i “cento”passi per costruire ponti, la pace è disarmata e disarmante, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. I “cento” passi per costruire i ponti. La pace è disarmata e disarmante

Carissime lettrici e carissimi lettori,
è arrivata alla quarta votazione: la fumata bianca che ha annunciato Leone XIV, statunitense di Chicago (con doppia cittadinanza statunitense e peruviana), il secondo americano dopo l’argentino Francesco, anche lui con gocce di sangue italiano e europeo. È il 277esimo dopo Pietro. Eletto in due giorni alla quarta prova, molto simile a ciò che è stato per gli ultimi tre pontefici tutti eletti da un voto rigorosamente con poche fumate nere.
Ma cominciamo dall’inizio che ora suona come un doppio saluto a papa Francesco I. Il protagonista, anzi, i protagonisti della prima giornata del Conclave vaticano non sono stati i 133 cardinali e il quorum degli 89 voti di cui questa volta si è avuto bisogno per eleggere il successore di Bergoglio. Molto telegenico, come se fosse abituato (o abituata?!) a essere una star è stato un uccello, bello, maestoso e, sembra, molto intelligente o decisamente furbo: un gabbiano/a che ha scelto di mettersi accanto, e poi “confidenzialmente”, e pericolosamente aggiungerei, sopra il comignolo verso cui tutti e tutte (anche non fedeli al cattolicesimo) guardano: quello appositamente montato sul tetto della Sistina michelangiolesca per “dire”, col simbolo antico della fumata, nera o bianca, a chi aspetta nella grande piazza abbracciata dal colonnato del Bernini, che ancora non c’è o si è trovato finalmente un accordo sul successore secondo rigide norme di antichi rituali. Poi, dopo l’accettazione del “proposto” a essere il nuovo pontefice e la scelta del nuovo nome da mostrare al mondo, arriva la vestizione e la presentazione dalla Loggia delle Benedizioni. Habemus PapamGaudium magnum. Un tripudio di Bellezza, di Arte e, senza dubbio, di Fede e sacralità.
Un gabbiano si sistemò intorno al comignolo della fumata papale proprio quel 13 marzo del 2013 quando Bergoglio stava per arrivare tra la cappella Sistina e la Loggia. Si dice e le telecamere ora, come allora, li hanno inquadrati, che i gabbiani fossero tre: una coppia e il loro figlioletto o figlioletta che doveva assolutamente imparare a volare! Appunto, a Volare!
Allora Francesco I era vestito di bianco e aveva al collo una croce d’argento. Non aveva i “segni” rossi del papato. Sarebbe stato il Papa della semplice “buonasera” e degli innumerevoli “buon pranzo” domenicali. Il Papa dell’apertura alle coppie omosessuali, «chi sono io per giudicare?» e dell’apertura timida, ma decisa, alle donne incaricate ai punti di dirigenza in Vaticano dove rigorosamente un uomo viene eletto solo da altri uomini, di tutto il mondo. Francesco, il Papa del primo viaggio a Lampedusa nell’isola degli approdi della disperazione, del dolore, spesso, troppo spesso segnata dalle morti in mare (ricordate la corona di fiori messa in acqua dal passato Pontefice?) e sempre, però carica della speranza dei disperati e tanti bambini e bambine, tutti e tutte diretti/e a Lampedusa, a un passo, che sembra eterno sempre, dal continente antico all’Europa.

«Dopo un Papa se ne fa un altro» detta il famoso proverbio popolare. Viene usato come sinonimo di speranza, per risolvere con più leggerezza i problemi fino anche al peggiore di questa vita, per noi “condannati” e “condannate” a morte dalla nascita, tanto per citare un ulteriore, ma amarissimo e irrevocabile, adagio comune. Ora, ad accogliere il primo papa nordamericano, che non è proprio nelle grazie di Trump, di gabbiani ce n’è come già detto, un’intera famiglia, classica o come si voglia, apparsa un po’ scombussolata, ma irremovibile dal tetto della cappella ornata dal toscano Michelangelo Buonarroti. Che siano davvero il segno di un tragitto di Pace “disarmata e disarmante”!? Il Papa già lo chiamano “delle periferie”, ed è stato indicato in un certo senso scelto da Francesco. Nel suo primo discorso si apre allo spagnolo del “suo” Perù, Paese difficile come tanta Argentina. Il linguaggio, la langue et la parole, sono fondamentali: qui finalmente il nuovo Leone XIV con la “sua” personale, rinnovata Rerum novarum al cui autore deve il nome, ai suoi e alle sue fedeli ha parlato in spagnolo e, soprattutto a braccio. Non leggendo in questa parte, un discorso scritto, come stava facendo, la prima volta che accade. Forse perché anche questo Papa è, anche questa volta… uno straniero? Forse un immigrato o una persona che riesce a percepire la sofferenza degli ultimi e ultime della terra.

