amore, unico dio, di Gabriella De Angelis

Amore, unico dio

Nel mondo ellenistico, dunque, la quotidianità delle donne, almeno di quelle che appartengono alla “classe media”, assomiglia molto alla nostra. Le protagoniste dei mimi “urbani” di Teocrito, vivono, come tutte, su due piani: da una parte la prosaicità e le banali esigenze della vita quotidiana — e degli uomini in carne e ossa — dall’altra il sogno d’amore. Un sogno cui, prima del matrimonio, le giovani donne sono disposte a sacrificare ogni cosa e che continua a emozionarle dopo sposate, rinnovandosi sulla scena teatrale nei personaggi del mito. Insieme a Tyche (il Caso), dominatrice assoluta delle vicende umane, Eros sembra essere l’unico dio che regna incontrastato anche tra gli immortali: ne è vittima la sua stessa madre, Afrodite, innamorata persa di un giovinetto bellissimo, Adone, che le viene strappato da una morte prematura. È questo il mito che va in scena e affascina la folla in cui si fanno largo a stento Gorgo e Prassinoa nelle Siracusane e la scelta di Teocrito non è casuale.

Siamo ad Alessandria, la metropoli egiziana che, tra le tante nate dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro Magno, ha ereditato il ruolo di centro culturale e religioso, oltre che politico, che nel V secolo era stato di Atene. Adone è uno dei personaggi più complessi che il mondo greco ci abbia tramandato e non solo per il gran numero di varianti del mito di cui è protagonista. Complesso e controverso, a partire dal nome, che in italiano diverrà l’emblema della bellezza maschile, ma che nelle lingue semitiche, come nell’ebraico, significa semplicemente “signore”. Controversa soprattutto la sua nascita, frutto dell’amore incestuoso che Mirra, figlia di Cinira, concepisce per suo padre, cui riesce a unirsi grazie a una bevanda inebriante che lei stessa gli somministra e approfittando dell’assenza della madre. Quando il suo intrigo viene scoperto, Mirra rischia la morte ma viene trasformata dalla pietà degli dei nell’albero profumato che ne porta il nome e riesce a portare a termine la gravidanza dando alla luce Adone. Il bambino diventa un adolescente dalla bellezza irresistibile, suscitando la passione di divinità potentissime che se lo contendono: la stessa dea dell’amore, Afrodite, e la regina dell’oltretomba, Persefone. Ma Adone muore giovanissimo, ucciso da un cinghiale scatenatogli contro da un’altra divinità, Artemide, decisa a vendicare la morte di Ippolito. Afrodite e Persefone sono costrette a spartirsene le attenzioni: il giovinetto vivrà una parte dell’anno con l’una e una parte con l’altra. È evidente l’analogia con il mito di Persefone/Core, strappata alla madre Demetra da suo fratello, il dio degli Inferi, che per volere di Zeus, dovrà rassegnarsi anche lui a vederla ritornare sulla terra per una parte dell’anno. Come Persefone, anche Adone simboleggia l’avvicendarsi delle stagioni, ma nei riti che gli sono dedicati l’accento sembra esser posto sulla brevità di ogni rigoglio, di ogni profumo: in vista delle Adonie, la festa in suo onore, le donne coltivavano sui terrazzi piantine aromatiche e lattughe che il sole faceva germogliare e poi appassire e seccare rapidamente. Questa festa, celebrata tra la primavera e l’estate in molte città greche, non era però finanziata pubblicamente, al contrario delle Tesmoforie, l’altra grande festa, dedicata a Demetra e Persefone: a questa potevano partecipare solo donne sposate, che in quei giorni si astenevano da ogni rapporto con i legittimi mariti — proprio l’assenza della madre in occasione delle Tesmoforie, aveva dato a Mirra l’occasione di realizzare il suo desiderio. Le Adonie, invece, si svolgevano in forma privata e vi erano ammesse donne e uomini, prima e dopo il matrimonio, di condizione libera o servile; visto che il vino scorreva a fiumi e si dava libero sfogo al desiderio sessuale, non erano rari violenze e stupri, con le conseguenze descritte, tra l’altro, nelle commedie di Menandro.
Potremmo dire, a costo di semplificare, che nelle Tesmoforie si celebra l’amore che genera — ma la coppia divina che ne è l’emblema è costituita da una madre e una figlia adolescente e non da una madre e un figlio bambino, come sarà poi nel Cristianesimo — nelle Adonie, invece, l’amore-passione finalizzato al puro piacere e destinato a svanire rapidamente.

