discriminazioni linguistiche nella società contemporanea, di Delia Bellini

Discriminazioni linguistiche nella società contemporanea

La continua evoluzione della lingua, strumento principale di comunicazione, è il risultato della realtà che essa rappresenta, in continuo fisiologico cambiamento. Il suo sviluppo avviene attraverso continue interazioni tra le persone ed è essenziale per ciascuna e ciascuno di noi, poiché ci consente non soltanto di conoscere, ma anche di prendere coscienza del grande potere che essa ha. Relativamente a questa capacità essenziale che alla parola si riconosce, l’attenzione va posta necessariamente sulla questione femminile: la lingua riflette, soprattutto dal punto di vista sociale, una percezione della donna, rispetto all’uomo, stereotipata e marginalizzata; possiamo anche definirla “etichettata”. È possibile cambiare tutto ciò attraverso un uso consapevole e adeguato della parola? Su tale domanda si è fondato questo studio.

Il primo obiettivo è stato quello di esaminare come la lingua possa essere uno strumento efficace, non solo per esprimere ciò che le donne sono riuscite a ottenere all’interno della società grazie alle loro rivendicazioni, ma quanto essa possa ancora fare per far sì che il loro ruolo sia finalmente consolidato, andando ad affiancare il maschile sovraesteso predominante.
Da un ruolo tradizionalmente subordinato, come casalinga e madre, la donna è diventata una figura sempre più indipendente ed emancipata, acquisendo il sacrosanto diritto di ricoprire cariche che prima appartenevano esclusivamente all’uomo. Questo cambiamento ha portato alla necessità di aggiornare anche i termini utilizzati per descrivere professioni, cariche e ruoli sociali, quindi la lingua stessa, estendendo la questione anche per le identità di genere non binarie.

La prima parte dello studio ha voluto analizzare le origini della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, fondata nel 1984, e il suo impegno contro il sessismo linguistico, con particolare attenzione ai testi scolastici; la scuola rappresenta infatti un punto di partenza fondamentale, poiché è proprio lì che le nuove generazioni vengono formate e indirizzate. La figura di Alma Sabatini, linguista e attivista, viene messa in rilievo per il suo contributo fondamentale del 1986, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in cui evidenziava come la lingua riflettesse e rinforzasse gli stereotipi e i preconcetti. Le sue proposte miravano a evitare l’uso del maschile generico e degli stereotipi di genere, promuovendo un’immagine più equa della donna. La Commissione ha supportato le Raccomandazioni, considerando la lingua un potente strumento per il cambiamento sociale. Il capitolo esplora come il linguaggio possa perpetuare disuguaglianze di genere e come l’adattamento linguistico, invece, possa favorirne la parità.

Una seconda fase ha riguardato poi il modo in cui il linguaggio, anche attraverso i proverbi, rifletta e tramandi gli stereotipi di genere, focalizzandosi sulla figura della donna. Nel XIX secolo il ruolo femminile era principalmente domestico. Grazie all’industrializzazione e all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro emerse il dibattito sul loro ruolo sociale e professionale, come nel caso di Lidia Poët, una delle prime donne che si laureò in giurisprudenza nel 1881, la quale incontrò difficoltà per l’assenza del termine avvocata che andasse a definire la sua professione. Anche Virginia Woolf e Rita Levi-Montalcini, con le loro critiche alla propria società contemporanea, evidenziarono le disuguaglianze persistenti. La resistenza al cambiamento linguistico, alimentata da misoneismo (“avversione verso il nuovo”) e sessismo, ostacola la diffusione di un linguaggio più adeguato e consapevole. Sebbene esistano forme femminili corrette delle professioni, come nel caso di avvocata e ministra, queste sono spesso percepite come inusuali e cacofoniche, pur essendo corrette sia linguisticamente che etimologicamente. Infine, gli studi dell’antropologa Margaret Mead confermano che i ruoli di genere sono socialmente costruiti, con cultura e linguaggio che giocano un ruolo cruciale nella percezione del genere. Nonostante i progressi raggiunti, vi sono molti ostacoli nell’adottare modifiche linguistiche significative.

