mio padre non mi ha insegnato niente, di Massimiliano Smeriglio, recensione di Barbara Belotti

Mio padre non mi ha insegnato niente

Tre sorprese in pochi giorni. La prima: un caro amico di vecchia data mi segnala e poi regala un libro. Conoscendo i suoi gusti e le sue passioni ho accolto il volume con molta fiducia. Seconda sorpresa: sulla quarta di copertina del volume appena scartato, leggo un breve commento di Erri De Luca: «Ho trovato qui la biografia di un bambino cresciuto in una borgata romana, in epoche magre di fine secolo scorso, nato peggio che indesiderato. Così si presenta al nastro di partenza, da orfano di genitori in vita». Non conosco personalmente Erri De Luca ma, fidandomi dei suoi aspetti letterari e culturali, mi sono immersa nella lettura. E immersa è il termine giusto, perché l’ho letto tutto d’un fiato e sono riemersa 24 ore dopo.

Il libro si intitola Mio padre non mi ha insegnato niente ed è l’ultima fatica letteraria di Massimiliano Smeriglio edito da Fuori Scena. Non ho mai incontrato l’autore di persona, da lontano ho seguito la sua carriera politica ma non conoscevo il suo percorso di scrittura. E questa è la terza sorpresa: perché si tratta di un bel libro, ambientato nella Roma degli ultimi decenni del Novecento, quando il boom economico è quasi passato e ci si avvia verso l’austerity, i conflitti sociali, le passioni politiche, le lotte e la voglia di ribaltare il mondo.
La mia non vuole essere una presentazione canonica del libro di Massimiliano Smeriglio, lascio ad altre recensioni la disamina completa; scelgo di seguire le indicazioni editoriali di Vitamine vaganti e una prospettiva di genere osservando le diverse figure femminili presenti in Mio padre non mi ha insegnato niente, raccontate da Smeriglio con i giusti toni di chi non intende nascondere le esperienze vissute né i ricordi «che fanno arrossire».
Le pagine del romanzo scorrono veloci in una serie di vicende che costruiscono il personaggio Emme ancora prima della nascita. Emme è un bambino «nato malconcio», cresciuto nel quartiere popolare romano di Garbatella e all’Idroscalo di Ostia, dove suo nonno Ernesto possiede una casetta modesta, abusiva, piena del rumore della famiglia e di memorie d’infanzia, tutta affacciata sull’arenile.

Mar Tirreno misto a Tevere, coi fondali torbidi, la sabbia nera e il catrame che, immancabilmente, si appiccica sotto la pianta dei piedi. La casa delle vacanze e l’Idroscalo aprono la storia, tornano in più riprese e si ripresentano alla fine, quando l’animo del bambino, ormai uomo, riesce a chiudere il cerchio, a rimettere in fila i ricordi “assaltati”.
Smeriglio non fa sconti a se stesso, alla sua famiglia e ai periodi storici trascorsi.
Le sue sono vicende dolorose che avrebbero potuto schiantarlo mille volte, fargli perdere l’orizzonte e il cammino per arrivarci. Come è accaduto a tanti suoi amici.
E invece, adulto, si ritrova «con lo sguardo sull’orizzonte di un tramonto che è rimasto lo
stesso». Afferma, nelle ultime pagine del libro, che non sopporta la parola “resilienza” e mi trovo d’accordo con lui: «termine abusato, che accompagna l’adesione alla contemporaneità con la necessaria adattabilità. Capacità di flettersi, precisa la Treccani. Accordarsi allo spirito del tempo, senza troppo spreco di energie e risorse. E nessuna ambizione trasformativa […]. A me piace pensare che il contrario di resilienza sia semplicemente resistenza. Perché non tutto si può piegare e plasmare».
È vero, molto meglio resistere che lasciarsi trascinare dalla corrente ed Emme, nel suo percorso di crescita, ha provato a resistere, a trasformare il destino che, in un quartiere popolare e in una famiglia in cui quadrano poco, anzi per niente, i conti di casa, sembra già scritto. Per molti suoi amici è stato così, per lui no, resiste a «un destino fatto di rovesci e combattimenti».
