omaggio a Puccini e alle sue eroine immortali, di Laura Candiani

Nel corso di quest’anno si susseguono in Italia e all’estero le celebrazioni in onore di Giacomo Puccini, nel centesimo anniversario della sua morte, avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924. L’elenco degli eventi è interminabile e comprende le messe in scena delle celeberrime opere liriche con frequenti riprese televisive, concerti di musica sinfonica e da camera, come quello diretto da Riccardo Muti con l’orchestra Cherubini (28 giugno, sulle mura di Lucca) per valorizzare un aspetto non secondario della produzione del Maestro, serate dedicate alle romanze più famose e amate dal pubblico, fra cui l’Omaggio a Puccini dal mondo con orchestra e coro del Teatro La Fenice diretti da James Conlon (13 luglio, piazza San Marco); non mancano neppure spettacoli di prosa come i monologhi che sta portando in tournée Laura Morante, che ha scelto quattro figure emblematiche: Tosca, Manon, Turandot, Butterfly, la sua preferita.
Affrontando l’uomo Puccini sarebbe facile finire con il rievocare, insieme alla sua arte sublime, il suo rapporto controverso e assai indagato con le donne, di cui si è parlato e scritto tanto. Ma a noi poco interessa la sua vita privata, con i suoi pregi e le sue debolezze, dominata comunque dal forte legame con Elvira Bonturi, quanto piuttosto la sua attività di musicista eccelso che come nessun altro ha saputo cogliere le mille sfaccettature dell’animo femminile e, proiettandosi nello spirito del Novecento, trattare tematiche ancora attuali.
Avrà certo influito su questa sua sensibilità l’essere stato circondato da presenze di donne fino dalla nascita, visto che oltre alla mamma Albina aveva vicino ben cinque sorelle dai nomi quantomai originali: Tomaide, Nitteti, Iginia, Otilia, Ramelde, e il padre era venuto a mancare molto presto. È stato essenziale pure il contributo degli efficaci librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, come del resto il rifarsi a importanti testi letterari scritti da Antoine François Prévost, David Belasco, Carlo Gozzi, Alfred de Musset, Henri Murger e l’accostarsi alle novità italiane e straniere con curiosità e senza pregiudizi; non è un caso dunque se solo tre sue opere non hanno un titolo al femminile (Edgar-1889, Il tabarro, Gianni Schicchi), anche se non sono prive di figure di donna (Fidelia, Giorgetta, la spigliata Lauretta) e se, nel “Trittico”, l’atto unico che più amava era Suor Angelica (1918).
Cominciamo l’excursus nella sua produzione con il lavoro giovanile Le Villi (o Le Willis) (1884), una breve opera-ballo dedicata a creature fantastiche prese dai miti germanici, cui segue un gioiello ormai maturo come Manon Lescaut (1893), opera modernissima come concezione musicale e affascinante per il ruolo della protagonista, in grado di cambiare vita, aspetto («Donna non vidi mai simile a questa!»), psicologia — da cortigiana di lusso a deportata — con una finezza che richiede interpreti sensibili che alle doti vocali uniscano capacità da vere attrici.
Va sottolineato che, all’interno della partitura, trova spazio il meraviglioso e dolente Intermezzo, uno dei brani orchestrali che la critica considera fra i capolavori inseriti in un’opera lirica.
Di poco successiva, La Bohème (1896) è incentrata su una creatura di rara grazia («i fior ch’io faccio, ahimè, non hanno odore…»), simbolo della gioventù prematuramente spezzata, come la Silvia leopardiana, cui si affianca in un bel ruolo l’amica Musetta, con il suo orecchiabile valzer lento, che in verità Puccini aveva composto in precedenza con tutt’altro scopo e decise di utilizzare in una scena particolarmente riuscita.
A proposito di quest’opera, tratta dal romanzo di Murger, merita aprire una parentesi, ricordando che in genere il Maestro componeva nell’amata villa sul Lago di Massaciuccoli o più raramente dove si trovava in viaggio o ancora nell’abitazione della sua città, Lucca, dove era nato il 22 dicembre 1858. Per l’occasione invece desiderava una nuova residenza, isolata e tranquilla, per poter procedere con la composizione. Fu così che, nell’estate del 1895, trovò in Valdinievole, salendo verso la collina e il borgo antico di Uzzano, la pace che cercava, tra olivi, cipressi, fiori e piante, in una villa circondata da un accogliente giardino arricchito da una vasca che poteva essere utilizzata per bagni rinfrescanti. Il luogo era stato individuato dalla sorella Ramelde che viveva non lontano, a Pescia, con il marito Raffaello Franceschini. Il lavoro andò avanti in maniera spedita, tanto che su una parete interna rimangono le scritte autografe: «Finito il 2° atto Bohème 23.07.1895» e «Finito il 3° atto Bohème 18.09.1895».
