creare George Orwell, la storia di Eileen Maud O’Shaughnessy, di Dana Moda

Creare George Orwell. La storia di Eileen Maud O’Shaughnessy
Chiunque faccia arte lo sa: trovare la giusta ispirazione è un momento cruciale, se non imprescindibile, del processo creativo. Quando si arriva al momento della citazione, però, diventa impossibile non notare una tendenza a dir poco penosa, tipica di certi artisti. Uomini che se ammettono di aver ripreso il lavoro di un collega, lo fanno, quando non per genuina ammirazione, come biglietto d’entrata nel circolo — reale o immaginario — degli artisti degni di citazione, in una ristretta ed esclusiva sequela di boriosi omaggi e vicendevoli pacche sulle spalle fatte a gambe larghe. Ma quando a suggerirgli le idee sono donne, allora non ci sono omaggi, non c’è ambizione. Esse non sono quasi mai colleghe, sono muse. Muse ispiratrici, ovvero la rappresentazione che delle donne fa quel particolare tipo di misogino a cui piace chiamarsi romantico: opere d’arte esse stesse, per natura inanimate, mute, oggetti dalla straordinaria bellezza; solo come tali è necessario citarle. Nel peggiore dei casi, non vengono nemmeno ricordate.
È proprio questo il caso di Eileen Maud O’Shaughnessy, tristemente (s)conosciuta solo per essere stata la prima moglie di George Orwell. Eppure, questa donna incredibile non è quel che si dice una musa: non è una donna-angelo, né una ragazzina tisica morta giovane, e nemmeno una diva del cinema, per ricordare qualche esempio della tradizione italiana. No, Eileen ha partecipato attivamente alla carriera del marito, tanto che il merito della trasformazione di Arthur Blair, ex poliziotto, articolista e commesso di libreria, in George Orwell, uno tra i più celebri prosatori del XX secolo, fu proprio suo.
Nata nel 1905 da una famiglia della upper middle class, Eileen Maud O’Shaughnessy è una ragazza sveglia, brillante, una studente molto dotata, appassionata di scrittura e dallo spiccato senso dell’umorismo. Nel 1935, quando conosce il futuro marito a una festa a Londra, è già laureata in psicologia e segue un master in psicopedagogia. È proprio l’incontro con Arthur Blair a segnare la fine di quella che sembrava a tutti gli effetti una vita promettente: nel 1936, quando i due si sposano, nonostante non sia «disposta a fare la parte della moglie sottomessa» decide di «abbandonare i propri desideri», rinunciando alla carriera accademica per vivere pienamente la vita del marito.
Pronta a ogni sacrificio, accetta addirittura di lasciare Londra e di trasferirsi insieme a lui in un cottage senza acqua calda né elettricità. Arthur desidera che la coppia sia completamente autosufficiente, e per questo affida alla moglie la cura di un orto, di qualche gallina, di una capra e addirittura di un emporio. Lui non se ne occuperà mai, tant’è che a soli pochi mesi dal matrimonio già è partito per la Spagna, per unirsi alle milizie antifasciste, lasciando alla moglie tutte le incombenze legate alle scelte di vita che lui stesso ha fatto. Stanca di aspettare il marito, nel 1937 Eileen decide di raggiungerlo in Catalogna, dove riesce a salvarlo dall’arresto da parte della polizia stalinista. Tornato in Inghilterra, Arthur è costretto ad andare in un sanatorio a causa dell’aggravarsi della sua tubercolosi. Qui scrive, mentre Eileen, sebbene nemmeno lei goda di buona salute, continua a gestire la solita enorme mole di lavoro al cottage. Nel 1944, sotto le pressioni del marito, accetta con riluttanza addirittura di adottare un bambino, Richard. Nonostante la vita di fatica e trascuratezze a cui il marito l’ha legata, Eileen lo ama con devozione — pur lamentandosene in alcune lettere indirizzate all’amica Norah — tanto da non limitarsi ad aiutarlo unicamente sobbarcandosi le incombenze casalinghe. Infatti, fu per il marito anche dattilografa — batteva a macchina i suoi manoscritti al buio del loro cottage privo di elettricità — e correttrice di bozze. Ma non finisce qua.
