strumenti di libertà, di Graziella Priulla

Strumenti di libertà

Non fa male al corpo, non uccide e nemmeno lascia segni visibili, non fa rumore, ma la violenza economica mette ugualmente le donne in stato di soggezione rispetto ai partner. È il volto meno noto della violenza di genere, è difficile da riconoscere, non è prevista nel nostro ordinamento come forma autonoma di sopraffazione ma la Cassazione con la sentenza n.1268 del 2025 (relatrice Paola Di Nicola Travaglini) l’ha individuata specificamente, richiamando la Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia. Speriamo che faccia scuola.

La dipendenza economica può diventare un ostacolo insormontabile per liberarsi da una storia tossica. Una donna su tre, tra quante ricorrono ai centri antiviolenza, la subisce (dati Dire). Tra le vittime ci sono donne di ogni età e di ogni ceto. La percentuale sale tra le donne separate o divorziate.
Un reddito proprio, una casa, un lavoro equivalgono alla possibilità di scegliere, di autodeterminarsi. Spesso dietro al benevolo «non darti da fare, ci penso io», che scoraggia scelte di vita, si nascondono rapporti di potere, meccanismi di controllo, situazioni di dipendenza, ricatti psicologici, strumenti di manipolazione, motori di svalutazione, attacchi all’autostima.
Per amministrare soldi bisogna prima riuscire a guadagnarli (non è poi così scontato). Nonostante le donne lavoratrici tra i 15 e i 64 anni anche in Italia siano aumentate, il livello è ancora inferiore di 13,8 punti a quello della media dell’Ue. Siamo nelle ultime posizioni in Europaper quanto riguarda il tasso di occupazione femminile, pari al 48,2%. Nel Mezzogiorno la situazione è ancora più difficile, con una partecipazione femminile al lavoro che si ferma al 35,5%.
Anche per quanto riguarda gli stipendi il gap esiste ancora: una donna porta mediamente a casa ancora il 13% in meno rispetto ai colleghi. Il basso livello di occupazione e le carriere più precarie, meno lunghe e con stipendi più bassi fan sì che le donne percepiscano assegni pensionistici più esigui.
Il gender gap pone ancora il nostro Paese al 63esimo posto nel mondo.

L’occupazione femminile e di conseguenza il possesso di un reddito personale costituiscono i primi due parametri attraverso cui si manifesta il divario di genere tra uomini e donne. La prima conseguenza evidente di questo divario è la bassa percentuale di donne che si dichiarano economicamente indipendenti, anche nel caso di un lavoro retribuito.
Quello che cambia sensibilmente è la diversa origine del benessere (o della sofferenza economica): gli uomini dipendono in misura maggiore dal proprio reddito, le donne da quello del proprio partner o di un altro familiare.

Se si scorrono le tabelle Ocse nell’ultimo studio (2023) si legge che uomini e donne ritengono che gli argomenti finanziari siano molto importanti. Emerge però un gap quando si domanda se c’è interesse a parlare di queste tematiche. Più del 50 % degli uomini risponde di sì. Per le donne la percentuale scende al 30.

In Italia il 37% delle donne non ha un conto corrente intestato.
Secondo l’indagine Le donne e la gestione del risparmio, realizzata nel 2017/18 dal Museo del Risparmio di Torino con Episteme, il 60% di loro delega la gestione economica della famiglia al partner e il 40% gestisce unicamente le spese quotidiane. Permane molto alta la differenza tra gli uomini e le donne che investono i propri risparmi (ben 20 punti percentuali).
Quando si tratta delle competenze economico-finanziarie le italiane scontano ancora un ritardo di preparazione e interesse.
Le cause di questo disequilibrio risiedono sia nelle condizioni materiali sia in quelle culturali e attitudinali, che si aggravano con un basso livello di istruzione.
C’è da scardinare un potere tradizionalmente maschile, anacronistico e penalizzante.
È diffusa ancora la credenza che sia l’uomo a doversi occupare principalmente delle questioni economiche e che spetti a lui, di conseguenza, accrescere le proprie conoscenze finanziarie. Le donne invece gestiscono le piccole questioni quotidiane e mostrano poco interesse nel possedere conoscenze finanziarie, anche di base. La maggior parte delle persone ritiene che questa ripartizione dei compiti sia equilibrata.
Non lo è. Questa divisione è problematica da molti punti di vista perché oltre a relegare la donna a compiti minori, minaccia la percezione del proprio valore e della propria capacità di gestire i soldi in maniera autonoma. Inoltre la mancata costruzione di una propria indipendenza finanziaria significa esporsi al rischio di violenza economica. Questo tipo di violenza, modello subdolo di controllo spesso ricattatorio, ha carattere trasversale: come si è detto è indipendente dalle fasce di reddito e affonda le radici nella relazione che le persone instaurano con il denaro. Secondo Azzurra Rinaldi, coordinatrice della School of Gender Economics di Unitelma Sapienza, il tema dell’empowerment economico emerge già nell’infanzia. L’economista ha spiegato che «il problema si ha dai primi anni, quando la paghetta viene data in maniera distinta a maschi e femmine».

Oltre alla libertà pratica, l’indipendenza economica dà maggiore sicurezza psicologica: essere in grado di guadagnare, risparmiare e investire aiuta ad avere maggiore controllo sul proprio futuro e maggiore consapevolezza di se stesse e del proprio valore.
Insomma, oltre a modificare il mercato del lavoro fornire strumenti pratici e conoscenze finanziarie di base è una soluzione che può garantire a tutte le donne un futuro più libero.