l’autentica rovina, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. L’autentica rovina

Carissime lettrici e carissimi lettori,
«…Ma la vecchiezza è una Roma/ che, invece di ciarle o ciance/, non prove esige dall’attore/, ma una completa autentica rovina». Carissima madre quante volte ti ho detto a memoria, per caso, mentre tu eri forte, questi versi di Boris Leonidovič Pasternak, l’autore del Dottor Živago e di quella terribile, coraggiosamente infinita, telefonata a Osip Vissarionovič Džugašvili, a Stalin, al dittatore, da cui voleva sapere dove aveva “ficcato” il suo amico e grande poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891 – 1938).
Adorata per sempre madre, tu ascoltavi e ti piaceva pensare alla poesia, alla cultura. Tu amavi guidarmi verso i mondi che tu sapevi visitare. I “titoli” scolastici per te non contano, bastava la passione, averla capita, come tu hai fatto. Era in te. Attraverso te, madre mia, con la tua straordinaria caparbia (oh, quanto eri caparbia, fino alla fine, nella tua immensa dolcezza!) mi spingevi a conoscerli quei mondi, meglio, più “concretamente” di te, perché, dicevi, la cultura, quello che è scritto nei libri, quello che ascolti e vedi studiando, ti insegna ad affrontare la vita, nel bene o nel male, saprai capirla meglio. Studiare era per te un obbligo, un’etica. Per quel che ho potuto l’ho preso come un impegno. Ora come una promessa. Dicevi che non sapevi visitare una mostra di un grande pittore, ma non solo ci andavi accompagnata da una di noi, ma da sola, come è capitato. Hai fatto la fila sotto un sole estivo cocente, sei andata a vedere la bellezza immensa dei due Bronzi di Riace venuti a Roma, al Quirinale, dal mare di Calabria che li aveva nascosti. Le tue osservazioni mi incantavano. Non mi è mai importato che i miei genitori, che tu, non fossi un nome noto, un’altamente qualificata in una certa società. Tu volevi che noi figlie lo fossimo. E sapevi indicare le strade.

Mi scuso con le mie lettrici e i miei lettori (tanti, lo so) per questo mio editoriale intimissimo. Diverso, per ovvi motivi, da quello scritto per Piera Degli Esposti, quando è arrivato il suo momento di lasciarci senza di lei. Piera, mamma, ti adorava, semplicemente, senza conoscerti, ti pensava coraggiosa ed elegante, raffinata. E aveva ragione, come chi, come Piera, sa essere emblema dell’arte. Tu sorridevi alle mie parole riferite e chiedevi alla tua adoratissima nipote (la vorrei per tutte le nonne così affettuosa e premurosa!) di cercare di non farmi troppo soffrire per la mancanza della mia cara amica bolognese.
Io e te siamo andate insieme a Bologna, che ti è piaciuta tanto ed eri d’accordo con me a paragonarla alla tua Napoli, tanto amata da te e adorata da un grande bolognese, Lucio Dalla, altro profondamente intimo amico di Piera. A Bologna, dove siamo state sedute insieme in cattedrale, non San Petronio, quella pensata erroneamente tale, in piazza Maggiore, ma il Duomo di San Pietro, che sta in via Indipendenza dove, allora, era esposta la Madonna di San Luca, portata giù dai e dalle bolognesi una volta l’anno, a maggio.
Cercando il nome di questa chiesa per scriverlo qui ho saputo cose nuove per me: «È la cattedrale della città, elevata al titolo di Metropolitana nel 1582 da Papa Gregorio XIII che conferì alla diocesi di Bologna la dignità arcivescovile. Le prime testimonianze dell’edificio risalgono al X secolo…Nonostante la Basilica di San Petronio sia più grande e conosciuta, la Cattedrale di Bologna corrisponde a San Pietro, in via Indipendenza…Qui, infatti, ha sede appunto la Cattedra dell’Arcivescovo. Il Campanile, alto 70 metri, iniziò ad essere costruito nel 1184 ma si arrivò alla conclusione solo nel 1426. Ha una copertura a cuspide che ingloba il vecchio campanile paleoromanico del X secolo e si trova affacciato proprio su via Indipendenza. All’interno di san Pietro a Bologna sono custodite opere di importanti artisti italiani, da Prospero Fontana a Ludovico Carracci, da Marcantonio Franceschini a Donato Creti. Da non perdere, il Compianto su Cristo morto di Alfonso Lombardi, una pregevole opera in terracotta del 1522. Poi Il tesoro della cattedrale e la cripta». Ecco, madre, cosa mi insegnavi e mi insegni ancora: a guardare. Come Jules Verne faceva dire a Michel Strogoff (scritto così): «Guarda, a tutt’occhi, guarda!».

