Miriam Makeba, di Elisabetta Uboldi

«Osservo una formica e vedo me stessa: una sudafricana dotata dalla natura di una forza molto più grande del suo stesso corpo, per poter sostenere il peso di un razzismo che ne frantuma lo spirito. Guardo un uccello volare e vedo me stessa: una sudafricana che si innalza al di sopra delle ingiustizie dell’apartheid con ali di orgoglio, l’orgoglio di uno splendido popolo. Guardo
un ruscello e vedo me stessa: una sudafricana che fluttua irresistibilmente al di sopra di ostacoli insormontabili fino a che questi non si riducono, per poi un giorno scomparire».
Miriam Makeba — La mia storia (Edizioni lavoro coordinamento donne e sviluppo, 1989), scritto a quattro mani con James Hall, regala fin da subito l’immagine di una donna che, nonostante la sofferenza e le privazioni, si è sempre spesa per la liberazione del suo popolo.
Nata il 4 marzo del 1932 a Johannesburg, nel Sudafrica del colonialismo in cui il mondo bianco vive alle spese del mondo nero, conosce fin da bambina il significato della discriminazione razziale e della negazione dei diritti fondamentali. Ha solo pochi giorni di vita quando la madre viene incarcerata con l’accusa di vendere alcolici, il cui consumo è vietato ai neri, e passa con lei i sei mesi della detenzione in una cella angusta e sporca. A 5 anni perde il padre e rimane a vivere con il resto della famiglia nella casa della nonna, mentre la madre trova lavoro come domestica e si trasferisce a Pretoria.
È il 1947 quando nel linguaggio di tutto il popolo sudafricano fa il suo ingresso la parola apartheid, termine derivato da apart, che nella lingua afrikaans significa separato. Da quel momento in poi ci saranno ospedali, scuole, mezzi di trasporto, supermercati, chiese, ristoranti divisi per la popolazione bianca e per quella nera. In questo modo i colonizzatori riescono a rendere invisibile e a rimuovere dallo scenario sociale intere etnie autoctone del Paese. Nel 1948 viene introdotto anche il lasciapassare, ovvero un documento che tutta la popolazione nera deve portare con sé, pena l’arresto, e sta a indicare che una persona nera ha il permesso di trovarsi in un determinato luogo, rendendo legale la sua presenza.
Esplicitate le dovute premesse storiche, è indubbio che la vita di Miriam Makeba sarà segnata dal razzismo e dalla discriminazione, ma grazie alla musica il suo futuro potrà essere riscritto: il coro della chiesa e le gare di canto a scuola le permettono di muovere i primi passi in questo mondo e renderla consapevole della sua bravura. A soli 16 anni si vede però costretta ad abbandonare gli studi per lavorare come cameriera in una famiglia bianca e a 17 partorisce la sua prima e unica figlia, Bongi. Per evitare che la bambina cresca fuori dal matrimonio, si sposa con il padre e fidanzato dell’epoca, ma si ritrova a essere vittima di violenza domestica; decide quindi di divorziare e tornare a vivere con la madre che nel frattempo ha fatto rientro dalla capitale.
La svolta avviene quando partecipa al concerto di un gruppo musicale poco conosciuto e viene notata dal frontman della band che le chiede di cantare per loro: a 19 anni si esibisce per la prima volta di fronte a un pubblico, anche se in parecchi la criticano perché non è consono per una donna calcare un palcoscenico. La fortuna continua a girare perché, proprio durante un’esibizione, il leader del gruppo Manhattan Brothers rimane incantato dalla sua performance e le propone di diventare la voce solista. Grazie a questo trampolino di lancio, molto presto compone e incide le sue prime canzoni, con l’appoggio di una casa discografica.
Il suo primo brano, dal titolo originale Lakutshuna Ilangu, attraversa l’oceano e diventa famoso negli Stati Uniti; le arrivano proposte da ogni dove per incidere anche dischi in inglese, ma il Sudafrica dell‘apartheid permette alla popolazione nera di esprimersi solo nella lingua indigena ed è vietato l’insegnamento dell’inglese pure nelle scuole.
