Moby Dick alla prova, il sacro si nasconde in un doppio teatrale, recensione di Valeria Vite

Moby Dick alla prova. Il sacro si nasconde in un doppio teatrale

Moby Dick alla prova, di Orson Welles, che l’attore e drammaturgo americano adattò dal celeberrimo e omonimo capolavoro di Herman Melville, è una delle proposte di questo fine stagione del Teatro Sociale di Como. Uno spettacolo denso e impegnativo, sia per quanto riguarda il testo sia in relazione alla durata, ma estremamente avvincente.

La trama è nota a tutti, si tratta dell’epico e titanico scontro tra il capitano Achab e il capodoglio albino Moby Dick, reo di avere amputato una gamba al vecchio lupo di mare. Ma è lecito per gli uomini sfidare la natura? Non sarebbe più saggio cacciare generici capodogli piuttosto che accanirsi contro una creatura quasi leggendaria? Come anticipato da una profezia biblica fatta da Elia, un misterioso personaggio, la ciurma del capitano verrà distrutta; sopravviverà solo il narratore, Ishmael, l’unico a cui verrà offerta la grazia di raccontare la straordinaria avventura di Achab.

Portato in scena da Elio De Capitani che, oltre a firmarne la regia, interpreta diversi ruoli (tra i quali Achab), lo spettacolo riesce a tramutare quest’opera colossale in alta poesia.

Le prime scene tuttavia offrono alcuni elementi che vanno oltre la semplice narrazione inserendo una componente metateatrale: le riflessioni di una compagnia teatrale che sta per portare in scena l’opera di Melville.

La compagnia, a dire il vero, avrebbe dovuto allestire Re Lear, ma forse perché c’è un filo di follia e di empietà che accomuna i due drammi o forse soltanto per la volontà del capocomico, ecco che si trova a riciclare le scenografie della tragedia shakespeariana e a scontrarsi con inaspettate perplessità e difficoltà. Come evocare un capodoglio sul palco? O, ancor più difficile, come impiegare le attrici della compagnia nella recitazione di un testo in cui i personaggi sono tutti uomini?

È indubbio che il capolavoro di Melville sia tanto un’opera di grande poesia, quanto una sfida difficile, gli artisti ne sono consapevoli e sono felici di affrontarla.

Viene in mente il Testori de I Promessi Sposi alla prova, un progetto forse ancora più colossale, un gioco del doppio che intriga e fa crescere l’attenzione, eppure, nel corso della vicenda di Achab, il pubblico dimenticherà anche il gioco del metateatro immedesimandosi nella trama fino, all’ultima battuta, quando Ishmael riporterà gli spettatori alla realtà degli attori con il suo sofferto: “Potete chiudere il sipario“.

La traduzione di Cristina Viti è eccezionale: i monologhi, colonna portante dell’opera, sono vibranti, profondi, musicali, altamente poetici ma altrettanto dinamici, mentre i cori, cantanti in inglese, riescono a far rivivere la fatica, l’energia, e le speranze di una ciurma poliglotta e senz’anima. Sono canti accompagnati da possenti percussioni , che evocano il fracasso di una baleniera, oppure dal clarinetto e dalla fisarmonica di Mario Arcari e Francesca Breschi.

I personaggi sono uomini forti, grezzi, abituati agli sforzi e alle privazioni, il loro colore è il grigio, come le onde dell’oceano quando il sole è coperto, come un cielo nuvoloso, come la dura pelle dei capodogli. Grigi sono i tavoli di ferro e le scale della sala prove in cui si prepara lo spettacolo, grigia è l’enorme vela della nave, che rappresenta anche l’ondeggiare del mare e, gonfiandosi, il possente corpo di Moby Dick.

Un colore freddo, spietato come la caccia alle balene e metallico come il cuore maledetto di Achab.