Ad aiutarlo nella crescita non sono i genitori che lo lasciano orfano, come ha detto bene Erri De Luca, pur non morendo. Non sanno amare né il padre né la madre: il primo è un fantasma che, come spiega il titolo del libro, non ha concesso nulla: amore, emozioni, sostegno, consigli, insegnamenti, neanche quelli per imparare a guidare una macchina, intervento semplice e scontato per un padre, un modo per infondere coraggio e spingere all’autonomia. Io ancora ricordo le prime lezioni di guida accanto al mio, la domenica mattina: «acceleratore-frizione, dai gas!». Non insegna perché non c’è, è assente, sempre da altre parti, le rare volte che resta in famiglia è sfuggente, inaffidabile; la madre, pur restando all’interno di un nucleo familiare di fatto mai nato, non è capace di dare affetto, di rispondere alle gioie e ai dolori della vita, silente e a capo chino anche quando l’accusano di colpe non sue. Indolente eppure capace di sacrifici, una figura «un po’ Gelsomina, un po’ Zampanò, tutti e due insieme». Ho provato tenerezza per questa donna che non sa maneggiare gli affetti, li butta via e trasforma l’amore in «accudimento fisico. Il pranzo, la cena, cose così», le uniche che conosce. A lei nessuno ha consegnato le istruzioni per crescere, essere madre, diventare responsabile; la mia è una tenerezza mista a pena perché la sua esistenza, non facile, si è continuamente sfilacciata, incapace com’era di incrociare trama e ordito della vita, la sua e di chi le vive vicino. Di lei non viene mai ricordato il nome, come del resto quello del marito: nel racconto del figlio sono solo “padre” e “madre”, ruoli che non hanno saputo affrontare.
Sono il nonno Ernesto e la nonna Elettra a guidare Emme nella crescita, genitori supplenti, semplici ma tenaci, giusti nella vita, non resilienti ma resistenti in tutto quello che accade. A cominciare dall’annuncio della futura e imprevista nascita di Emme che la nonna accoglie e difende con urla e determinazione. Elettra ha un cuore grande che ha sofferto la perdita del proprio padre, partigiano e combattente di Giustizia e Libertà, carcerato, torturato e poi trucidato alle Fosse Ardeatine; è una figura generosa, spiccia nei modi, che l’affetto lo sa dare come sa dire e difendere le verità in cui crede, una donna «bella come il sole».
Emme è stato un ragazzino un po’ diverso dagli altri, ha vissuto non riuscendo ad aderire in pieno all’idea che si aveva del maschio con i suoi rituali di crescita e i condizionamenti culturali: botte, vino, carne, sfrontatezza, violenza, «una sorta di disperato pensiero laterale per schivare, girare intorno e al largo». Forse proprio questo suo non combaciare coi modelli educativi e comportamentali dei suoi coetanei gli ha permesso di porre l’attenzione anche su altro; in quel guardare e pensare in modo laterale è riuscito a comprendere cosa possedevano le figure femminili accanto a lui. La madre, la nonna Elettra, la nonna paterna Ada, che è l’opposto di quella materna: perbenista più che perbene, cattolica praticante dalla doppia morale, cerca di sfuggire le responsabilità in nome di un insincero senso dell’onore e della famiglia.
Ci sono poi le donne di Garbatella che, per Emme e per gli/le altri/e bambini/e, sono come madri, anzi sono l’espressione dei «tanti modi di essere madre», a volte compresi e ben interpretati, a volte fraintesi e imperfetti. Maternità diffuse per i tanti ragazzini e ragazzine che sono tra loro fratelli e sorelle di lotte e di suolo: vigilando a distanza su quelle numerose creature, figli e figlie un po’ di tutte, le hanno salvate dagli abissi, riconosce Smeriglio.
