accadde…oggi: nel 1876 nasce Paola Bianchetti Drigo, di Angelo Miatello

DONNE FAMOSE DIMENTICATE: 1. PAOLA BIANCHETTI DRIGO

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Una carrellata tutta al femminile in un mondo analogico che a Castelfranco Veneto (Treviso) non trova ancora mezzi ed energie umane per riprendere un discorso mai iniziato. Per ora abbiamo individuato, a forza di sfogliare libri di storia locale e annotando fatti di cronaca culturale di altre province o della capitale appena una dozzina di donne che si sono distinte durante la loro vita, nate o vissute a Castelfranco Veneto. Si noti che l’indice dei nomi con migliaia di riferimenti sono esclusivamente maschili, anche se una buona parte delle donne ha contribuito in politica, nel sociale e nelle arti. Non ci sono monumenti al femminile, se non di Madonne e Sante o in “costume da bagno”. Eppure alcune di esse hanno superato di gran lunga qualsiasi altro “uomo” nella stessa professione. Questi i nomi da ricordare: Erminia Fuà (in Fusinato), Enrichetta Usuelli (in Ruzza), Paola Bianchetti (in Drigo), Eleonora Duse, Olga Bernardi, Tina Anselmi, Gaetanina Brambilla (in Marulli), Regina Caterina Cornaro (in Lusignano), Nina Scapinello…mancano all’appello insegnanti, infermiere, operaie, partigiane, consiglieri.
Iniziamo con Paola Drigo, figlia di Valerio Bianchetti e la signora Loro, Suo papà si distinse come oratore e pubblicista, assiduo frequentatore di Alberto Mario e Giosuè Carducci. Partecipò alla terza guerra d’indipendenza e fu fatto prigioniero. La famiglia era originaria di Asolo.

Paola Drigo (Paolina Valeria Maria Bianchetti, il nome completo da nubile) nasce a Castelfranco Veneto (Tv), il 4 gennaio 1876. Frequenta il ginnasio presso il Ginnasio Liceo “Antonio Canova” di Treviso; alla morte del padre nel 1888 la famiglia si trasferisce a Venezia, dove Paola completa gli studi. Nel 1898, a soli ventidue anni, Paola sposa l’agronomo padovano Giulio Drigo, ricco possidente. Dopo qualche anno, si trasferiscono a Mussolente. Alla morte del marito, nel 1922, inizia a occuparsi dell’andamento degli affari di famiglia e nel 1937 Paola Drigo si trasferisce a Padova dove muore il 4 gennaio 1938. Sarà sepolta come il marito nella tomba di famiglia che si trovava dentro il giardino della villa che, anni dopo sarà trasferita nel cimitero comunale.