Sappiamo che Puccini iniziò qui anche il quarto atto. In seguito continuò a frequentare la Valdinievole e le sue terme, facendo importanti amicizie con vari intellettuali; nel 1900 divenne addirittura presidente onorario della locale Società venatoria, visto che era un appassionato cacciatore.
Nel 1900 debuttò Tosca, che prende il titolo dalla protagonista forte e coraggiosa, capace del massimo sacrificio, in una vicenda di Victorien Sardou che unisce passione e patriottismo, affiancando alla celebre cantante che afferma: «vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva» due rilevanti figure maschili: sia l’oggetto del suo amore Mario Cavaradossi (che canta l’indimenticabile romanza: «E lucean le stelle») sia il fosco individuo Scarpia.
La fanciulla del West (1910) si pone su un altro piano e anticipa le avventurose eroine dell’epopea western, proponendo un personaggio originale e positivo, Minnie, titolare di un saloon, abile nel barare a poker, impugnare la pistola e volare sul suo cavallo, una delle poche nella produzione pucciniana a non soccombere per mano propria o altrui. Il debutto a New York, con Enrico Caruso, fu un trionfo senza pari con 47 chiamate alla ribalta.
La Rondine, che ha al centro la figura di Magda nell’ambiente mondano di Parigi, su testo di Giuseppe Adami, esordì in un momento storico poco propizio, proprio durante la Grande guerra, nel 1917. L’anno successivo andò in scena a New York il “Trittico” che in Italia comparve agli inizi del 1919; i tre atti unici non sempre oggi vengono proposti nella medesima serata, talvolta compaiono in abbinamento con altre opere italiane, come Cavalleria rusticana di Mascagni.
Turandot, che da subito affascinò il compositore per la sua vicenda ambientata in un lontano mondo favoloso ed esotico, richiese molto impegno e destò mille dubbi durante la non facile stesura; nonostante la continua rielaborazione, rimase incompiuta per la morte del Maestro, causata da un tumore alla gola.
Altri musicisti in questo lungo arco di tempo le hanno voluto dare un degno finale, persino nell’anno in corso, ma con esiti controversi; meglio dunque la soluzione adottata da Toscanini alla prima al Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926. A metà del terzo atto si voltò al pubblico e annunciò: «Qui Giacomo Puccini è morto». La trama, è risaputo, si ispira a una fiaba di Gozzi, su libretto di Adami e Simoni, ma lo stesso Puccini vi volle inserire in un ruolo non secondario la dolce Liù, degna rivale dell’algida principessa, a cui affida le struggenti parole della romanza: «Tu che di gel sei cinta». A proposito va ricordato però che Turandot avversa gli uomini per un motivo non trascurabile e comprensibile: ha sempre in mente la violenza subita da una antenata, costretta a forza alle nozze, a causa dell’invasione e della conquista della sua terra da parte di un popolo straniero. Non vuole dunque lo stesso destino, ma alla fine forse il suo cuore si aprirà all’amore per il misterioso pretendente.
Ho lasciato per ultima Madama Butterfly (1904), di cui si celebrano i 120 anni dallo sfortunato debutto, un vero linciaggio probabilmente manovrato ad arte; dopo una rapida revisione della partitura, la ripresa però fu un trionfo e così accade ogni volta, sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. Il soggetto mi sembra il più emblematico e, forse, il più travisato, tuttora di drammatica attualità se si riflette sul fenomeno del turismo sessuale. Cio Cio San ha quindici anni, è una sposa bambina che crede fiduciosa nella felicità e nel matrimonio, al punto di rinunciare alla sua fede e diventare cristiana, finendo con l’essere ripudiata dai parenti e patire la miseria. Spera, nonostante tutto, che Pinkerton — dopo il breve idillio — ritorni e mantenga la promessa, non sa che certi matrimoni i soldati americani li affrontavano con grande, colpevole leggerezza (come temeva il console…), affascinati dalle dolci fanciulle orientali, pudiche e gentili, magari anche povere e in qualche modo votate al sacrificio per risollevare le sorti familiari. Butterfly, tuttavia, è una farfalla nel nome, ma una leonessa nella forza, nella perseveranza e attende per tre lunghi anni, con a fianco la cara Suzuki e il figlioletto biondo con gli occhi azzurri (il piccolo Iddio). All’arrivo della nave tanto desiderata che sembra portare finalmente la gioia, la casa si riempie di fiori per accogliere degnamente il marito (lei è la signora Pinkerton e ne è orgogliosa), mentre Puccini inventa un inedito “coro a bocca chiusa” di straordinaria suggestione, ma tutto precipita: l’uomo si è sposato nel suo Paese con una donna americana, ignaro di essere padre, e con lei si presenta in Giappone. All’offerta che le viene fatta di lasciar partire il figlio con la nuova famiglia perché abbia un futuro sereno, Butterfly inorridisce e si sente straziare: quale madre accetterebbe un simile patto? Ma capisce che non ci sono alternative: il suo suicidio rituale con il pugnale già usato dal padre non è un atto di rinuncia, ma un atto di coraggio. In questo modo il bambino sarà libero, senza rimorsi né rimpianti, senza il disonore di una madre disprezzata da tutti al di là del mare, anche se dovrà imprimersi bene nella mente il volto della vera giovanissima mamma che lo ama così tanto da donargli la propria vita. L’arrivo del vigliacco Pinkerton non la salva, mentre la musica muore con lei.