Il quartiere è suddiviso in lotti pieni di vita, di storie, di suoni, di urla e rumori, mondi con le loro regole. «Da una parte la nostra banda con il pallone e poco altro, dall’altra questo gruppone di donne, sedute sui muretti con le loro chiacchiere e i loro segreti. Una rivendicazione di presenza nello spazio pubblico, un vincolo naturale di sorellanza». All’interno dei lotti le donne tessevano tra loro saldi rapporti orizzontali, capaci di attraversare più nuclei familiari: solidificavano vincoli di parentela, di vicinato o di gruppo, potenziavano i sentimenti di solidarietà, garantivano un guscio protettivo contro le avversità.

Negli anni ’50 avevano dato vita a una società di mutuo soccorso completamente femminile, le Sgarbatelle, una rete di protezione e intervento nel caso qualcuna di loro fosse caduta in una condizione di difficoltà economica. Le quote di adesione settimanali servivano per il gruzzolo cui attingere in caso di prestiti a bassissimi tassi di interesse, ma utili anche per stare insieme, parlare, festeggiare, organizzare una gita domenicale. Tutto fra donne, tutto fra Sgarbatelle.
Lo stare insieme è una vera sfida al mondo dei padri e dei mariti, che si ritrovano invece nelle osterie a bere, giocare a carte, una forma tutta femminile di ribellione e «un monito, un ingaggio verso i mariti violenti che puzzavano di vino e sudore. A volte hanno fatto muro, incrociato le braccia, una accanto all’altra per evitare le botte. Questo ficcare il naso nelle case faceva impazzire gli uomini, anche i migliori. […] E le botte evitate per strada arrivavano inesorabili appena la porta di casa si chiudeva. Ma quella forma di resistenza le faceva stare bene […]».
Nel racconto anche la signorina Ester del lotto 60, spesso affacciata a una finestra del suo appartamento al piano terra. Maestra elementare in pensione, «brava compagna» degna di rispetto e considerazione secondo il nonno Ernesto, talvolta la signorina Ester accoglie Emme in casa, offrendogli del tè insieme alle avventurose storie di Jules Verne, sperando di trasmettergli l’amore per la lettura. Perché maestre si resta anche dopo aver lasciato il mondo della scuola; anche Maria Rosa Labisi è un’insegnante elementare, o meglio è la maestra del piccolo Emme, che accoglie quel plotone di ragazzini di trincea con amore e interesse per ognuno di loro, cercando in ognuno una dote particolare, un tesoro nascosto, un guizzo e una scintilla sperando di accendere fuochi. Dava fiducia, ricorda Smeriglio, ma ne pretendeva altrettanta indietro. Fiducia in se stesso gli chiede l’insegnante di italiano della scuola media, la professoressa Mercuri: anche lei ha saputo vedere qualche scintilla e la ramanzina ricevuta nel momento di passaggio alle scuole superiori è un’altra forma di cura per quell’animo malmesso di adolescente in guerra.

Emme cresce insieme ai suoi compagni di lotto, di campetto di calcio, di strada e di sfide. Tra loro competizioni continue: a chi arriva prima, a chi fa goal, a chi cattura lucertole per sadici riti, a chi tira con la fionda o si ubriaca, a chi guida l’automobile senza avere né la patente né l’età. Infinite sfide e infinite prove in cui la contesa la fa da padrona. E in cui Emme avverte di essere fuori posto perché non sono gli abiti giusti per lui, che si sente impacciato, che la competizione non ce l’ha nel sangue né tantomeno la cattiveria che ti dà lo slancio a volte vincente.
