dovranno pur rispondere, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Dovranno pur rispondere

Carissime lettrici e carissimi lettori,
come la “madeleine” resa famosa da Marcel Proust nella sua Recherche. Una reminiscenza mi riporta a un ricordo del passato, per me di carattere scolastico. L’ho trovata in ben altro contesto, in un libro che sto leggendo (e davvero con il gusto delle briciole del biscotto francese in bocca) che parla di ricordi e amore del leggere (il libro, per curiose e curiosi, si intitola Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera, Feltrinelli, già alla quarta edizione).

Lei si chiamava, forse, (l’età mi tradisce) Anna. Eravamo alle medie, l’anno dell’esame per passare al liceo. Anna era stata chiamata alla cattedra e interrogata: su Alessandro Manzoni e i suoi Promessi Sposi. Ricordo che probabilmente aveva studiato poco e, tormentata, si dibatteva tra un esempio e l’altro. Fino all’azzardo, forse per fare una bella figura senza pensiero per le date: «Questo romanzo storico credo sia piaciuto molto a Dante Alighieri. Sarebbe bello — esordì sicura e orgogliosa — sapere davvero che ne pensava». La reazione fu giustamente di ilarità collettiva e servì ad abbassare la tensione del momento. Il Sommo poeta, è chiaro, non aveva potuto leggere, per ragioni temporali, l’opera manzoniana che appartiene al XIX secolo, ma gli sbagli, si sa, possono accadere. Come si dice: siamo mortali ed errare è umano, lo dicevano anche i nostri avi! Ma quello che mi ha stimolato il sapore antico della proustiana madeleine era uno svarione di una tredicenne impaurita da un’interrogazione che non vedeva risolversi in positivo.

Certo un ministro della Repubblica è sempre un ministro. Deve, per dovere d’ufficio, dire e dare informazioni alla nazione. Ha altri doveri e altre responsabilità, diversissime, è chiaro, da quelle di un’adolescente impaurita di fronte a una professoressa e alla classe intera. Qui si parla di Nazione e, quel che è più grave, del ministero della Cultura!
Il termine all’origine indicava una cosa diversa. Il nome risale all’antica Roma: «Minister, servitore, aiutante, derivante dall’aggettivo minore dall’avverbio minus, minore, meno, secondo il modello di magister, maestro, sentito in rapporto con magis, più. In genere — spiega ancora il vocabolario — ministro è chi è al servizio di una persona, di un’autorità, di un’amministrazione, con funzioni esecutive di assistenza, di collaborazione o anche con mansioni più propriamente servili. Nell’antica Roma — prosegue — furono così chiamati i littori e subalterni degli imperatori, e gli impiegati della casa imperiale: generalmente di condizione servile, esercitavano svariate incombenze alle dipendenze dei capi della cancelleria e dell’amministrazione imperiale. Con lo stesso nome si designarono anche gli inservienti di un tempio o dei riti, specie di quelli sacrificali. Nella lingua italiana la parola conserva in parte i significati originari, e più spesso li sviluppa con accezioni proprie». Allora in italiano, appunto, il termine ministro/a indica: «Ciascuno dei capi delle grandi branche dell’amministrazione statale (la cui esatta denominazione sarebbe segretario di Stato), nominati dal Capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio, che sono insieme organi costituzionali, in quanto concorrono a formare il governo, e amministrativi, in quanto preposti alla direzione dei ministeri […]. Chi esercita un alto ufficio, agendo in nome e per conto di un’autorità superiore».