La terza parte ha avuto come tema centrale il monologo di Paola Cortellesi ai David di Donatello del 21 marzo 2018, in cui denunciò la violenza di genere e la disparità linguistica. L’attrice sottolineò come determinate parole, se volte al femminile, assumessero connotazioni negative rispetto al significato che assumono al maschile, contribuendo alla discriminazione. Il linguaggio, quindi, non è solo una questione grammaticale, ma un potente strumento che alimenta pregiudizi sociali.

Trattando l’argomento del linguaggio di genere, un ruolo importante è stato riconosciuto all’attività dell’associazione Toponomastica femminile che, come scopo principale, ha senz’altro quello di promuovere la dedicazione di strade e piazze a figure femminili. Nonostante la scarsa rappresentanza delle donne nelle denominazioni pubbliche, l’Associazione ha lanciato progetti come “Calendaria” e numerose altre iniziative in varie città per intitolare nuove vie a donne.
Si è voluto porre l’attenzione, inoltre, sulla rappresentazione delle donne nei media, con degli esempi di campagne pubblicitarie sessiste; un manifesto con una donna in un atteggiamento sessualmente ambiguo è stato rimosso dopo le proteste di attiviste e attivisti, evidenziando la necessità di una comunicazione e un linguaggio più consapevoli e rispettosi.

La quarta e ultima parte ha analizzato l’emergere di forme neutre nella lingua scritta, come l’asterisco (*), utilizzate per riflettere le identità di chi non si riconosce in nessuno dei due generi socialmente accettati (il cosiddetto “binarismo di genere”). Sebbene discusse, queste alternative cercano di riflettere una società che riconosce più di due generi. La linguista Valeria Della Valle non nega l’evoluzione della lingua, ma segnala difficoltà pratiche, come i fraintendimenti derivanti dall’uso di tali simboli in contesti giuridici. In alternativa, vi è la proposta dello schwa (ə), un suono neutro già presente in alcuni dialetti italiani. Tuttavia, vi sono alcune critiche, come nel caso del giornalista Stefano Bartezzaghi, il quale ritiene che i cambiamenti linguistici non debbano essere forzati da motivi ideologici. È quindi necessario proseguire nella ricerca di forme linguistiche neutre che rappresentino correttamente tutte le identità di genere esistenti.

Il motivo della scelta di questa tematica deriva da esperienze personali che mi hanno portata spesso a essere giudicata, osservata, derisa, non ascoltata o trattata in maniera diversa e inadeguata, semplicemente per il fatto di essere donna o per le mie scelte di vita, non sempre allineate ai canoni tradizionali della società. Questo percorso di riflessione ha l’intento di sensibilizzare sull’importanza delle parole che utilizziamo e che ci vengono rivolte. Le parole, infatti, hanno il potere di influenzare e definire la nostra identità, ma è fondamentale comprendere che noi non siamo le parole di coloro che ci definiscono e classificano; siamo individui liberi di esprimere la nostra personalità e la nostra vitalità, senza paura del giudizio, con fierezza e consapevolezza del nostro valore, grazie anche a una lingua che ci rappresenti. In questo lavoro si sono quindi affrontati vari aspetti sociali e linguistici, comprendendo come le donne, nonostante il passare degli anni e i conseguenti cambiamenti sociali, continuino a incontrare in ogni epoca quasi le stesse difficoltà. Sviluppando maggiore empatia e apertura verso ogni tipo di identità si può ottenere un ascolto più attento e una comprensione più profonda anche di quelle tematiche che, soprattutto negli ultimi decenni, stanno emergendo con crescente rilevanza nei dibattiti pubblici.

L’obiettivo è dunque quello di sostenere e dare rilievo a chi propone aperture verso prospettive di linguaggio nuove. L’intento è quello di promuovere l’alternativa femminile, quando essa è presente, e di dare il giusto nome a ciò che, fino a poco tempo fa, non ne aveva uno. Le parole hanno potere: «Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio», frase emblematica del film Call me by your name di Luca Guadagnino, da cui tutto il lavoro è partito.