociale borghese imposto per la donna, in un odio verso il marito. Il suo obbiettivo diventa quindi quello di sbarazzarsene e quando riesce a ottenere l’appoggio e aiuto di Guido per svolgere il suo piano ecco che finalmente gli si concede.
È interessante osservare come proprio dopo aver interpretato la parte di una prostituta per ingannare quattro uomini, essa decida di intrattenere un rapporto con l’amante, come se fosse diventata davvero un po’ prostituta, chiedendo in cambio non denaro ma cooperazione e complicità. Silia dunque, rispetto a Nora che indossa solo la maschera della moglie — bambina, della bambola, ne indossa molte di più, giocando molteplici ruoli, senza riuscire mai ad essere solo “quell’altra”, rientrando perfettamente nella concezione pirandelliana dell’io disgregato.