Una sera, dopo un concerto con i Manhattan Brothers, Miriam conosce tra il pubblico un giovanissimo Nelson Mandela che le rivolge apprezzamenti per il suo stile canoro unico e straordinario.
La sua vera possibilità di svolta arriva quando il regista americano Lionel Rogosin la scopre mentre si esibisce in un piccolo locale di Johannesburg. Le propone di interpretare sé stessa in un documentario sulla musica africana, sostenendo che un talento come il suo non può rimanere relegato al Sudafrica, ma merita di essere conosciuto in tutto il mondo. Riesce così a convincerla e in breve tempo Miriam si ritrova su un aereo che la porta ad Amsterdam e nel novembre del 1959 inizia la sua carriera tra New York e Los Angeles, dove si esibisce in diversi locali e viene invitata a partecipare a una delle trasmissioni televisive più seguite negli States, condotta da Steve Allen. Grazie alla sua comparsa sul piccolo schermo, sempre più persone la notano e la riconoscono per le strade; in breve tempo diventa una celebrità. Qualche mese più tardi, la madre la contatta dal Sudafrica, informandola che per motivi di salute non è più in grado di occuparsi di Bongi, quindi, dopo aver richiesto tutti i permessi necessari, anche la figlia la raggiunge in America. I suoi spettacoli continuano ed è sempre più richiesta, persino dal Presidente Kennedy che è intenzionato a conoscerla e la invita a partecipare al party per il proprio compleanno. Nella sua vita incontrerà diverse figure di spicco del mondo dello spettacolo come Marlon Brando, con cui intesserà una profonda amicizia, Marilyn Monroe, Aretha Franklin, Stevie Wonder e tante altre. Ma il suo cuore non dimentica che la sua casa è l’Africa e nel 1963 tiene un discorso dinanzi agli undici membri della Commissione speciale per i problemi dell’apartheid istituita presso le Nazioni Unite. Questa scelta le costa molto cara, poiché il Sudafrica la considera una traditrice della patria e la condanna all’esilio, mettendo anche al bando la vendita di tutti i suoi dischi. Proprio nello stesso periodo Nelson Mandela viene arrestato e condannato all’ergastolo per la lotta contro l’apartheid.
La scoperta di un cancro al collo dell’utero la obbliga a fermarsi e ritirarsi dalle scene per diversi mesi, costringendola a rinunciare a partecipare alla grande marcia per i diritti civili, in programma a Washington, guidata da Martin Luther King.
L’intervento per rimuovere il tumore va a buon fine, Miriam si riprende totalmente e inizia a viaggiare in vari Stati africani, quali il Kenya, la Namibia, il Ghana, la Nigeria, il Mozambico e la Guinea che diventerà la sua seconda casa per diverso tempo. Il Presidente della Guinea Sékou Touré prende Miriam sotto la sua ala protettrice e la ospita in diverse occasioni nella sua dimora, chiedendole di diventare Ambasciatrice del Paese presso le Nazioni Unite, richiesta che Miriam accetta di buon grado. I due manterranno un saldo e reciproco rapporto di amicizia fino alla morte di Touré avvenuta nel 1984.
Agli inizi di giugno del 1967, si combatte la Guerra dei sei giorni che vede contrapposti Israele e tre nazioni coalizzate: Egitto, Siria e Giordania. Il panorama politico arriva a influenzare anche la tournée estiva che Miriam sta per intraprendere come tutti gli anni: viene infatti avvicinata dai delegati africani delle Nazioni Unite che le chiedono di escludere dalla scaletta dei suoi concerti una canzone ebraica, in solidarietà con l’Egitto, in guerra contro Israele. Decide di parlarne subito con il suo manager Harry Belafonte, chiamato anche Big Brother, ribadendo che la musica non ha nulla a che vedere con la politica e che le canzoni sono solo canzoni, ma l’uomo contatta i giornali per informarli che Miriam ha deciso di non cantare volutamente una canzone ebraica, finendo per diffamarla e consegnarla in pasto all’opinione pubblica che la taccia di antisemitismo. Questo avvenimento segna l’epilogo della sua amicizia con Big Brother e l’inizio della fine della sua permanenza in America, infatti nell’estate del 1968 lascia definitivamente New York per trasferirsi in Guinea.
