la mano dei tarocchi che non sai mai giocare, editoriale di Giusi Sammartino
Carissime lettrici e carissimi lettori,
probabilmente avrei scelto il silenzio, quello spazio dedicato al vuoto proteso verso il suono o il rumore della parola che segue. Una scelta per riflettere lungo il tempo che si coglie per dirla. Oppure avrei optato per l’elogio dell’imperfezione che porta al pensiero di uno scritto della scienziata Nobel Rita Levi Montalcini. Avrei scartato, quasi sicuramente, un discorso da fare sul blog, in accordo con quanto ha detto il giornalista Pier Luigi Pisa che su un quotidiano definisce il tema (con il selfie e simili), tratto da un testo di Maurizio Caminito, “anacronistico” su cui poco saprebbero discernere i e le quasi ventenni odierne, nati/e nell’epoca dell’IA (leggi Intelligenza Artificiale) e di ChatGPT, che «stanno rivoluzionando e trasformando radicalmente il mondo della scrittura e della creatività», come lo stesso giornalista spiega in un libro dedicato.
L’argomento è anacronistico anche per me e per tutti/e le mie e i miei coetanei, ma soprattutto per noi donne di allora, direi. Ci siamo trovate, penna bic alla mano (poche la stilografica), anche in piena epoca femminista, ad affidare delusioni e speranze, amori e altro, ai diari o, comunque, ad essere in pieno afflato con i quaderni di carta, semmai regalati in occasione di un compleanno dall’amica più cara: libricini spesso vestiti di stoffa, riempiti di pagine candide chiudibili con un lucchetto con il corredo di una piccola chiave, quasi invisibile. Sì, anche per me sarebbe stato un fuori tema, nell’era dell’intelligenza artificiale e di Tik Tok!
Non avrei disdegnato, comunque, Ungaretti con il suo Carso di sangue e di guerra e, pensandoci, avrei parlato volentieri di cinema e macchinari vari sulla scia del romanzo del Nobel siciliano Luigi Pirandello che, anche i geni hanno i loro limiti, si guadagnò il premio di Stoccolma dopo la sarda Grazia Deledda (con Canne al vento) sbeffeggiandola con un bel «lo vincono cani e porci», rivolto al premio. Invidia o voce sana del patriarcato?!
Certo che, poi, la definizione di “abbordabile”, offerta dal ministro Giuseppe Valditara per indicare la poca necessità di preparazione scolastica, manca di eleganza, ma sicuramente le tracce dei temi di mercoledì scorso non la presupponevano, proprio come ha indicato lo stesso ministro. Insomma, più che le nozioni per i temi occorreva quella che si dice cultura, la capacità di saper leggere! L’uso dell’intelligenza di ciascun maturando/a.
Sì, se fossi stata seduta tra i banchi di questo esame di maturità 2023/2024 (il mio esame liceale è datato a luglio del lontano 1974, un vero anniversario personale!) avrei scelto il tema sul silenzio. «Concentrarsi sul silenzio significa, in primo luogo, mettere l’attenzione sulla discrezionalità del parlare» — è scritto nel foglio che accompagnava la traccia del tema, un testo di Nicoletta Polla—Mattiot, docente del Dipartimento di Comunicazione, arti e media dello Iulm, a Milano — . Chi sceglie di usare delle parole fa un atto volontario e si assume dunque tutta la responsabilità del rompere il silenzio. Qualsiasi professionista della comunicazione — continua — studia quando è il momento opportuno per spingersi nell’agone verbale: la scelta di “smettere di tacere” è un atto rituale di riconoscimento dell’altro. […] Si parla perché esiste un pubblico, un ascoltatore. Si parla per impostare uno scambio. Per questo lavorare sull’autenticità del silenzio e, in particolare, sul silenzio voluto e deliberatamente scelto, porta una parallela rivalutazione del linguaggio, la sua rifondazione sul terreno della reciprocità. Dal dire come getto verbale univoco, logorrea autoreferenziale, al dialogo come scambio contrappuntistico dì parole e silenzi. Ma il silenzio è anche pausa che dà vita alla parola. La cesura del flusso ininterrotto, spazio mentale prima che acustico. […] Nell’intercapedine silenziosa che si pone tra una parola e l’altra, germina la possibilità di comprensione. Il pensiero ha bisogno non solo di tempo, ma di spazi e, come il linguaggio, prende forma secondo un ritmo scandito da pieni e vuoti. È questo respiro a renderlo intelligibile e condivisibile con altri. Il silenzio è poi condizione dell’ascolto. Non soltanto l’ascolto professionale dell’analista (o dell’esaminatore, o del prete-pastore), ma della quotidianità dialogica. Perché esista una conversazione occorre una scansione del dire e tacere, un’alternanza spontanea oppure regolata (come nei talk show o nei dibattiti pubblici), comunque riconosciuta da entrambe le parti. L’arte salottiera e colta dell’intrattenimento verbale riguarda non solo l’acuta scelta dei contenuti, ma la disinvoltura strutturale, l’abile dosaggio di pause accoglienti e pause significanti, intensità di parola e rarefazione, esplicito e sottinteso, attesa e riconoscimento. Si parla “a turno”, si tace “a turno”.
