viva le donne, viva i diritti civili, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Viva le donne. Viva i diritti civili

Carissime lettrici e carissimi lettori,
gli auguri non si danno mai prima. Domenica, quella passata da quasi una settimana, si festeggiava, a casa o al ristorante, un accadimento che si ripete, attuale, ogni anno. Poi se ne celebrava, nel ricordo, un altro. Si festeggiava la donna madre, la donna creatrice, generatrice. Di lei era la festa, ma non solo la donna-mamma legata, in senso ristretto, a chi genera figli e figlie in senso classico, con quel significato ancora legato a un modello di società patriarcale dove si tende (anche subdolamente) a far ritornare la donna negli interni, più sfacciatamente, a casa per la cura della famiglia. Si è festeggiata domenica, come si deve fare ogni anno in questo maggio, la donna creatrice e non solo madre che nutre e cura la prole. È di lei che parleremo.
Anche l’altra festa, che abbiamo tutte e tutti ricordato domenica 12 maggio, a pensarci bene, riguarda il genere femminile. Perché il divorzio ha reso la vita più facile soprattutto alle donne che, se si fossero sentite costrette dentro un matrimonio sbagliato, avrebbero finito per essere quelle che la pagavano di più, rimanendone incastrate, anzi meglio, incarcerate dentro.
Era il 12 maggio del 1974, esattamente mezzo secolo fa. Il divorzio, uscito da un referendum voluto ironicamente proprio da chi desiderava annullarlo definitivamente, diventava ormai cosa italiana. In quella data è stata confermata una conquista civile tra le più grandi, forse, come giustamente è stato detto, la più grande in assoluto. Anche rispetto all’aborto, che era più sentito dalle donne che già lo praticavano, che già lo avevano provato sulla loro pelle, nella costrizione delle scelte, nascoste, tutte illegali, nel bene, ma soprattutto nel male di tante morti sbagliate, più che a causa di mani poco esperte, per le condizioni ambientali, tra le peggiori, in cui si praticava.
Il referendum del 1974 verteva sull’accettazione o l’abrogazione, della cosiddetta legge Baslini-Fortuna, dal nome dei due deputati (Loris Fortuna, socialista, e Antonio Baslini, del partito liberale) che l’avevano proposta nel 1970. In quel momento, però, la legge prevedeva tempi più lunghi che si sono ridotti con il tempo a 6 mesi per il divorzio che segue a una separazione consensuale e a 1 anno per quello che segue a una separazione giudiziale, più lungo e costoso e legato al non consenso di uno dei due coniugi.
La vittoria del no all’abrogazione della legge 898/1970 è stata come un grido di gioiosa felicità di una società civile che diventava adulta, consapevole e libera. Personalmente, per me quel referendum è legato a un doppio ricordo: era la prima volta che andavo a votare e vinceva la mia scelta. Come quella della maggioranza delle italiane e degli italiani.
Il referendum sul divorzio mi porta istintivamente al film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, alla speranza di un’azione rivoluzionaria che trasforma radicalmente la vita, il quotidiano di ciascun cittadino e cittadina. Allora lo sconvolgimento erano le donne chiamate con la scheda elettorale «per nome e cognome» e che risposero andando in massa a votare (oltre il 90% di chi fu chiamata, tante, come la Delia del film).
Come si vede alla fine dell’opera di Cortellesi, le donne con quel voto referendario iniziarono a trovare sé stesse, a capire di poter contare qualcosa, di poter riuscire a cambiare la società in cui vivevano, di essere, appunto, nominate e, quel che è più importante, di potere, di avere il potere, di nominare le cose, i bisogni, per contribuire a realizzarli, anche per sé stesse e per le proprie figlie per le quali Delia, le tante Delie italiane, hanno cominciato a pensare che non è sufficiente, non basta, un vestito da sposa!