Ora qui, in Italia. Fuori dagli accadimenti successi nello Stato Vaticano, di problemi sull’uso e la messa in atto della democrazia ne abbiamo davvero tanti. Per esempio, non è certo un atto democratico l’invito del “nostro” ministro degli Esteri a non andare a votare e saltare la partecipazione alla votazione per i referendum segnata per domenica 8 e lunedì 9 giugno. È questo un ricordo, neppure così bello, che ci riporta ad altre esperienze passate sempre a ridosso di questa data di fine primavera, sempre calda qui da noi. Anzi, a pensarci bene, coincide, manuali di Storia alla mano, o se non altro lo testimoniano i quotidiani di allora, non così lontani nel tempo.
C’è una coincidenza doppia. Era il 9 giugno del 1991 e si trattava di scegliere con un referendum se abrogare o meno una parte della legge relativa proprio al sistema elettorale. Dunque, una coincidenza di data e modalità di abrogazione attraverso un referendum popolare. Uno stesso consiglio per scoraggiare la partecipazione. Allora come oggi, Bettino Craxi come Tajani: «Non votate, andate al mare»!
Sergio Rizzo, giornalista, saggista e politico, oggi è autore di un romanzo distopico sulla nostra democrazia segnato nel titolo con una data non troppo lontana, il 2027, e scritto «per raccontare uno scenario estremo di un’Italia in cui non vota davvero più nessuno». Il libro si intitola: 2027. Fuga dalla democrazia (edizioni Solferino). Scrive — nel commento al suo libro — di un sistema politico in crisi terminale, che scivola verso l’autocrazia. In un’intervista a cura di Tommaso Rodano su Il Fatto Quotidiano Rizzo avverte: «Ricorderei a Tajani che nel 1991 Bettino Craxi suggerì agli italiani di andare al mare anziché votare al referendum sulle preferenze. Peccato che non seguirono il suo consiglio e la Prima Repubblica iniziò a sgretolarsi. Anche allora era il 9 giugno».

Avremo tempo di parlarne, ma è intanto importante sapere di cosa si tratta perché ben poco se ne dice sui media, tra giornali cartacei e online, radio e televisioni pubbliche (voci del governo) e private, nonostante gli innumerevoli talk.
«L’8 e il 9 giugno — scrive nel suo blog l’avvocato Marco Ticozzi, docente di Diritto privato all’Università Ca’Foscari di Venezia e cassazionista — i cittadini saranno chiamati a votare su cinque quesiti referendari abrogativi. I temi affrontati spaziano dal lavoro alla cittadinanza: il primo quesito riguarda il reintegro nel posto di lavoro per licenziamento ingiustificato; il secondo propone di eliminare il tetto agli indennizzi nei licenziamenti delle piccole imprese; il terzo mira a contrastare l’abuso dei contratti a termine; il quarto interviene sulla responsabilità delle imprese negli appalti in caso di infortuni; infine, il quinto prevede la riduzione da 10 a 5 anni del requisito di residenza per ottenere la cittadinanza italiana». I seggi, lo scriviamo anche noi con l’avvocato Ticozzi, saranno aperti, come al solito, domenica dalle ore 7.00 di mattina a un’ora prima della mezzanotte per riaprirsi alle 7.00 del giorno dopo, lunedì, e chiudersi alle 15.00, otto ore ancora per esprimersi attraverso il voto. La scelta di distribuire la votazione su due giorni ha l’obiettivo di incentivare la partecipazione, specialmente in occasione di consultazioni popolari che richiedono il raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto per essere valide. La data del referendum 2025, lo ricordiamo ancora insieme, coincide con il secondo turno delle elezioni amministrative, che si terranno in molti comuni e in alcune regioni.
Il professore dell’università veneziana spiega meglio: «I cittadini saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, tutti di tipo abrogativo, promossi principalmente dalla Cgil e da comitati civici. I temi affrontati riguardano lavoro, diritti dei lavoratori e cittadinanza, con l’obiettivo di modificare o eliminare specifiche disposizioni legislative attualmente in vigore. Il primo quesito punta a ripristinare la possibilità di reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati senza giusta causa, superando le norme introdotte dal Jobs Act che prevedevano solo un’indennità economica. Il secondo, invece, riguarda i lavoratori delle piccole imprese: si chiede di eliminare il limite massimo all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, lasciando maggiore libertà al giudice nel calcolo del risarcimento. Il terzo quesito propone di limitare l’abuso dei contratti a termine, tornando a vincoli più rigidi per il loro utilizzo e contrastando forme di precarizzazione. Il quarto mira a rafforzare la responsabilità delle imprese negli appalti, chiedendo di abrogare alcune norme che, secondo i promotori, riducono le tutele dei lavoratori in caso di infortuni sul lavoro. Infine, il quinto quesito riguarda il tema della cittadinanza italiana: si propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza necessario per i cittadini extra-UE per ottenere la cittadinanza italiana, facilitando il percorso di integrazione». Sarebbe un bel passo avanti per l’abbandono di quel pensiero che guarda all’immigrazione non come una risorsa, una ricchezza che, come tale, non penalizza ma aiuta la comunità intera, il sociale.