Anche il matrimonio con l’attivista per l’indipendenza nera, Stokely Carmichael, arreca diversi problemi alla sua carriera musicale, poiché l’uomo è nella lista nera degli agenti federali come pericoloso dissidente politico. La cantante si vede costretta a dover rispondere delle azioni del marito ogni volta che viene incarcerato per le sue proteste. Il matrimonio finisce nel 1973, quando il presidente Touré accetta di concedere il divorzio alla coppia. L’Onu dichiara il 1976 “anno internazionale contro l’apartheid” e Miriam viene incaricata di pronunciare un altro discorso di apertura presso le Nazioni Unite, parlando delle discriminazioni e delle violazioni dei diritti di cui lei stessa è stata vittima e alle quali soggiacciono ancora le popolazioni indigene del Sudafrica. Anche la figlia di Miriam, Bongi, affronta un periodo difficile: dopo il primo matrimonio e la nascita di due figli, dal secondo marito ha un altro figlio che morirà all’età di un anno, lasciando tutta la famiglia nella disperazione. Miriam è una presenza costante per la figlia e i nipoti, li aiuta a studiare, compra loro una casa e li invita a vivere insieme a lei in Guinea. Bongi conosce un uomo, se ne innamora e si sposa per la terza volta, rimanendo incinta, ma muore poco più che trentenne qualche giorno dopo il parto cesareo effettuato d’urgenza. Per Miriam questo è il lutto più grande della sua vita, dopo la morte della madre avvenuta in Sudafrica, senza che lei potesse farvi ritorno per salutarla un’ultima volta.
Nel 1990 si esibisce in Italia al Festival di Sanremo con la canzone “Give me a reason” e grazie all’intercessione di Nelson Mandela, scarcerato lo stesso anno, riesce a tornare in patria, dopo un’assenza di più di tre decenni: il suo impegno per aiutare le popolazioni schiacciate dall’apartheid non si ferma neanche un singolo giorno, fino all’abolizione delle leggi razziali il 27 aprile 1991.
Nel 1992 accetta un ruolo nel film Sarafina! Il profumo della libertà che racconta la storia della rivolta di Soweto, un sobborgo di Johannesburg in cui per diversi giorni molte/i giovani hanno protestato contro la segregazione razziale. Miriam ricopre il ruolo della madre dell’attivista Sarafina che partecipa, rischiando la vita, alle proteste. Le manifestazioni vengono soffocate nel sangue e l’evento colpisce fortemente l’opinione pubblica mondiale, provocando una serie di rivolte anche negli Stati Uniti da parte del movimento per il riconoscimento di pari diritti alle persone nere.
Sempre continuando i suoi concerti in giro per il mondo, nel 1999 viene nominata ambasciatrice di buona volontà dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), nel 2001 riceve la Medaglia Otto Hahn per la Pace, nel 2002 prende parte a un nuovo documentario sull’apartheid e vince il Polar Music Prize, premio internazionale assegnato per meriti raggiunti in ambito musicale. Nel 2005 organizza il suo tour mondiale di addio alle scene, anche se malferma di salute.
Nell’autunno 2008 partecipa in Italia a un concerto in memoria dei sei immigrati africani uccisi dalla camorra nella cosiddetta strage di Castel Volturno, in provincia di Caserta. Muore proprio a Castel Volturno il 9 novembre all’età di 76 anni, per un arresto cardiaco sopraggiunto poche ore dopo la sua ultima esibizione. Miriam Makeba, detta Mama Africa, la cui vita è stata irrimediabilmente segnata da lutti, perdite, violenza, discriminazione e sofferenza, ha dimostrato che la musica ha un valore universale che può unire intere popolazioni, indipendentemente dalla lingua e dal colore della pelle.
Come lei stessa ha scritto nel suo libro autobiografico: «Se mi fosse stato dato di scegliere, avrei certamente preferito essere ciò che sono: una fra gli oppressi, anziché una fra gli oppressori, ma in verità non ho avuto scelta. […] Ma ci sono tre cose con le quali sono venuta al mondo, tre cose che rimarranno con me fino al giorno in cui morirò: speranza, determinazione e la mia musica».