La scelta, allora, nel 1946, era tra la Repubblica e la Monarchia, una decisione che le italiane e gli italiani presero con coraggio, alla fine di una guerra disastrosa e sanguinosa, ma, soprattutto, dopo un ventennio di dittatura che aveva portato, tra le altre cose, l’Italia in guerra. Alla fine della lotta partigiana di liberazione, che, purtroppo aveva fatto contare altri morti, seppure per la libertà.
Furono le donne, allora, a votare in massa. Furono loro, soprattutto, a contribuire a scegliere la Repubblica. Le donne sicuramente fecero la differenza.
Il referendum sul divorzio fu la stessa cosa. Ebbe la stessa forza di cambiamento sulla società civile. La stessa potenza di divisione positiva. Fu davvero un plebiscito. Ci si schierò pro o contro, senza, come dire, mezzi termini, senza compromessi. I giornali, i personaggi pubblici, le artiste e gli artisti, gli attori e le attrici, gli e le intellettuali del tempo, la società civile erano nettamente schierati/e. Si collocarono assolutamente a favore del sì personaggi famosi come Albano e Romina Power, Lino Banfi, Gustav Thoeni, Franco Zeffirelli e Gigliola Cinquetti che con quel sì ripetuto ben 16 volte nella canzone portata all’Eurovision divenne una sorta di stendardo. Ma dall’altra sponda c’era la simpatia degli sketch (in onda in televisione e nei cinema) sostenuti e recitati da Gianni Morandi, Gigi Proietti, Nino Manfredi, Monica Vitti. Erano per il no Mike Buongiorno, Gigi Riva e Gianni Rivera. Tra gli e le intellettuali c’erano tra tanti/e: Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti e Alberto Moravia.
Quel 12 e13 maggio di cinquanta anni fa andarono a votare 33 milioni di persone, l’87, 72% degli e delle aventi diritto al voto. Il No vinse davvero con una grande risultato: il 59,26 per cento dei voti. Fu una vittoria schiacciante e soprattutto trasversale ai partiti e alla chiesa che insieme alla Dc, la Democrazia cristiana, soprattutto quella parte che faceva riferimento ad Amintore Fanfani, e al Msi, il movimento sociale di Giorgio Almirante, aveva voluto il referendum per abolire la legge sul divorzio. Almirante colse l’opportunità per dire che chi votava no avrebbe favorito, addirittura indirettamente votato, il partito comunista e l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, si premurò di negare apertamente questa affermazione durante una delle tribune televisive, in verità molto più ordinate dei Talk odierni. La stampa si schierò con nettezza. Sul fronte del no si posero il Corriere della SeraLa StampaPaese Sera, l’Europeo fino a una rivista popolare come Grand Hotel e poi Diabolik. La scelta referendaria fu talmente sentita che uno smisurato No venne proiettato a Firenze sulla cupola del Brunelleschi di Santa Maria del Fiore. Un’altra rivista, Linus, addirittura fece per l’occasione una copertina con un enorme No scritto su una scheda, tra i due personaggi cartonati, Sally che lo grida contro Lucy, la quale si trova a rotolare su sé stessa, rivoltata dalla decisa e incisiva potenza dell’urlo.
Non a caso entrambe le figure nominate sono femminili! Le donne, lo ripetiamo, erano le più penalizzate dalla mancanza di una legge che potesse liberarle letteralmente da un matrimonio malfatto. Se fosse capitato sarebbero state loro a soffrire di più della situazione sentita ormai come sbagliata. Per le donne era difficile sopportare un disaccordo a casa e fuori casa, dichiarare il “fallimento” della scelta fatta. Le prime donne che chiesero il divorzio, già prima del referendum, furono condannate socialmente. Lo fu Luisa Benassi che ottenne il divorzio dal tribunale di Modena alla fine di dicembre del 1970. Il mese dopo, a Padova, si sciolse il matrimonio di Tina Rocci, ma entrambe, segnate dal giudizio sociale, non ebbero vita facile: «Dicendo no le donne – scriveva la rivista di controinformazione Effe – hanno detto sì alla propria liberazione, alla gioia di un rapporto vivo e non putrefatto con l’uomo, alla fierezza di essere infine interlocutrici intelligenti dei propri figli».