La Gazzetta di Venezia, 1.1938
É MORTA PAOLA DRIGO 
PADOVA. 4 Gennaio. In una clinica della nostra città, dove si trovava da qualche tempo, perché sofferente di ulcera gastrico la scrittrice Paola Drigo. La morte è avvenuta dopo l’atto operatorio. Paola Drigo era il suo nome d’arte, il vero nome, come tutti sanno, era Paola Bianchetti. Si dedicò alla scrittura che divenne negli anni Trenta una voce importante e originale della narrativa italiana. Pubblicò novelle ed elzeviri nei più prestigiosi giornali dell’epoca: La LetturaNuova AntologiaL’Illustrazione italianaCorriere della Sera e altri, raccolti a costituire i tre volumi di racconti della sua bibliografia. È autrice poi di due rilevanti romanzi, editi entrambi nel 1936: Fine d’anno e Maria Zef che ha avuto ben due trasposizioni cinematografiche. Nel 2008, è stato presentato a Palazzo Costantini (Vi) “Paola Drigo. Settant’anni dopo (Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore)”, un libro in cui si ripercorre la personalità della più grande scrittrice veneta del primo Novecento, vissuta tra Padova e Mussolente nel vicentino. Sono interventi insigni studiosi al convegno tenutosi a Padova tre anni prima: Giorgio Pullini, Giorgio Barberi Squarotti, Cesare De Michelis, Paola Azzolin, Patrizia Zambon, Francesca Favaro, Rossana Melis, Delia Garofano e altri. Adriana Chemello, del CdA Biblioteca Civica Bertoliana, ha introdotto così: “era una donna di carattere – la forza dei due romanzi e dei racconti lo mostra – capace, già in età di andar trottando su un ronzino per amministrare e salvare dalla rovina una sua piccola tenuta, dopo le ruberie di un fattore. Capace di guardare con verità le miserie della gente che le erano attorno. Questa forza della sincerità nell’animo e negli occhi della scrittrice prima che nello stile, ci pare che distingua Paola Drigo dagli scrittori del Verismo nei quali gli intendimenti letterari e la ricerca linguistica trascendono la materia e tengono spesso l’autore lontano dalla vicenda. Rileggendo alcune pagine del romanzo più famoso della Drigo Maria Zef  ha sentito riaffiorare nella sua mente la rappresentazione realistica del paesaggio geografico e umano dei racconti della scrittrice friulana Caterina Percoto (1812-1887). La Drigo riprende temi e situazioni che si collocano all’interno del realismo rappresentativo della Percoto dimostrando una straordinaria capacità di descrivere una classe minima e minuta caratterizzata da una povertà molto dignitosa.
Un altro aspetto che richiama la scrittura della Drigo è l’esperienza giornalistica trevigiana di metà ‘800 che si intitolava L’Archivio domestico. Nel 1868, questa pubblicazione che era una rivista per le famiglie, svolgeva un’inchiesta sui lavori delle donne in Carnia che descriveva le fatiche di queste donne che con le gerle scendevano a valle per vendere oggetti di legno che avevano realizzato nelle veglie delle stalle durante l’inverno. C’è un collegamento e una tradizione che continua nelle pagine della Drigo che si ricollega a motivi che appartengono non solo alla terra ma anche alla tradizione letteraria e giornalistica veneta. Un altro nome che si collega alle pagine della Drigo è quello di Luigia Codemo, anche lei trevigiana, una narratrice interessante di fine ‘800, anche se non all’altezza della Drigo, la quale aveva creato un circuito di lettura e si era impegnata sul piano civile e filantropico a favore dell’istruzione delle donne e dell’assistenza all’infanzia, che ha pubblicato il primo romanzo risorgimentale scritto da mano femminile intitolato La rivoluzione in casa. La tradizione della Drigo continua con Giovanna Zangrandi e la raccolta dei racconti di Dino Buzzati.
La Chemello ha poi presentato le due studiose che hanno curato il volume: Beatrice Bartolomeo e Patrizia Zambon, che insegnano all’Università di Padova. Quest’ultima ha detto che la Drigo appartiene alla linea degli scrittori rilevanti della civiltà letteraria non solo veneta, ma italiana. Se vogliamo cercare lo scrittore più significativo di area veneta degli anni Trenta lo troviamo in una scrittrice come la Drigo, che ha goduto di un’eco abbastanza sensibile e considerevole presso i contemporanei e un’eco meno significativa nella storiografia e nella critica degli anni successivi. Se vogliamo fare una possibile graduatoria degli scrittori emergenti degli anni Trenta, fra Moravia, il primo Vittoriani, il primo Pavese, la Drigo va posta nello stesso piano. Non si tratta quindi di una dilettante orecchiante le forme della letteratura italiana, ma di una vera e propria scrittrice a tutti i livelli.
La Drigo ha vissuto nella villa del marito a Mussolente, dal 1900, dopo aver abitato a Castelfranco, Treviso, Venezia e Padova, “conducendovi una vita sontuosa e preziosa di elegante bellezza formale, agiata condizione patrimoniale, corrispondenze, ospiti, visite amicali e occasioni d’ambiente intellettuale. Ebbe la sfortuna che un incendio distrusse la gran parte delle carte del suo archivio. (cf. Giovanni Giolo).
Nel 1889 Giulio sposa Paolina Valeria Maria Bianchetti, scrittrice, che con il nome di Paola Drigo, diverrà famosa nel 1936 per il romanzo Maria Zef. Nel 1899 nasce Paolo (1899-1968), che diverrà scrittore, geografo, filologo (segue).

Maria Zef
Il romanzo della miseria
Milano, Treves 1936; ristampato da Garzanti nel 1939, 1946 e 1953 e tradotto in varie lingue