Inizialmente, La fattoria degli animali doveva essere un saggio critico contro Stalin. Se Orwell lo trasforma nel romanzo allegorico che tutte e tutti noi conosciamo è solo grazie a Eileen: prima gli suggerì saggiamente di utilizzare questa particolare forma testuale che gli avrebbe permesso una maggiore libertà di satira — all’epoca Stalin godeva di grande popolarità, in virtù del sostegno dato agli Alleati, e certo non le sembrava il caso di attaccarlo direttamente — e poi compose il testo insieme al marito. Ma di questo, negli scritti di Orwell, non c’è traccia. Se lo sappiamo è solo grazie ad alcune testimonianze orali dei conoscenti e, ancora una volta, alla corrispondenza tra Eileen e Norah.
Ma troviamo sicura traccia del lavoro della donna anche nell’opera che più di tutte si accompagna al nome di George Orwell, uno tra i libri più famosi e più letti di sempre: 1984. L’anno prima di incontrare quel commesso a una festa, la nostra aveva composto una poesia in cui dipingeva, con i toni cupi che il 1934 richiamava, come immaginava sarebbe diventato il mondo di lì a cinquant’anni. Questo è un estratto del testo:
«Ogni perdita è ora un guadagno
Per ogni occasione deve seguire la ragione.
Un palazzo di cristallo incontra la pioggia
Ciò cade nella stagione stabilita.
Nessun libro disturba la linea lucida
Perché gli studiosi abbronzati sintonizzano il loro pensiero
Alla Stazione Telepatica 9
Da cui sanno proprio quello che dovrebbero:
Le scienze utili, le arti
Di televendita e Spagnolo
Come registrato in parti occidentali;
Cremazione mentale che bandirà reliquie, filosofie e raffreddori». Per chi avesse letto 1984 non sarà necessario sapere nemmeno il titolo dell’opera — End of the Century. 1984! — per rendersi conto di quanto questi versi richiamino il futuro romanzo orwelliano e la società in cui si muove Winston Smith. Evidenti sono tanto il presagio di una società basata sul controllo totale — anche della mente — quanto il rimando agli slogan del Socing «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». Insomma, ad aver ideato le opere più importanti di Orwell è stata Eileen O’Shaughnessy, e se non ne abbiamo sentito parlare è proprio a causa del marito: lui non la cita mai nelle sue opere — con l’unica eccezione di Omaggio alla Catalogna, in cui, però, compare solo come «mia moglie» — e questo nonostante contasse su di lei anche per tutto il lavoro di dattilografia, correzione e editing.
Eppure la tragica vita di questa donna incredibile ha una fine se possibile ancor più tragica. Eileen Maud O’Shaughnessy — o Pig, come amava firmarsi nelle lettere — muore a 39 anni, sola, nel marzo 1945, durante un’operazione di isterectomia totale, dopo anni di atroci dolori. Non riesce a vedere la luce né del romanzo 1984 — pubblicato, come si sa, nel 1948 — né del racconto satirico La fattoria degli animali — dell’agosto 1945. Orwell, al momento della morte della moglie, è a Parigi, in visita a Hemingway. Della donna che aveva rinunciato alla sua stessa carriera per sostenerlo, che aveva lavorato come una schiava per assecondarlo, che era stata una precisa e dedita collaboratrice, quando non direttamente la fonte prima di ispirazione; della donna che accettò di adottare un figlio per lui e che gli salvò la vita anche a discapito della propria, George Orwell disse, parlando con un amico, «non era un cattivo vecchio bastone».
Purtroppo, di Eileen Maud O’Shaughnessy non sappiamo altro. Il marito si è impegnato a cancellarne le tracce. Orwell, dal canto suo, è celebre sia per le sue opere, sia per le sue posizioni politiche. E allora ci sembra doveroso riportare la descrizione che ne fa John Newsinger, storico e attivista socialista: era uno di quei «maschi socialisti che si sono opposti a ogni tipo di oppressione, tranne a quello delle donne».