Siamo andate insieme soprattutto a Venezia. Ti era dovuto dalla vita. Lo meritavi. Te l’avevo promesso e, per fortuna si è attuato. Tu, cittadina di mare, hai temuto quelle case non davanti all’acqua, come nella tua Napoli (che una grande scrittrice diceva fosse amaramente priva del mare), ma “in mezzo” al mare, come “spetta”, si addice, a una laguna. Hai goduto del tuo stare affacciata sul Canal Grande, hai ammirato l’arte dei vetrai di Murano. Hai camminato tanto nei tuoi novanta anni. Ti sei pentita di non essere salita sul campanile di San Marco, hai vissuto l’”acqua alta”, eri felice di aver visitato Rialto. La Venezia che sognavi, te la volevo dare. Alla fine, con i tuoi ri-pensamenti, mi hai detto, piano, come sapevi fare, che quei giorni veneziani potevano (dovevano) essere di più. Poi, quando lì ci andavo per “dovere d’ufficio” e occasione di visita, non ho fatto più in tempo, perché la vita andava avanti e, per ripetere Pasternak, galoppava per te senza remore. Così è stato anche per Torino e Milano: era difficile convincerti, tu “guardiana” impeccabile delle nostre vite.

Ti scrivo qui, ancora chiedendo pazienza e comprensione alle lettrici e lettori, perché meriti omaggio come donna, «prima donna della mia vita» come ti ho dedicato nel libro, una donna forte, come piacciono a noi che vogliamo parità di genere. Decidendo di scrivere qui di te ho pensato che il tuo esempio di vita apparisse una rimembranza, una rivisitazione per tanti e tante che, alla nostra età, probabilmente hanno già salutato fisicamente chi li e le ha generate/i. E per le e i più giovani il mio racconto potrebbe innescare ancora di più la voglia di gioire delle loro “prime donne” che hanno vissuto realmente, fisicamente e metaforicamente, dall’interno: l’Origine del mondo, un immenso rimando e omaggio a Gustave Courbet per il potere generativo di tutte le donne!
Cara madre tu sai come va il mondo, perché eri disincantata degli avvenimenti da telegiornale. Ma sapevi capire i valori, quelli molto più grandi delle scaramucce della quotidianità adattabile a cambiare. Noi, noi donne, non siamo sempre madri, seppure la creazione ci appartenga sempre e ci rende invidiabili dai nostri compagni di strada. Ma siamo sicuramente figlie. È per questo che ci sentiamo legate per sempre, come te alla tua: una nonna (Ernesta) mai conosciuta, ma per me grande maestra, anche lei indicatrice di strade.
Carissima mamma. La nostra Piera Degli Esposti mi parlava di consolazione, del dovere/missione dell’attore, del teatro, della cultura. «Io penso che l’attore abbia un compito nella vita, arduo, ma splendido. Quello di consolare, consolarci dei nostri lutti degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia e della morte. Può consolare facendo ridere, come Totò, ma deve riuscire a entrare, come faceva lui, nelle profondità linguistiche, ripetitive, distorte. O come Eduardo, che avendo raggiunto quella profonda conoscenza di sé, poteva consolare anche esibendo la sua persona in maniera quasi impudica. Per essere attori, quindi, non mi sembra sufficiente la bella dizione, la bella voce, la disinvoltura, l’elegante, quanto narcisistico, porgere. Bisogna calarsi nel proprio io, profondo, risalendo e portandosi alla luce» (https://www.youtube.com/watch?v=liTQkJ0ugM8)