Da un testo simile si possono trarre, oggi, al tempo delle baruffe in Parlamento, dell’indecifrabilità del chiasso prodotto dal sovrapporsi di voci nei talk televisivi, nella fretta narcisistica di dire sempre e comunque la propria senza sapere nulla dell’ “alternanza” di cui la docente parlava, della perdita del gusto dell’ascolto che crea il dialogo, quel rimando semantico alla parola del greco antico (è stata la seconda prova d’esame di quel Liceo Classico che si vuole far scomparire) che vuol dire «(da διάλογος, derivato di διαλέγομαι «conversare, discorrere», il discorso, logos, in aggiunta all’intorno, dato dal prefisso) discorso, colloquio fra due o più persone, Per estensione, nel linguaggio politico e giornalistico, incontro tra forze politiche diverse, discussione più o meno concorde o che miri a un’intesa» (dizionario Treccani).
A esame avvenuto la professoressa Polla-Mattiot, ha commentato così il suo brano proposto ai maturandi 2024, anche lei quasi a contribuire a svolgerne la traccia: «Il silenzio è un importante strumento della comunicazione e, insieme al tempo, è uno dei grandi lussi dell’epoca contemporanea». Significativi i libri della giornalista e scrittrice, autrice di Riscoprire il silenzio. Arte, musica, poesia, natura tra ascolto e comunicazione (Baldini Castoldi Dalai), dal quale è stata tratta la traccia proposta della prima prova dell’esame di Stato di quest’anno post Covid, verso la normalità.
Non è normale, secondo noi, la difesa della patria, senza riserve, che unita al concetto di dio e famiglia (nella triade resa inseparabile), diventa un baluardo di libertà monca, impedita a poter spaziare come dovrebbe, compresa la “partecipazione” di gaberiana memoria. A Lucca hanno dato ragione all’ormai stravotato generale Vannacci che confonde un po’ tutto (memorabile il commento di Corrado Augias intervistato durante un Festival a Bologna), ma soprattutto il concetto di razza (esiste ancora rispetto agli/alle umane?) con quello di Patria che ha, se ben analizzato, le sue parti nobili. Vannacci non può essere caricato del reato di diffamazione verso Paola Egonu a cui aveva indicato «i tratti poco italici» al di là del suo passaporto. Credo che Michele Serra sottilmente commenti bene ciò che volevamo spiegare e chiaramente lo ha fatto con la bravura che gli compete: «Non spendo neanche mezza parola per dire, tra il Vannacci e Paola Egonu, da che parte sto — commenta in una delle sue rubriche quotidiane, L’ Amaca —. Ma credo che il Tribunale di Lucca abbia fatto bene ad archiviare l’accusa di diffamazione mossa da Egonu al Vannacci per averla definita «non rappresentativa dell’italianità». Frase «impropria e inopportuna» secondo lo stesso Tribunale, ma non tale da costituire reato. Traduzione dal giudicese all’italiano: dire minchiate non è reato. La vicenda serva da lezione a tutti noi che stiamo con Egonu. Non bisogna offendersi. Non bisogna indignarsi. Non bisogna querelare (a parte i rari casi nei quali la querela è nelle cose, è dovuta, è inevitabile). Non bisogna mostrare le ferite. Bisogna andare sorridendo alla guerra delle parole e dunque alla guerra della politica, ribattere colpo su colpo, chiamare pregiudizio il pregiudizio, razzista il razzista, minchiata la minchiata, Vannacci i Vannacci. La principale prova a carico dei razzisti è la realtà, contrapposta ai loro fantasmi. E dunque impariamo a sbandierare la realtà e vinceremo la guerra. Se Egonu entrasse nell’aula dell’eventuale processo alle opinioni di Vannacci, non sarebbe la parte lesa. Sarebbe la prova vivente (stavo per dire schiacciante, che nel suo caso calza benissimo) che Vannacci ha torto: sì, ho la pelle scura, sì, sono italiana. Altre domande? Non si tratta di porgere l’altra guancia, si tratta di sollevare entrambe le guance di qualche spanna al di sopra. C’è una overdose di suscettibilità che va trasformata in combattività. Abbiamo ragione, che diamine, e per dimostrarlo non serve andare dall’avvocato. Serve dirlo a viso aperto, ogni giorno, senza paura». Commenti altri non ne occorrono, Serra ha chiarito tutto. Due spanne più sopra, con tutte e due le guance! E poi un’offesa alle riflessioni indotte dal silenzio, per ritornare ancora sul tema della maturità 2024.