Si è fatto tanto parlare, in questa ultima settimana dell’ennesimo errore del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che, un po’ come era accaduto alla mia amica Anna nell’interrogazione della terza media, stavolta ha mischiato date e personaggi indicando lo scienziato Galileo Galilei (1564-1642) come precursore e suggeritore del viaggio di Cristoforo Colombo (1451-1506) verso le Americhe da lui “scoperte” il 12 ottobre del 1492.
Forse un’esagerazione? Sì, potrebbe esserlo perché errare humanum est — diceva l’adagio latino, che però continua: perseverare autem diabolicum! Eh sì, perché il nostro attuale ministro della Cultura è un po’ diavoletto nelle sue esternazioni fuori luogo. Anche lui, come Anna, cita l’Alighieri, e lo pone quale capostipite della destra, di tutte le destre. Poi accusa la dittatura comunista in Italia (i colbacchi a viale Mazzini!), va al Premio Strega, tra i più prestigiosi della letteratura italiana, inventato da Maria Bellonci e Guido Alberti con i loro amici della domenica, e confessa a una sbigottita Geppi Cucciari di non aver letto nessuno dei libri i cui titoli (i sei finalisti) sono, come al solito, scritti sulla lavagna del ninfeo di villa Giulia a Roma.
Pochi e poche tra noi, puntando molto di più sull’azzardato accostamento tra Colombo e Galilei (sembra il film di Troisi-Benigni!) hanno riflettuto sull’altra gaffe: l’Inquisizione spagnola che era, secondo il ministro, il forte contropotere della Spagna del tempo! Altro che contropotere, l’Inquisizione era il potere: «L’Inquisizione spagnola fu l’inquisizione che ebbe luogo in Spagna sotto il controllo dei re spagnoli (Isabella, cattolicissima, e Ferdinando molto astuto nella sua religiosità, n.d.r.). Essa fu il risultato della politica di conversione dei musulmani e degli ebrei al cristianesimo. L’Inquisizione fu anche un importante mezzo per rinforzare la limpiedeza de sangre (ci ricorda un’altra delle tante gaffes di un altro nostro attuale ministro, sulla sostituzione etnica! N.d.r.) sempre contro i discendenti di musulmani ed ebrei e per colpire oppositori politici e confiscare patrimoni dei condannati a favore dell’erario reale» (Treccani).

Insomma, visto che stiamo a Napoli (il ministro Sangiuliano è di nascita partenopeo), sulla scia non dello scienziato fiorentino, ma della Smorfia (che deriva da Morpheo, dio dei sogni figlio di Ipno e di Notte) ci indica i numeri da giocare al Lotto: 1, l’Italia, 6, Chella ca guarda ‘nterra (quella che guarda in terra), 15, ‘o  guaglione (il ragazzo), 83 o maletiempo (il maltempo), 87  ‘e perrucchie (i pidocchi, ci saranno stati sicuramente) e infine 90, ‘a paura, che i marinai delle tre  caravelle hanno sicuramente combattuto! Su tutte le ruote
Tanta paura e tanta sofferenza deve averla provata il giovane Satnam Singh, il ragazzo indiano morto vicino a Latina, dissanguato, accanto al suo braccio tagliato, vicino a casa. Per lui la Smorfia aggiungerebbe il 63 ‘o muorto acciso, il morto ammazzato, perché di un omicidio si tratta, e dei più turpi, il 60 ‘o lamiento, il lamento della sua straziante agonia, il 73 ‘o spitale, l’ospedale dove Satnam doveva essere portato per rimanere vivo. E poi, oltre al fatidico 90 (la paura del suo cuore) aggiungerei il 65 e l’81, rispettivamente ’o chianto, il pianto, di chi è rimasto e soffre per lui, e ‘e sciure, i fiori, che doniamo allo sfortunato ragazzo.
Satnam Singh aveva 31 anni. Era di fede Sikh. «Il sikhismo — detta l’enciclopedia — si è sviluppato dagli insegnamenti spirituali di Guru Nanak Dev, il primo guru (1469–1539), dei nove Guru Sikh che gli succedettero. L’intento era quello di unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico, che non doveva essere rappresentato con figurazioni materiali, e nel rifiuto di ogni distinzione castale. Al tempo del quinto guru, maestro e capo della comunità, Arjuna (1581-1606), fu compilato il libro sacro dei Sikh, l’Ādi Granth («Libro primigenio»). Per opera del decimo e ultimo guru, Govind Singh (1675-1708), quella che era stata in origine una semplice setta religiosa divenne un’organizzazione politica e militare consolidata, al punto da trasformarsi in una vera e propria unità nazionale in cui cerimonie di carattere religioso e sacre osservanze cementavano vieppiù ed esaltavano con la loro forza spirituale l’unione degli appartenenti alla Khālsā («comunità»). Nel 1947, con la spartizione del Punjab fra India e Pakistan si trovarono divisi fra i due Stati, venendo in seguito concentrati a forza nel Punjab indiano. Il contrasto fra il movimento separatista dei Sikh e il governo di Nuova Delhi si aggravò a partire dai primi anni 1980, dando luogo fino alla metà degli anni 1990 a ripetuti e gravi episodi di violenza. Gran parte delle credenze dei Sikh deriva dall’induismo. I Sikh sono monoteisti e credono nella legge del karma e nella reincarnazione. L’ingresso nella comunità avviene mediante una sorta di battesimo. Ogni Sikh aggiunge al proprio nome quello di Singh («leone») ed è tenuto a mantenere, oltre al turbante, cinque segni distintivi: capelli e barba non tagliati, un pettine di legno nella chioma, un braccialetto di ferro, un pugnale, pantaloni corti alle ginocchia. Un rito di fratellanza è il pasto rituale comune. Grande importanza nelle cerimonie ha la lettura del Granth. Il numero dei seguaci supera i 23 milioni» (Treccani). In Italia sono tanti i Sikh presenti. I primi sono venuti con l’esercito anglo-indiano a difendere l’Italia dal nazi-fascismo. A Forlì c’è un intero cimitero dedicato a loro. Il luogo religioso più importante per i Sikh è il Tempio d’Oro, situato nella regione di Amritsar del Punjab, in India. In Italia ad oggi ci sono circa 62 Gurdwara (edificio di culto dei Sikh). I più importanti sono a Novellara, nota purtroppo per il delitto di Saman (la giovanissima pakistana uccisa dai parenti per aver osato rifiutare un matrimonio combinato), Castelgomberto, Maccarese, Cortenuova, Bolzano e Flero.