Lei, Piera, mi diceva che la poesia o la citazione da un grande che avevo cominciato a mettere alla fine di ogni editoriale che lei leggeva, la consolava. Io consolavo lei! Tu mi hai insegnato a scegliere quelle “spalle dei giganti” sulle quali dovevo salire per vedere le enormi consolazioni del mondo. Quelle per cui vale la pena vivere, al di là di ogni credo. Tu eri, sei stata da sempre, la mia lettrice. Conoscevi i miei articoli per prima. Ne davi sempre il parere, senza remore. Ho avuto la tua stima e me ne faccio un vanto, come un certificato di abilitazione. Ti chiamavo, scherzando, “Il Popolo” e così ti chiamerò per sempre, nel mio cuore.
Mi hai insegnato tante cose. Sei stata tu, una mattina, forse era domenica, mentre eravamo impegnate a sbrigare le solite quotidiane faccende per casa, mi hai indicato, lo stavano passando alla televisione, un ragazzo con gli occhiali, seduto di profilo, non bello, che cantava una canzone intitolata Bandiera bianca. A te piaceva tantissimo e io ho cominciato ad amarlo: un’altra strada indicata. Come quella, ricordi, che vivevamo ogni sabato sera. Eravamo a casa e venivano trasmessi, settimanalmente, i film del grande regista giapponese Akira Kurosawa che era venuto al mondo dieci anni esatti prima di te e se ne è andato via nel 1998 lasciando una produzione artistica immensa e meravigliosa. A te piaceva e anche a me! Anche qui mi induci (ormai è un’azione meccanica per me, ad approfondire, a ricordare e trovo che fu pluripremiato: «Tutta l’educazione di Kurosawa avviene nell’ambito della cultura giapponese, la sua famiglia discende da antichi samurai e il padre, severo custode del galateo dei samurai, ne trasmette al figlio valori e etica. Frequenta la scuola di kendo divenendo molto bravo; da bambino assiste spesso e con grande interesse agli spettacoli teatrali dei cantastorie e più grande quelli del teatro Kabuki e  che formano il suo gusto estetico. Legge e conosce in modo approfondito i classici della letteratura e della poesia giapponese. Influenza della cultura occidentale: molti suoi film, pur essendo giapponesi nello stile, hanno derivazioni europee e si ispirano a Dostoevskij e a Pirandello, alla tragedia greca e ai dramma shakespeariani; altri nascono in collaborazione con stranieri (Dersu Uzala è una coproduzione nippo-sovietica, Kagemusha e Sogni sono stati realizzati grazie all’intervento del cinema statunitense); nei film in costume l’azione è condotta secondo i ritmi tipici del film d’avventura americano e Kurosawa dichiara più volte di considerare John Ford un grande maestro». (Wikipedia).

Ritorno alla poesia- consolazione dell’editoriale. Metto per te (ripetendomi perché l’ho letta con voi lettrici e lettori nell’editoriale 262, per commentare la preghiera di Papa Bergoglio e altre preghiere laiche, per la fine della guerra tra Ucraina e Russia) la canzone di Franco Battiato. Anche questo te lo devo. Poi aggiungo una poesia, scritta dalla tua amatissima nipote. Le stavi insegnando come si impasta per fare il pane o le frittelle che la deliziavano sempre cucinate da te nelle sue sentitissime visite a te. Te le aveva fotografate le tue mani, quelle che non vedrò più, e che non vedo da tempo così attive. Dalla fotografia sono nati in lei dei versi, inviati quasi distrattamente, a un concorso organizzato da un’associazione di Ponte San Nicolò, a un passo da Padova (Gruppo donne, novembre 2021) intitolato stupendamente: I gesti di cura delle donne. Ha vinto il premio la poesia su di te. A Padova Nilowfer, tua nipote e mia figlia, ci andammo insieme continuando con uno splendido e indimenticabile soggiorno a Venezia. Ancora grazie a te.