Lo scorso sabato, nel precedente editoriale ci siamo dimenticate alcune considerazioni e su altre abbiamo sorvolato in fretta prese dal fervore delle notizie che incalzavano.
La prima è che ci siamo proprio dimenticate, o meglio, non abbiamo trovato posto sufficiente, per dare gli auguri a quello che è stato un mito della nostra adolescenza, tanto per risentirci di nuovo al liceo. Auguri al maestro Francesco Guccini che, sotto il cielo dei Gemelli (la professoressa Hack mi perdoni e mi conceda la licenza …poetica) il 14 giugno ha compiuto 84 anni e ha anche “trovato il coraggio” di ritornare in Piazza, in quella Maggiore di Bologna, per inaugurare l’estate di “cinema sotto le stelle”. Auguri a mille da tutti e tutte noi.
Poi non ci siamo soffermate di più sul Pride romano che con “orgoglio” sta celebrando il trentesimo anniversario della prima manifestazione a Roma, quando si temeva il flop e quando ci andò anche l’allora sindaco Francesco Rutelli. Era il 2 luglio del 1994, la politica italiana vedeva un momento di passaggio. Saliva Silvio Berlusconi e Bettino Craxi scompariva ad Hammamet. Ma a Strasburgo l’8 febbraio passava la risoluzione della verde tedesca Claudia Roth che invitava a legiferare sulla parità tra etero e omosessuali in materia di adozioni e matrimoni. C’era una donna, Deborah Di Cave che allora era presidente del circolo Mario Mieli. Nascevano pubblicamente la discoteca e le feste al Mucca (la discoteca Muccassassina ora nel quartiere periferico di Portonaccio dopo vari passaggi iniziati dall’ ex Mattatoio, per cui assassina, del Testaccio) e seminari a tema.
La storia del Pride era iniziata a New York tanti anni prima di Roma, nel 1969 dopo un assalto della polizia allo Stonewall Inn, locale notturno di Greenwich Village. A Roma l’evento è iniziato quasi di nascosto, ma il corteo, quell’anno da piazza Santi Apostoli a piazza Campo de’ Fiori è diventato un successo durato a oggi trenta anni.
La cronaca segna poi notizie tristi. Morti in mare, ancora. Ancora tanti i bambini e bambine sepolti e sepolte davanti alle coste calabresi. Nessuno/a osi dire che non dovevano partire, perché buona parte di loro scappavano da un Afghanistan allo stremo, lasciato solo in balia dei Talebani, odiatori delle donne. Poi le morti sul lavoro, diventate giornaliere, come i femminicidi che non sono finiti con Giulia Cecchettin e con l’impegno del padre che sta finalmente aprendo la Fondazione per parlare, educare alla parità i ragazzi e le ragazze delle scuole in tutta Italia, in ogni regione che forma il territorio. Morti sul lavoro, pagati persino 2 euro l’ora e, come è capitato a Satnam Singh, che è stato abbandonato ferito, ormai a morte, con il braccio mozzato da una macchina, dopo un incidente nelle campagne intorno a Latina.
Un momento davvero brutto… nerissimo. Nerissimo quando si legge, e si vede in una ripresa video, un ragazzo colto di spalle e picchiato nel quartiere romano di Colle Oppio, dove ha sempre dominato una destra estrema e squadrista fucina di picchiatori e, purtroppo, picchiatrici.