identità fragili, di Graziella Priulla

IDENTITA’ FRAGILI

Il sessismo non è solo denigrazione delle donne, oggettivazione delle donne o gerarchia tra gli uomini e le donne: è anche gerarchia tra gli uomini secondo criteri di presunta mascolinità, con imposizioni pesanti di imperativi comportamentali e gravi sanzioni per chi non si adegua. «Sii uomo!» «Non piangere come una femminuccia».

Se non sei un uomo standard, che cosa sei? Nessun ragazzo vuol essere una femminuccia, pena la derisione e la marginalizzazione (se non peggio).
«Impotente»: non hai la potenza del sesso forte, non vali perché sei come una donna. O «frocio», «checca»: non hai la sessualità di un uomo, sei pari a una donna. Negli altri insulti si fa riferimento alle “sue” donne: cornuto, becco, figlio di puttana. Lui è stigmatizzato in quanto non le controlla abbastanza.
E la “sfiga’” (sfortuna)? La società patriarcale insegna agli uomini che è nella loro natura, nel loro Dna biologico, ricercare continuamente il sesso. Da un lato c’è nei termini l’implicita, primitiva gerarchizzazione dei maschi in base all’accesso alle donne: lo “sfigato”, sfortunato o insignificante e perdente, sta in basso, escluso dal godimento, mentre chi conta e comanda è baciato dalla sorte e in grado di godere. Dall’altro lato la riduzione della donna a parte per il tutto, oggetto di collezione, vanteria maschile: lo sfigato è il contrario di un macho o di uno sciupafemmine, non potrà mai disporre di un palmarès di conquiste, avventure, storie da esibire.
“Testicoli” significa “piccoli testimoni” perché anticamente si giurava su di loro per sancire la solennità di quanto si pronunciava. Ancor oggi si toccano per scaramanzia. Gli attributi sessuali maschili sono ben visibili e la società conferisce loro un valore simbolico di potenza e di forza. «Avere le palle» si dice perfino per una donna assertiva.

«Nessuno è di fronte alle donne più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità». Simone de Beauvoir

C’è un però. Perché la “figata” è buona e bella mentre la “cazzata’” (o la “coglionata”) è stupida e cattiva? Forse perché si ritiene giusto che la donna sia sintetizzata nella propria parte sessuale, inchiodata ai propri organi (non ha altra funzione sociale se non di amante o di fattrice); per l’uomo invece è degradante, limitativo, confinarsi in una qualità che richiama l’irrazionalità, anche se nel percorso evolutivo di un maschio “sano” la fantasia di non avere una dimensione del proprio organo genitale adeguata, conforme a standard veri o immaginari, pare sia un passaggio obbligato e sia inversamente collegata all’autostima.
L’orizzonte esistenziale che ne deriva è misero, costellato di rapporti senza valore e senz’anima.
E i figli? Se ti occupi della loro infanzia, se ti dedichi alla cura ti definiscono “mammo”: non c’è ammirazione ma scherno.