Non stupisce dunque che, qualche decennio dopo Teocrito, un altro poeta, Apollonio Rodio, deciderà di dedicare alla passione amorosa un intero poema, le Argonautiche. Si tratta di un poema in quattro libri: appena un sesto rispetto alla misura dei poemi omerici, ma pur sempre un’opera mastodontica e decisamente fuori tempo, se si pensa che la cifra della poesia dell’epoca ellenistica era la brevità, oltre che la levità.
Le Argonautiche raccontano il mitico viaggio della prima nave, Argo, su cui s’imbarcarono decine di eroi al seguito di Giasone, spedito dallo zio, usurpatore del trono di suo padre, a riconquistare il vello di un ariete tutto d’oro, di cui rivendicava la proprietà. Poema di viaggio e d’avventura alla pari dell’Odissea, l’opera tuttavia se ne distingue nettamente proprio per lo spazio dato all’amore, non solo in termini di quantità di versi, ma soprattutto perché è la passione di una donna, Medea, la chiave di volta dell’intera vicenda. I cinquanta eroi fieri e vigorosi giunti nella terra dei Colchi, dove il re Eeta ha affidato a uno spaventoso drago la custodia di quel vello fatato che loro dovrebbero recuperare, scoraggiati dalle condizioni poste dal re, lo dicono con chiarezza: «In Afrodite risiede la speranza del nostro ritorno». Solo uno di loro, Ida, s’indigna davanti al progetto esplicito di ricorrere all’aiuto della figlia di Eeta, Medea, che è apparsa affascinata dalla bellezza di Giasone: «Ahimè, siamo venuti qui in compagnia di donnette, che chiamano in loro soccorso Afrodite, che non pensano a combattere, ma a sedurre con preghiere le fragili vergini». Basterebbero questi versi a farci misurare le profonde trasformazioni che in poco tempo hanno travolto un sistema di valori per sostituirlo con una visione del mondo tutta nuova.
Per la figura di Medea Apollonio si ispira principalmente a due modelli: a pima vista la sua eroina ricorda la figlia del re dei Feaci, Nausicaa, che, nel VI canto del poema omerico, accoglie e ristora Odisseo, naufrago sulle coste dell’isola di Scheria; e sogna di divenirne la sposa. Anche nelle Argonautiche è nel sogno che Medea si consente per la prima volta di dar voce al suo desiderio: «Le sembrava che lo straniero affrontasse la prova non con lo scopo di portar via il vello d’oro, ma per portare lei nella sua casa come legittima sposa».
Molto diversa la fiera Medea dell’omonima opera di Euripide, donna matura, sposa abbandonata e madre disperata, che si è tagliata i ponti alle spalle, tradendo per amore il padre e lasciando la sua terra e la sua cultura. Di quella personaggia Apollodoro riproduce il conflitto interiore che le fa immaginare e intraprendere un’azione per poi tornare sui suoi passi, più e più volte, in un andirivieni angoscioso che la dilania. Ma, mentre nella tragedia il conflitto interiore della protagonista rappresenta il nucleo drammatico della fine di una storia d’amore — Medea concepisce il progetto di uccidere i figli per vendicarsi dell’uomo con cui li ha generati, ma recalcitra a lungo, inorridita dal gesto che sta per compiere — nelle Argonautiche il dilemma è posto proprio all’inizio del percorso: la giovane principessa deve scegliere tra il dovere nei confronti dei genitori e il desiderio di salvare l’uomo di cui è innamorata, con la speranza di legarlo a sé per sempre: «E vedeva se stessa lottare coi tori e sconfiggerli con facilità… e lasciava i suoi genitori per lo straniero… lei sceglieva subito…». Nel sogno i genitori gridano furenti: Medea si sveglia in preda al terrore e cerca di allontanare il suo desiderio, augurando allo straniero di tornare presto sano e salvo nella patria lontana: «E che sposi una donna greca: io devo pensare alla mia vita di vergine, alla casa dei miei genitori. Tuttavia voglio che il mio cuore sia pronto a tutto e non esiti a tentare, se mai mia sorella Calciope, temendo per i figli, mi chieda aiuto. Sì, questo potrebbe spegnere la pena che ho nel petto». Decide di andare a cercare la sorella, si alza dal letto, ma resta fuori della porta della sua stanza per la vergogna, torna in camera sua, poi di nuovo fuori, fa avanti e indietro, dilaniata tra pudore e desiderio. Ma non riesce a trattenere il pianto al pensiero del rischio di morte che corre Giasone: «Come una giovane sposa piange nella stanza nuziale lo splendido sposo cui l’hanno data i genitori… lui l’ha ucciso il destino prima che entrambi godessero di reciproco amore…». La soluzione arriva grazie a un’ancella che la vede piangere e va a riferirlo a Calciope, madre di alcuni degli Argonauti che, dunque, insieme a Giasone, rischiano di soccombere nella prova cui Eeta si appresta a sottoporli con la promessa di consegnargli, se la superano, il vello conteso. Una volta che la sorella si sarà decisa a chiederle aiuto, Medea avrà un ottimo motivo per lasciar cadere i suoi scrupoli nei confronti del padre e usare le sue arti magiche per assicurare la vittoria agli Argonauti e coronare il suo sogno d’amore.
La complessità delle emozioni di Medea viene analizzata passo passo, rivelando nel poeta una sensibilità e una sapienza psicologica del tutto nuova e molto vicina alla nostra. Diversamente da quello che accade nei poemi omerici, e anche nella tragedia del V secolo, in cui la trama è lineare, le tinte sono nette e i sentimenti, l’amore e l’odio soprattutto, non conoscono sfumature, qui tutto si complica. Intorno a Medea si muovono, nell’ombra o alla luce del sole, diversi altri personaggi, ignorati o del tutto irrilevanti nelle più antiche versioni del mito, a partire dalla stessa Calciope. Al punto che le Argonautiche di Apollonio Rodio possono esser considerate un vero e proprio romanzo, anche se la forma ricalca quella dell’epica classica.