Nel frattempo altre opere di altri scrittori sovrastarono questo capolavoro, che rimase così dimenticato o del tutto sconosciuto fino al 1982, quando il regista modenese Vittorio Cottafavi realizzò il film “Maria Zef”, che RaiTre trasmise poi in una serata memorabile a diffusione nazionale, suscitando interminabili discussioni in Carnia tra chi aveva visto il film e chi non lo aveva visto (RaiTre allora arrivava solo fino nella conca di Tolmezzo, mentre le valli della Carnia ne erano ancora escluse). A questo film (con dialoghi in lingua friulana), che fu girato in vari luoghi (interni a Paluzza e Ampezzo, esterni a Forni e Villa), diedero il loro contributo molte comparse carniche. Da ricordare Siro Angeli (il poeta di Cavazzo) che, oltre a esserne sceneggiatore, interpretò il protagonista Barbe Zef e la piccola Anna Bellina di Treppo Carnico che recitò il ruolo di Rosute. Per il carnico però questo resta un romanzo assai difficile e controverso. Se da un lato descrive e dipinge uno dei luoghi più incantevoli della Carnia, dall’altro indugia e scava su personaggi che sintetizzano gli aspetti più deteriori del montanaro. Tutti sanno che un tempo alcolismo, incesto e analfabetismo fossero il determinatore comune di ogni comunità isolata (montana e non), dove si consumavano, all’interno delle mura domestiche, quotidiani drammi e infinite tragedie che lasciavano il segno poi per le generazioni future. Questa intollerabile rappresentazione della Carnia e della sua gente (quasi che questi vizi fossero invece la cifra particolare di questa terra) ha per anni creato una vera e propria ripulsa per questo romanzo e per questo film, che tuttavia erano e sono, dal punto di vista estetico, delle opere di assoluto rilievo. Maria Zef è il romanzo della miseria: miseria materiale e miseria morale, entrambe determinate da un destino incomprensibile e indeterminato, che si intrecciano e si avviluppano verso un esito drammatico, che non lascia spazio a una pur tenue speranza. I personaggi (Catinute, Mariutine, Rosute, Barbe Zef) vengono tratteggiati in maniera precisa, a tratti impietosa, sempre aderente alla realtà, quasi verista. Perfino il cane Petòti assume un ruolo di rilievo in questo romanzo, che offre splendidi affreschi naturali, gravi silenzi attoniti, leggere atmosfere di sentimenti purissimi, ampi squarci di sereno bruscamente interrotti dallo scroscio selvaggio del temporale e della violenza. Una scrittrice di talento, come testimoniano i suoi romanzi, che ha avuto, forse, una sfortunata coincidenza: quello che sarà considerato il suo capolavoro, Maria Zef, romanzo verista e drammatico, edito da Treves nel 1936, giudicato da Claudio Magris come “un piccolo e vero capolavoro” e uno dei più belli e sottovalutati romanzi del nostro Novecento, nonostante l’immediato successo, non ebbe gli echi aspettati in quanto sommerso dai fragori della Seconda guerra mondiale. Questo è il motivo per cui la Drigo è meno nota rispetto alle scrittrici dell’epoca come Matilde Serao, Grazia Deledda e Ada Negri che si rifacevano alla temperie ottocentesca e a quel primo ‘900 così ricco di genio e di fervore letterario.

Patrizia Zambon, ha curato, nel 2005, la riedizione di Fine d’anno (Carabba) e nel 2006 una scelta di Racconti (Il Poligrafo). La produzione letteraria della Drigo, iniziata, nel 1913, con la raccolta di novelle La fortuna, prosegue con la raccolta Codino, edita, nel 1918, da Treves: in tutto quattordici testi, alcuni già stampati su riviste a larga tiratura. L’editore vicentino Jacchia pubblicò, nel 1932, La signorina Anna, con altri sei racconti, apparsi su riviste nei dieci anni precedenti. Sono tendenzialmente due i campi emozionali e narrativi nei quali la Drigo elabora i suoi racconti: quello di un tragico realismo, infinitamente dolente, e quello di una mondanità leggera e sorridente, o amaramente disincantata. Novelle quindi d’impianto realista, dure e ferme, come le giudicò Manara Valgimigli, quando, nel 1940, volle ripercorrere, in un articolo redatto per la Nuova Antologia, i temi e le forme della narratrice che non manca di una risentita ed emozionata volontà di denuncia. Categorico il suo giudizio sulla scrittrice, che aveva conosciuto quando, ormai gravemente malata, aveva lasciato Mussolente per il villino padovano di via Paleocapa: “Veramente la Drigo è una maschia donna. È una scrittrice virile”. “Poche straordinarie righe – commenta la studiosa Delia Garofano – che mi pare esprimano nella maniera più perfetta tutto ciò che c’è da capire Paola Drigo”. “Scrittrice virile, dunque la Drigo, ma oggi – precisa la studiosa – si preferisce definirla semplicemente “scrittrice”, non perché “virile”, ma perché “squisitamente donna”. Donna per la sua fedeltà, l’esattezza formale lungamente perseguita, l’amorosa attenzione usata nella rappresentazione e nella resa espressiva del senso taciuto delle tante, diverse e pur sempre “ferite” esistenze dei suoi protagonisti”.