Arriviamo a leggere insieme le poesie-promesse alla mia amica Piera, l’artista che ha raccontato le storie dei personaggi letterari sulle scene dei teatri d’Italia e del mondo e dalla quale ho imparato la bellezza della lettura poetica. Oggi leggeremo insieme due poesie. Entrambe si adattano ai temi trattati in questo editoriale. La prima è del conosciutissimo P.P. Pasolini, graffiante e triste, specchio dei tempi correnti. «Gli italiani — scriveva, nel 1960 — per una parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono naturalmente intelligenti e si stanno lentamente rendendo conto da che parte sta la ragione. Le nuove leve di giovani lo dimostrano».
La seconda è una canzone tratta dai versi di Bulleh Shah (1680-1758), un poeta sufi del subcontinente indiano, molto amato e famoso. Era sufi e ha composto anche in lingua panjabi, stabilendosi a Kasur, oggi in Pakistan. Il poeta inglese Paul Smith, autore e traduttore di molti libri di poeti sufi di lingua persiana, araba, urdu, turca, pashtu e altre, nell’introduzione ad una sua raccolta di poesie ha scritto: «La forma poetica di Bulleh Shah è chiamata Kafi, uno stile di poesia punjabi utilizzato non solo dai sufi del Sindh e del Punjab, ma anche dai guru Sikh. La sua poesia e la sua filosofia criticano fortemente l’ortodossia religiosa islamica del suo tempo. Il suo tempo fu segnato da lotte comunitarie tra musulmani e Sikh. Ma in quell’epoca Bulleh Shah fu un faro di speranza e di pace per i cittadini del Punjab. Molte delle sue canzoni o kafis sono tuttora considerate parte integrante del repertorio tradizionale del qawwali, il genere musicale che rappresenta la musica devozionale dei sufi».

Resistenza
Non potranno mentire in eterno.
Dovranno pur rispondere,
prima o poi,
alla ragione con la ragione,
alle idee con le idee,
al sentimento col sentimento.
E allora taceranno:
il loro castello di ricatti,
di violenze,
di menzogne
crollerà.
(Pier Paolo Pasolini)

Quando l’amato è di fronte a voi, danzare in devozione a Dio diventa una costrizione.
Vieni, o amato, fammi intravedere.
L’amore per Dio ha acceso il fuoco nel santuario del mio cuore.
Indossando le cavigliere dell’amore, Bulleh danza nel santuario della sua amata.
A volte bisogna danzare anche a costo di perdere la propria dignità.
Quando il cuore di Bulleh era pieno di stupore e meraviglia, vedeva Dio in ogni fiore e in ogni uomo santo.
Bulleh balla con le prostitute senza valore per compiacere la sua amata, senza temere di perdere la sua reputazione.
Quando la vita di Bulleh è appesa a un filo, egli danza ancora nell’estasi dell’amore di Dio
(Bulleh Shah)