Ancora una volta Puccini riesce a far esprimere attraverso le note e la sapiente orchestrazione una donna con i suoi sogni, le sue illusioni, le mille sfumature dovute al carattere, all’ambiente e allo scorrere del tempo, il suo dramma, senza bamboleggiamenti e leziosità, senza quegli esotismi superficiali talvolta scelti nelle regie teatrali. Una curiosità: il 22 giugno scorso è diventata la prima opera lirica messa in scena integralmente su una nave militare, l’incrociatore portaerei Giuseppe Garibaldi, nel porto di La Spezia. La nave qui non appariva di lontano, agli occhi sognanti di Cio Cio San, ma era il palcoscenico ideale nella romantica ora del tramonto.
A proposito di anniversari, concludiamo ricordando che a Torre del Lago (frazione di Viareggio) si celebra la settantesima edizione del Festival Pucciniano, di cui il presidente della Fondazione Luigi Ficacci «individua la peculiarità e l’unicità ― che calamitano melomani da tutto il mondo ― […] sulle sponde del Lago di Massaciuccoli», nei luoghi in cui la maggioranza delle opere venne composta (Corriere della Sera, 11-7-24): luoghi che il Maestro nel 1891 descriveva così: «Spiagge assolate, fresche pinete, il lago sempre calmo, ovvero l’Eden». Quest’anno il Festival supera sé stesso e propone quasi per intero la parabola creativa di Puccini, da Le Willis e Edgar a Turandot, coronando il percorso tracciato dal direttore artistico Pier Luigi Pizzi, anche regista, scenografo e costumista delle opere, eccetto Manon Lescaut e Bohème affidate a Massimo Gasparon. Pizzi, una leggenda nel nostro panorama teatrale, a 94 anni attivissimo ed entusiasta, assicura che i suoi allestimenti sono «immediati, comprensibili, affinché il pubblico possa godersi Puccini secondo la volontà di Puccini» e la vera protagonista sia la musica, mentre l’elemento unificante delle messe in scena sarà il ledwell, lo schermo gigante «che aiuta a creare poesie d’immagini con ambienti e climi mutevoli, tuttavia rifuggendo effetti speciali fini a sé stessi», come ha dichiarato in una intervista (la Repubblica, 12-7-24).
Se trascorso questo anno così pieno e ricco, tutto il lavoro e l’impegno profuso restassero solo un bel ricordo, non si farebbe onore al Maestro, invece ecco la grande novità: quel minuscolo borgo che Puccini scelse come luogo del cuore in cui c’erano poche case e 120 abitanti, sta rinascendo grazie a un impegnativo progetto che rappresenta «un viaggio nel futuro ispirato al passato ― così ha spiegato l’architetto Paolo Riani ― Stiamo ristrutturando dodici antichi edifici tra i quali la storica villa Caproni, davanti alla casa di Puccini, che sarà trasformata in una residenza per artisti e allievi della Puccini Academy, il centro di alta formazione della Fondazione Festival Pucciniano. E sono in corso di recupero e restauro fabbricati di archeologia industriale come le officine della vecchia torbiera» (Corriere della Sera, 11-7-24). L’obiettivo è quello di trasformare la penisola delle Torbiere in una cittadella della musica e delle professioni teatrali, mentre un nuovo belvedere affacciato sul lago è stato appena inaugurato per offrire uno sguardo aperto su quel dolce paesaggio che tanta musica immortale ispirò e che la statua di Puccini sembra vegliare.