agorà, dal greco piazza, per discutere di pace, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Agorà: dal greco piazza. Per discutere di democrazia e di pace

Carissime lettrici e carissimi lettori,
razza e discriminazione: discriminazione razziale. Una settimana non basta, quest’anno la XXI indetta dall’Onu, per riflettere in modo più approfondito. Due date: l’8 e il 21 marzo, in Occidente inizio della primavera, dovrebbero sempre essere entrambe legate alla definizione di “tutto l’anno”. Vuole dire: durante ogni giorno. Il rispetto per le donne, tutte le donne, l’idea di uguaglianza tra le persone, rispettando le caratteristiche di ciascuno/a dal colore della pelle, alla religione, alle idee politiche, alle scelte sessuali, alle malattie, le minoranze in genere, le/i cosiddetti/e “diversi/e” ci aiutano a non dimenticare il nocciolo di un problema, anzi più di due.
Sì “il” problema che apre a “i” problemi. In effetti le donne, la discriminazione femminile da parte di una società ancora maschilista e fondata fortemente sul patriarcato, è uno dei segmenti del concetto portato avanti da questa settimana indetta dall’Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali che, come detta la sua definizione «garantisce l’applicazione del principio di parità di trattamento fra le persone e contrasta il diffondersi di fenomeni discriminatori, assistendo le vittime, controllando l’efficacia degli strumenti di tutela esistenti e analizzando le forme e le dinamiche di manifestazione del fenomeno».
All’Unar abbiamo dedicato questo numero della rivista che è, in un certo senso, diventato un numero monografico dedicato ai temi portanti e importanti di questa settimana, cominciata lunedì 17 marzo per concludersi il 23 marzo con una giornata clou in venerdì 21 marzo, all’inizio della primavera entrata ufficialmente il 20 marzo, scrutando il cielo alle 10 e qualche minuto, secondo l’orologio italiano. La XXI settimana di azione contro il razzismo quest’anno è ancora più sentita per la coincidenza dei trentacinque anni dalla liberazione di Nelson Mandela avvenuta, dopo 27 anni di carcere, l’11 febbraio del 1990. Una figura, quella del Presidente Mandela, emblematica della lotta contro il razzismo inteso in senso stretto, nel suo significato primario di lotta contro le discriminazioni per il colore della pelle (“superiorità” di una razza, quella “bianca” su uomini e donne di pelle nera). «Nelson Mandela ha guidato la storica transizione del Sudafrica dall’ Apartheid a una democrazia Inclusiva sul piano razziale ha promosso le pari opportunità e la pace per tutti». Era stato condannato all’ergastolo nel 1964 per cospirazione e sabotaggio contro il governo sudafricano. Nel 1993, tre anni dopo la sua liberazione gli sarà conferito il Premio Nobel per la Pace. Aveva 71 anni e ne aveva vissuti ventisette in un carcere durissimo. Al Nobel si aggiunsero per lui il Premio Lenin e il Premio Sacharov. Con le elezioni del 1994 guidò il suo paese secondo i principi della pace e della libertà.