Però simula, nasconde ciò che ha dentro, arranca in quei riti di iniziazione maschile che comunque attraversa, perché quel mondo è il suo mondo anche se è una trincea. E quegli amici saranno amici per sempre anche seguendo strade diverse: «Si può essere branco senza essere iene». Ma le prestazioni, necessarie e richieste per ogni sfida, si intrecciano a un forte senso di inadeguatezza inconfessabile. Soprattutto quando comincia il tempo delle ragazze, che improvvisamente piombano nella vita di questi ragazzini che si atteggiano a grandi pur non essendolo. Dopo anni in cui i maschi stavano insieme ai maschi e le femmine con le femmine, arrivano i primi amori. E la confusione è tanta, l’inadeguatezza altrettanta: «Di cosa si parla con le femmine? Preparavo una scaletta di temi, di approcci, per evitare così di apparire ciò che in realtà ero. Un ragazzino goffo, impacciato e mai del tutto sereno», eppure educato, gentile sempre col rischio di essere fuori luogo. È una frase che mi ha colpito: «La nostra sessualità era naturalmente predatoria. Tossica. Su questo non ci piove».
È un’ammissione importante oltre che sincera.
Non fa sconti Massimiliano Smeriglio nel suo assalto ai ricordi, anche quando ricorda il primo bacio, che gli sembra più una prova di ardimento che un momento di emozione, che lascia una sensazione spiacevole e una pacca sulle spalle da parte di un amico più intraprendente di lui: ha superato un’altra prova.
Anche il primo sesso è senza gioia, fatto perché si deve, in una sera d’estate sulla spiaggia di Capo Vaticano. Un altro rito iniziatico con poche emozioni: resta nella memoria più l’imbarazzo che il piacere, insieme al fascino della scoperta del mare, quello vero, così diverso da quello dell’Idroscalo, l’acqua trasparente contro quella salmastra e torbida delle vacanze in famiglia.
L’arrivo nelle scuole superiori gli apre un mondo diverso dal suo, fatto di famiglia e quartiere. Deve modificare l’approccio, prendere le misure, riconoscere nuovi codici e nuovi linguaggi. Sarà la passione politica ad aiutarlo, la nuova strada gli somiglia di più, lascia quella conosciuta per un’altra tutta da costruire. La scuola, l’università, i collettivi, la contestazione e la rivolta diventano le armi con cui affrontare il mondo. I legami precedenti, gli amici, le conoscenze di quartiere, la stessa famiglia cominciano ad apparire “in dissolvenza”. Il fantasma, «l’ombra», questa volta è lui. Ricorda un disegno di sua sorella minore Francesca che raffigura la sua famiglia: lui non c’è insieme a mamma, papà e alle sorelle Marzia e Francesca, sparito, estraneo a quei legami. «Nella fuga repentina avevo dimenticato dietro di me cose importanti». Nello sguardo a ritroso e all’interno di sé, i rimpianti fanno parte inevitabilmente del racconto. L’allontanamento dalle sorelle è uno di questi ed è una spina, non l’unica, con cui fare i conti perché non si può più rimediare. La sua è una fuga a perdifiato che lo porta alla laurea, a una nuova famiglia con la sua compagna Francesca, all’impegno in politica. Tutto costruito con passione e per scelta.
Alla fine il cerchio si chiude e si chiude, come già anticipato, all’Idroscalo. Lì sono rimasti i momenti intensi e le emozioni vissute da piccolo, ma ancora nitide. Quel luogo di sabbia nera e acqua torbida è un luogo del cuore. Anni prima il legame si era rinnovato quando erano state disperse le ceneri di nonno Ernesto e nonna Elettra, i suoi genitori supplenti capaci di affetto vero. Compiuto il rito, insieme alle sorelle, a cugine e cugini aveva cercato i resti della vecchia casetta sull’arenile, piano piano morsa e inghiottita dal mare. In mezzo alle macerie tracce di quello che era stato, qualche mattonella dei rivestimenti, nulla più. Eppure quel momento era stato, confessa Smeriglio, «una emozione grande, un ricongiungimento fisico con ciò che è stato».
Ora che si trova nuovamente a contemplare l’orizzonte e ad accarezzare la sabbia nera, ora che il percorso a ritroso nel proprio passato e nel proprio animo termina, si attenuano i rimpianti, si scioglie il rancore provato, riemerge l’eco lontana della voce della nonna.