«La bandiera bianca ha storicamente un significato di resa incondizionata. Battiato si arrende quindi alla decadenza dei tempi e dei costumi, che continuerà a criticare nelle strofe successive. La figura è mutuata da dei fatti scaturiti da una poesia di Arnaldo Fusinato (https://www.facebook.com/watch/?v=2371111544068)

dal titolo Ultime ore a Venezia, che parla proprio della resa della città lagunare alle forze austriache. Franco Battiato cita il Minima Moralia di Theodore Adorno, illustre filosofo tedesco, che commenta la condizione umana dettata dal capitalismo e il nazismo (Adorno iniziò a scriverlo nel 1944, a guerra ancora in corso). Mentre il brano sfuma tra i cori, dopo il ritornello, c’è spazio per un’ultima citazione. Battiato si riferisce infatti a The End di The Doors, in un ultimo, disperato grido di sconfitta e di arresa».

Per salutarti nella chiesa del Dio in cui tu credevi in modo puro hai in qualche modo (che non posso sapere) ascoltato le note dell’Ave Maria di Strauss che mi raccontavi come le tue preferite e ricordavi il cantante che te le aveva donate, chiamato per il tuo matrimonio dal San Carlo di Napoli. Ora non c’era la voce, ma il suono commovente e meraviglioso del violoncello. Per te.

Bandiera Bianca

Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare
Rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare
Siamo figli delle stelle e
Pronipoti di sua maestà il denaro
Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare
Quei programmi demenziali con tribune elettorali
E avete voglia di mettervi profumi e deodoranti
Siete come sabbie mobili tirate giù uh uh
C’è chi si mette degli occhiali da sole
Per avere più carisma e sintomatico mistero
Uh com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme
Imbiancano
Quante squallide figure che attraversano il paese
Com’è misera la vita negli abusi di potere.
Sul ponte sventola bandiera bianca
Sul ponte sventola bandiera bianca.
Sul ponte sventola bandiera bianca
Sul ponte sventola bandiera bianca.
A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata
A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie
Uh! Com’è difficile restare calmi e indifferenti
Mentre tutti intorno fanno rumore
In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore
Ho sentito degli spari in una via del centro
Quante stupide galline che si azzuffano per niente
Minima immoralia
Minima immoralia
E sommersi soprattutto da immondizie musicali
Sul ponte sventola bandiera bianca
Sul ponte sventola bandiera bianca.
Sul ponte sventola bandiera bianca
Sul ponte sventola bandiera bianca.
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia.
The end
My only friend this is the end
Sul ponte sventola bandiera bianca
Sul ponte sventola bandiera bianca.
Sul ponte sventola bandiera bianca…

(17 settembre 1981, EMI)

Le sue mani.

Le sue mani impastano, rugose.
Le sue mani sono forza,
e tenerezza al tempo stesso.

Le sue mani risolute mi hanno accarezzato,
le sue mani nodose possiedono arte e sapere,
hanno lavorato, veloci e scattanti.

Quelle mani racchiudono il mio mondo,
Sono artefici del destino,
sono mani che indicano la strada da seguire.

Le sue mani sono state,
le sue mani sono.
Sanno di essere antiche, le sue mani.

Le sue mani sanno.

Le sue mani hanno visto,
hanno sofferto e pianto,
hanno riso e amato.

Le sue mani sono diventate artigli,
hanno combattuto, lottato e vinto.
Hanno saputo i segreti più ancestrali.

Le sue mani hanno toccato corpi,
sani e malati,
piccoli e grandi,

Le sue mani sono immortali.

Le sue mani indossano un anello,
promessa d’amore infinita,
le sue mani hanno imparato.

Le sue mani tengono stretto il mazzo di fiori,

sono tutt’uno con essi,
e con il ricordo di una vita passata.

Le sue mani hanno seppellito,
hanno accarezzato il ventre gonfio,
hanno sudato sempre
Mani produttrici,

mani amiche,
mani materne.

Le sue mani sono vive.

Nilowfer Awan (2021)

Con un grazie per la pazienza e la compassione, citata da Piera sempre, buona lettura a tutte e a tutti.