Ventotene è un’isola bella. Mare, terra e cielo si scambiano abbracci e un giorno, di circa 80 anni fa, ha visto anche un gruppo di persone “costrette” a vivere lì perché di principi diversi da chi governava.
Ventotene è un’isola quasi tranquilla, anche d’estate con il turismo che la sceglie perché più economica. Ventotene, venuta a galla generata da un vulcano come le altre isole pontine che le fanno compagnia nel mar Tirreno. Si snoda, allungata nel mare, tra due regioni: Lazio e Campania. Ci si arriva imbarcandosi al porto di Formia (Lazio) con una traversata che va dalle due ore, dimezzata a 60 minuti se si sceglie l’aliscafo.
É antica. «Conosciuta già al tempo dei Greci e dei Romani, i quali usavano chiamarla Pandataria o Pandateria (Παντατήρια in greco antico) da cui deriva l’interessante evoluzione filologica del nome. Dall’antico toponimo greco Πανδαταερíα e Πανδατερíα (‘colei che distribuisce tutto’), forse per la presenza di un tempio dedicato a una perduta divinità locale, nome che fu poi nei secoli trasformato in Bentitiene (‘isola dai fondali buoni tenitori’) o Bentitieni e anche Eutitieni, quest’ultimo in una singolare contaminazione tra greco e italiano» (Wikipedia).
Ventotene, l’isola del confino di Altiero Spinelli e di tanti altri suoi compagni di destino, oppositori del regime (Pertini, Colorni, Rossi, Terracini, Longo), era avvezza già dall’antichità a ospitare chi veniva allontanato o allontanata dal potere che per qualche motivo disturbava. Augusto, imperatore romano esiliò qui la figlia Giulia, seppure amatissima. Con lei sull’isola andò anche la madre Scribonia e i resti di Villa Giulia si possono vedere a Punta Eolo. Un’altra donna romana, Agrippina, nipote dell’imperatore Tiberio, che la confinò a Ventotene nel 29 d.C. lasciandola morire di fame, come ci dicono le cronache, nel 33 d.C. Anche Nerone esiliò una donna: la moglie Ottavia dopo averla ripudiata con un pretesto, quello di non avergli dato un figlio. Ma più realisticamente per l’odio che provava per lei che era figlia di Claudio e molto ben accolta dal popolo romano. Del periodo romano a Ventotene sono rimaste diverse rovine di ville e acquedotti, il porto antico e le peschiere modellate nelle rocce vulcaniche. A Ventotene Spinelli insieme a Ernesto Rossi diedero corpo a un documento che guardava lontano, fuori dall’isola in cui erano rinchiusi a cielo aperto portato fuori da lì con il famoso escamotage del pollo arrosto. Il testo — conosciuto come Manifesto di Ventotene – si intitola Per un’Europa libera e unita. Progetto di Manifesto ed è stato scritto nel 1941 ed edito con la premessa di Eugenio Colorni. Su questo, sul Manifesto di Ventotene uscito con un pollo arrosto grazie al coraggio di più donne tra le quali Ursula Hirschmann (moglie di Colorni all’epoca e poi di Spinelli) e Ada Rossi. Sarà il primo passo per la formazione degli Stati Uniti d’Europa e mercoledì scorso alla Camera c’è stato scandalo e bagarre per la lettura da parte della Presidente del Consiglio di alcune parti estrapolate del testo dicendo che questa non era l’Europa che voleva! «Voleva solo cambiare argomento. — afferma l’osservatore americano Alan Friedman — Un leader politico non poteva così dire la verità vera e ha deviato il discorso. Non voleva dire che la sua maggioranza è divisa. E lo è proprio su quello che è andata a dire al Parlamento europeo. Doveva comunicare — aggiunge Friedman – la risposta dell’Italia e cosa dicono gli italiani e le italiane e l’Italia delle proposte di Trump sui dazi. Senza la citazione sul manifesto di Ventotene la Presidente del Consiglio sarebbe stata costretta a parlare di questo nel suo intervento in Europa di giovedì». Il suo discorso, aggiungiamo noi, è stato, in questo modo, ulteriormente divisorio in un momento in cui abbiamo bisogno della forza e dell’unione. Con il Manifesto di Ventotene, è stato scritto, «la civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino».

Il 1° dicembre del 1944 nasceva a Fes, in Marocco, Tahar Ben Jelloun, scrittore, poeta e saggista divenuto celebre in tutto il mondo per i suoi scritti incentrati sul razzismo e le migrazioni. Condivido con voi Silenzio, una poesia in versi sciolti, contenuta ne Il libro del buio, in cui l’autore descrive diversi tipi di silenzio e le sensazioni che essi evocano nei protagonisti del romanzo, uomini che hanno vissuto rinchiusi in una buia prigione sotterranea per diciotto lunghi anni.

Silenzio

In realtà c’erano diversi tipi di silenzi:
quello della notte. Ci era necessario;

quello del compagno che ci lasciava piano;
quello che osservavamo in segno di lutto;
quello del sangue che circola lento;
quello che ci ragguagliava sugli spostamenti degli scorpioni;

quello delle immagini che ci passavamo e ripassavamo nella mente;
quello delle guardie che tradiva stanchezza e routine;
quello dell’ombra dei ricordi bruciati;
quello del cielo plumbeo di cui non ci perveniva quasi nessun segno;
quello dell’assenza, l’accecante assenza della vita.

Il silenzio più duro, più insopportabile, era quello della luce.
Un silenzio potente e molteplice.
C’era il silenzio della notte, sempre uguale,
e poi c’erano i silenzi della luce.
Una lunga e interminabile assenza.

Tahar Ben Jelloun

Il libro del buio

«La notte ci vestiva. In un altro mondo, si sarebbe detto che era piena di attenzioni per noi. Nessunissima luce. Mai il benché minimo filo di luce. Ma i nostri occhi, pur avendo perso lo sguardo, si erano adattati. Vedevamo nelle tenebre, o credevamo di vedere.» Il 10 luglio 1971 un commando militare irrompe nella residenza estiva del re a Skhirate, in Marocco. (Libriamoci).

Buona lettura a tutte e a tutti. Contro ogni razzismo.