Gli antidivorzisti tentarono di tutto, usarono persino l’azzardato paragone con dei ragazzi violenti americani che furono pensati tutti figli di persone divorziate! E poi si raccontava di mariti che sarebbero scappati con le domestiche e depravazioni varie. Si esaltavano le ragazze «che volevano un uomo che credeva al matrimonio e non al divorzio».
Ricordo con gioia i caroselli di macchine per le strade di Roma, l’allegria contagiosa, i titoli dei giornali. La campagna elettorale era stata accesa e soprattutto da parte di chi voleva si optasse per il Sì, all’insegna del fare leva sui timori e sulla coscienza. Celeberrima, e per certi versi profetica, la frase di Amintore Fanfani che a Caltanisetta (era il 26 aprile, a campagna elettorale aperta da pochi giorni) disse: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva». Aveva visto lungo l’onorevole Fanfani, e noi aggiungiamo: «per fortuna»!
Domenica scorsa era anche la Festa della Mamma. Concetto controverso, rimesso in discussione dal femminismo e dalle donne, nel tentativo, sempre in agguato, di restaurazione da parte della pubblicità e della società patriarcale che, come scrive Lea Melandri su L’Internazionale, le vuole «indispensabili, necessarie a uomini che non hanno mai smesso di affidarsi alle loro cure come figli, mettendo a rischio la loro maschera virile». Melandri nello stesso articolo scritto proprio per la Festa dedicata dice: «La madre è il primo e l’ultimo tabù, monumento intoccabile della potenza originaria che l’uomo ha conosciuto inerme, in totale dipendenza, e poi sottomesso con le armi che – come scrive Jules Michelet – gli ha dato un privilegio naturalerafforzato dalla storia con le sue istituzioni e con le sue leggi. È solo per magnanimità che il progresso civile l’avrebbe poi accolta nel corso dei secoli come fonte di sussistenza e di rinnovamento morale. Che altro sono oggi il Valore D, i talenti femminili – capacità di ascolto e di mediazione, sensibilità e attitudine alla cura —, se non le tradizionali doti attribuite per natura al materno? Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a vivere per gli altriamare e partorire, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una religione, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla differenza femminile».
La psicanalisi ha dedicato tanta letteratura al concetto di madre. Lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati (qui anche in contraddizione con lo stesso Lacan) scrive in un suo libro: «Bisognerebbe essere giusti con le madri e riconoscere loro la funzione essenziale ed insostituibile nell’adozione simbolica della vita. Bisognerebbe sottrarre la maternità ad ogni sua rappresentazione naturalistica: madre non è il nome della genitrice, ma, al di là della Natura, al di là del sesso e della stirpe, è il nome di quell’Altro che offre le proprie mani alla vita che viene al mondo, che risponde alla sua invocazione, che la sostiene con il proprio desiderio. Bisognerebbe non ridurre la madre a un appetito di morte, a una spinta a divorare il proprio frutto, a diventare proprietaria esclusiva e incestuosa della vita che ha messo al mondo. Bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna immancabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato in ombra, patologico, abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario. Bisognerebbe non identificare la madre con il virus di ogni malattia psichica. Bisognerebbe non dimenticare la donazione che precede ogni eventuale divorazione e che custodisce la memoria più profonda del materno […] Il legame arcaico con la madre non è solo una palude mortifera da cui bisogna liberarsi, ma è in primis una donazione che rende possibile la trasmissione non solo e non anzitutto della vita in quanto tale, ma del sentimento della vita, del desiderio di vivere […] Bisognerebbe non pensare solo alla sua onnipotenza oscura, ma anche alla sua mancanza. Bisognerebbe provare a essere giusti con la madre e riconoscere nelle sue mani un’ospitalità senza proprietà di cui la vita umana necessita. Bisognerebbe rintracciare nel suo dono del respiro la possibilità che la vita abbia un inizio e che possa ogni volta ricominciare» (Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, 2015).