Del resto è proprio nello stesso periodo, il III secolo a. C., che, insieme alla diffusione della lettura e dei libri, nasce e ha rapido successo un nuovo genere letterario: il romanzo d’amore e d’avventura. Se già nelle opere dei grandi storici, Erodoto soprattutto, è possibile rintracciare qualche “novella”, cioè un breve racconto incastonato all’interno della narrazione principale e caratterizzato da espliciti riferimenti al desiderio sessuale, per trovare opere autonome e di una certa consistenza che abbiano come nucleo narrativo principale una grande storia d’amore con tutti gli annessi e connessi del genere, bisogna arrivare al periodo ellenistico. Ma la produzione di questo tipo continuò a essere considerata di scarso valore letterario con la conseguenza che ci sono stati conservati un numero ridottissimo di testi, cinque o sei in tutto, rispetto alla grande diffusione che il genere dovette conoscere. Il cosiddetto romanzo, categoria moderna cui solo per analogia possiamo accostare queste opere, era certamente un genere destinato principalmente, se non unicamente, alle donne. Le quali, peraltro, anche a quei tempi erano lettrici curiose, infaticabili e di gran lunga più numerose degli uomini.

Le vicende raccontate in questi romanzi antichi seguono uno schema abbastanza consolidato e persistente nel tempo: un ragazzo e una ragazza innamorati e assegnati l’una all’altro dal destino, prima di poter coronare il sogno d’amore, vivere felici e contenti e propagare la loro stipe per molte generazioni, vengono ripetutamente separati da casi sfortunati, naufragi, guerre e catastrofi varie; o anche dalla malvagità e dalle brame di antagonisti potenti, ma immancabilmente destinati alla sconfitta.
Queste storie erano destinate all’educazione di ragazze di buona famiglia, dotate di una formazione che consentiva loro di coglierne i riferimenti alla letteratura di livello più alto e di solito, anche se si preoccupavano di salvaguardare la verginità dell’eroina fino al matrimonio con lo sposo promesso, non erano prive di particolari lascivi.
Fa eccezione quella che ci è arrivata col titolo di Storie Etiopiche ed è attribuita addirittura a un vescovo non digiuno di lettere: la storia è completamente scevra di riferimenti al sesso e soprattutto alla possibilità di desideri omoerotici, piuttosto comuni negli altri testi del genere.