Gli schemi sono rigidi. L’emozione consentita è soprattutto la rabbia. L’ammissione dell’angoscia, dell’abbandono e del dolore è vista dall’uomo quasi con vergogna, come segno di debolezza; non è abituato a confidarsi perché non sa trovare le parole per raccontare se stesso, non è attrezzato a gestire emozioni complesse e spesso non trova contesti adeguati per esprimerle, orecchie pronte ad ascoltarle. L’amicizia tra maschi è più cameratesca che empatica. Sono rinunce che spesso sono inavvertite perché non raggiungono la soglia della consapevolezza.
È l’identità maschile messa in scena da Fellini: un’eterna adolescenza colma di pregiudizi e di paure, di curiosità peccaminose e di segrete fragilità mai confessate.
Per arginarle e camuffarle si richiedono riti di iniziazione anche violenti e continue dimostrazioni, conferme e verifiche, trasmettendo l’idea che si tratti di un’identità sempre incerta e sottoposta a rischio (è da notare, per inciso, quanto sia aumentata la fragilità dei maschi ora che le loro prestazioni sessuali sono state private delle bugie consolatorie con le quali le “loro” donne un tempo li proteggevano grazie alla possibilità femminile di fingere il piacere). Ogni fallimento diventa insopportabile.
Quando si dice “genere” peraltro si pensa immediatamente alle donne, come se gli uomini non appartenessero a un genere, non avendo accettato una parzialità ma ritenendosi misura universale del mondo (maschile universale, storia universale, l’uomo primitivo, la paternità dell’opera).
La maggioranza di loro è omoculturale: non legge autrici, non segue lo sport femminile, non va a convegni organizzati da donne.
Il silenzio che ha avvolto le loro relazioni con i mondi della vita quotidiana, pur così costoso, è stato compensato da privilegi: è stato a lungo utilizzato come strumento di dominio e supremazia che cancellasse altri generi, altre etnie, altre generazioni.
Dominatori e vittime nello stesso tempo, seppur consenzienti. Una condizione rappresentata mirabilmente nel libro torrenziale di Edoardo Albinati La scuola cattolica, che è un romanzo e insieme un saggio.
Come possono cambiare veramente i rapporti di genere se la metà della popolazione che detiene la maggior fetta di potere non fa niente per contribuire al cambiamento perché non li percepisce come problema? Se è congelata nell’assillo della performance?
A che cosa deve rinunciare un uomo, quando impara a comportarsi “da uomo”?
La cosa peggiore che la società fa ai maschi — spingendoli a credere di dover essere duri — è che li rende estremamente fragili, costruendo un’autostima sottoposta a assidui controlli. E fa un torto grave alle femmine, quando insegna loro a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi.
«Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità». P. Bourdieu, Il dominio maschile
Per ridurre i costi sociali non basta potenziare l’empowerment delle donne, pur necessario per cancellare il modello antico della sottomissione; bisogna decostruire pazientemente l’immagine parallela della virilità, additandone non solo l’ingiustizia ma il prezzo.
Il suicidio è un atto molto più comune tra gli uomini che tra le donne. A livello mondiale si parla di un rapporto di 4 a 1, mentre in Italia, secondo i dati Istat, la propensione al suicidio è tre volte più alta tra gli uomini rispetto alle donne, con un rapporto che è andato aumentando nel tempo.
Le cause che vi portano sono molteplici: malattie psichiche, circostanze socioeconomiche o eventi drammatici che si presentano nel corso della vita. Tra questi ultimi, la separazione in un matrimonio e la rottura amorosa in genere sono il fattore scatenante, specie nell’universo maschile. Come registrano le cronache, gran parte dei femminicidi dopo l’assassinio si suicida.
I tentativi di ripristinare un potere vacillante e il controllo della relazione, con comportamenti di stalking o di violenza domestica, sono frequenti in uomini che si sono suicidati a seguito di una rottura amorosa. Molti lasciano lettere in cui confessano la volontà di punire l’ex con la propria morte.
Parallelamente ai valori iscrivibili sul corpo come la forza o a quelli strettamente legati a dimostrazioni pubbliche quali il controllo delle donne o l’aggressività, in molte società il vero uomo è caratterizzato dalla capacità nel saper gestire la propria famiglia e svolgere determinate attività lavorative. Il fatto che anche in Italia si osservi un aumento esponenziale di suicidi maschili in corrispondenza con l’età del pensionamento mostra questo dato: l’identità maschile passa ancora innanzitutto attraverso il mondo della produzione, secondo i ruoli più tradizionali. Persi quelli non si è più nulla. Se crolla il piedistallo su cui si è costruita l’idea di sé di fronte alla società crolla l’intero edificio.

Solo rompendo il silenzio possiamo costruire una consapevolezza pubblica e possiamo implementare strategie con cui mettere a fuoco questa situazione e combattere l’idea che la tossicità emerga in ogni singolo individuo che compie determinate azioni e pratiche: è comoda perché permette di condannare tali pratiche e prenderne le distanze senza incidere sulle cause.
È ormai chiaro che il patriarcato è dannoso per tutti gli individui e che la mascolinità tossica è uno dei modi in cui agisce. Il femminismo è il movimento che mira a combattere questo sistema, eppure si nota una certa diffidenza da parte di molti uomini nei suoi confronti.
Il confronto con il pensiero femminista — in Italia dal finire degli anni ’90, negli Stati Uniti assai prima — ha tuttavia prodotto in alcuni uomini una disposizione a riflettere seriamente, a partire dal piano personale, sulle dinamiche del potere di genere che agiscono dentro gli spazi e le rappresentazioni sociali e culturali. A promuoverla contribuisce da quasi vent’anni la rete nazionale Maschile plurale: uomini che innanzitutto lavorano per mettere in discussione se stessi e i modelli che hanno ereditato, prendendo poi pubblica parola su temi come la violenza maschile. Hanno portato alla luce una serie di lati scomodi della mascolinità che molti fanno fatica a riconoscere, accettare, discutere. Sostengono la pluralità, la multidimensionalità, l’ampia gamma di scelte che deve esistere nell’essere uomini.
Per evitare la reazione vittimistica di chi si sente minacciato da questa prospettiva abbiamo bisogno di costruire rappresentazioni condivise e socialmente riconoscibili che raccontino il cambiamento non come un pericolo ma come un’opportunità. Purtroppo da noi lo si può fare solo in modo occasionale, volontario, non sistematico: gli studi di genere (al maschile e al femminile) per ragioni essenzialmente politiche non occupano una posizione centrale né all’interno dei programmi scolastici né all’interno di quelli accademici.