Scrivo di solito di giovedì, con un eventuale “strascico” di revisione e aggiunte nel venerdì mattina. Dunque, Robert Francis Prervost è diventato Leone XIV quasi alla fine della scrittura di questo editoriale che state leggendo. Forse potevo scriverne altri, in altro modo, intendo, forse più ironico, più folk. Spero che così almeno un po’ sia stato. Perché le cose bisogna guardarle seriamente, ma sempre con una punta di ironia che, come diceva il professor Walter Pedullà, è “capire due volte”. Comunque, sarà una ulteriore coincidenza, l’elezione di un capo di una Fede dello spirito che si è ispirato per il nome alla Rerum Novarum. É quel “nulla succede per caso” caro ai gesuiti di Francesco. Perché il libro di Leone XIII parla di lavoro, chiede, per allora, salari giusti in linea con i referendum di oggi, della prima decina di giorni di giugno. Poi l’attenzione alle periferie parlando anche in spagnolo. Un matematico… e la mente va, giusto o no, al pastore Dodgson, al Lewis Carroll dell’Alice nel paese delle Meraviglie. Sognando si costruisce l’esattezza del mondo. Che si fonda sui numeri e sulla “poesia” dei suoi assiomi, come ci diceva il nostro professore, al liceo.
Occorre sempre, soprattutto in tempi di guerre (si aggiungono ora anche il Pakistan e l’India?) la consolazione della poesia. Però prima un doveroso commento alla consegna dei David di Donatello avvenuta in queste sere. Vorrei celebrare la statuetta consegnata a Delpero, a una donna, alla prima donna che ne riceve una per la Migliore Regia con Vermiglio. Poi citerei il ringraziamento di un altro premiato, sempre all’avanguardia, sempre con il cuore, Elio Germano:
«Voglio dedicare questo premio a tutte le persone che lottano, che lotteranno ancora e che continueranno a lottare per il raggiungimento di quella parità di dignità che c’è scritta nella nostra Costituzione. — Così Elio Germano ritirando il David di Donatello come migliore attore protagonista per il film BerlinguerLa grande ambizione, di Andrea Segre. — Parità di dignità vuol dire che tutte le persone devono essere degne allo stesso modo. Una persona povera deve avere la stessa dignità di una persona ricca, deve poter accedere all’istruzione, alla sanità e una donna deve avere la stessa dignità di un uomo, un nero la stessa dignità di un bianco, un italiano la stessa dignità di uno straniero e, permettetemi di dire, un palestinese ha la stessa dignità di un israeliano», ha concluso l’attore tra gli applausi. Di nuovo parliamo di attualità.
Poi attualità ancora Jorge Carrera Andrade, di lingua spagnola nato in Ecuador nel settembre del 1902 (ai tempi della Rerum Novarum!) e morto nel novembre del 1978. Diplomatico di carriera, dunque ha toccato il mondo intero, poeta e studioso di Antropologia culturale e Storia americana. A Parigi c’è una targa commemorativa dedicata a lui che ha guardato anche alla poesia europea.

Verrà un giorno

Verrà un giorno più puro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo. Una nuova luce
avvolgerà tutte le cose.
Canteranno camminando gli uomini
liberi ormai dall’incubo
della morte violenta.
Il grano crescerà sui resti
delle armi distrutte;
e nessuno verserà più
il sangue del fratello.
Il mondo apparterrà alle fonti
e alle messi, che imporranno il loro impero
di abbondanza e freschezza senza confini.
I vecchi da soli, la domenica
con tranquillità
aspetteranno la morte,
la morte naturale, la fine del giorno,
paesaggio più bello dell’occidente.

Jorge Carrera Andrade (Hombre planetario, 1957)