ma se cercassimo solo la pace? editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Ma se cercassimo solo la pace?  

Carissime lettrici e carissimi lettori,
si vis pacem, para bellum: se vuoi la pace, prepara la guerra. Secondo l’enciclopedia Treccani corrisponde a una «sentenza latina anonima in questa forma, ma presente, in modo poco diverso nella formulazione o nella sostanza, in vari autori; si cita soprattutto per affermare che uno dei mezzi più efficaci per assicurare la pace è quello di essere armati e in grado di difendersi, in modo da scoraggiare eventuali propositi aggressivi degli avversari».

In effetti c’è più di qualche nome legato a questo detto proverbiale latino. C’è chi fa il nome di Vegezio, un autore del IV secolo d.C. di cui parla nel libro III dell’Epitoma rei militaris che tratta, come detta il titolo, del rapporto tra la scienza e la guerra. Ma il concetto è stato espresso anche da Cornelio Nepote (Paritur pax bello, in Epaminonda, che intende lo stesso giudizio con l’ottenimento della pace solo facendo sapere di essere capaci di fare la guerra) e poi Marco Tullio Cicerone, l’avvocato di Arpino del quale un’altra enciclopedia cita la frase “Si pace frui volumus, bellum gerendum est” (nella Settima filippica) che tradotta dice: «Se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra», una frase tra quelle che, nel conflitto con Marco Antonio e in onore dell’oratore greco Demostene che scrisse di democrazia contro Filippo II di Macedonia, gli costerà la vita.

Certo, se vogliamo andare indietro nel tempo probabilmente troviamo lo stesso concetto niente di meno che in Platone in una parte delle sue Leggi, libro postumo, poi frazionato, dove il filosofo, senza più la figura di Socrate, parla esclusivamente di politica e di amministrazione della città. Qui il filosofo greco scrive che «non si è diligenti legislatori, se non si stabiliscono in vista della pace le leggi sulla guerra piuttosto che in vista della guerra le leggi sulla pace». Speriamo che tutto questo lo sappia il nostro Presidente del Consiglio. Certo l’impegno per la spesa pubblica (si parla di 5% del pil) per riarmarsi dettato, attraverso l’apparente diktat della Nato, dal “muscoloso” Donald Trump al quale poi ritornano i profitti con l’acquisto delle armi dagli Usa! É notevole. Un impegno (80 miliardi) maggiore di quello che mettiamo nell’istruzione. Vale la pena?
Forse potrebbe anche essere vero che il mondo in duemila anni ha fatto molti passi avanti, ma potrebbe riguardare le diverse visioni del mondo. Per esempio, questa frase posta alla base dei colloqui tra Nicola II (avvenuti a San Pietroburgo nel 1898) e il presidente francese di allora Félix Faure, posticipò, ma non evitò la Grande Guerra, anzi per molti storici facilitò l’inizio del conflitto (per esempio era di questa opinione Alessandro Barbero nel suo intervento Come scoppiano le guerre? al Festival della mente di Sarzana nel 2014).
Chiaramente la frase citata in Senato dalla Presidente (diamole “giustizia” di donna!) è ripresa parecchio, in situazioni più leggere, forse, impensabili: in un verso di una canzone dei Metallica, «to secure peace is to prepare for war» (per assicurarsi la pace bisogna prepararsi alla guerra), nella nominazione di personaggi dei fumetti, in un film (tratto dallo stesso fumetto The Punisher). In Sudafrica un gruppo musicale, i Seether, ha pubblicato un album che porta proprio il nome: Si vis pacem para bellum.

Wikipedia ricorda un’”inversione” della frase. A farla, nel suo Memoires, è Louis Antoine Fauvelet, che era il segretario di Napoleone Bonaparte e suo ex compagno dell’accademia militare: «Tutti conoscono l’adagio […]. Se Bonaparte avesse parlato in latino ne avrebbe invertito il senso e avrebbe detto: Si vis bellum para pacem (Se vuoi la guerra prepara la pace)». E continua: «Napoleone voleva dire che chi intende pianificare una guerra farà bene a far abbassare la guardia alle altre nazioni, promuovendo la pace. Un’altra interpretazione è quella per cui i preparativi di pace di una nazione possono indurre un’altra a dichiararle guerra». Scherzi dell’interpretazione dei testi!!

Di guerra e, con tante riserve, di pace, se ne parla continuamente. Chi dagli States parlava di cessazione dei combattimenti in queste guerre vicinissime e quasi lontane, chi continua a chiamarsi elargitore di democrazia, ci impone le sue paci. Si oppone la Spagna di Sànchez che risponde di voler rimanere sui suoi passi, di non voler sacrificare nulla riguardo al sociale e non cede neppure con la minaccia di Trump di imporre alla Spagna dei dazi “grandi così”, come è rappresentato in una divertentissima vignetta della disegnatrice Ellekappa. Il presidente spagnolo ha detto: «Noi spenderemo il 2,1%. È una cifra sufficiente, realistica. E soprattutto: compatibile con il nostro modello sociale». Una grande lezione, anche di coraggio. Una lezione di dignità, come è stato detto. Vogliamo dimenticare l’accenno osceno e, oltre che fuori scena, anche fuori luogo e di cattivo gusto fatto da Trump su Hiroshima.

Mario Del Pero, docente, esperto d’ America e di Usa a Forlì e a Bologna, commenta senza mezzi termini: «La crisi della governance globale, del multilateralismo, delle sue norme e delle sue istituzioni pare determinare il ritorno a un’epoca di conquiste territoriali, asimmetrie di potenza e uso reiterato della forza che rimanda alle logiche imperiali (e, oggi, occidentaliste) di un’epoca lontana. Inducendo quindi a usare la categoria d’imperialismo per cercare di spiegare una struttura delle relazioni internazionali altamente gerarchizzata, in cui poche grandi potenze per l’appunto “imperiali” controllano e si spartiscono il mondo, attraverso un dominio diretto o indiretto di territori fuori dai propri confini, dispiegando senza remore forza e violenza. Gli sconcertanti conflitti d’interesse e l’ormai inestricabile sovrapporsi tra pubblico e privato, in cui la diplomazia di uno stato è messa direttamente al servizio dell’arricchimento di un presidente e della sua famiglia, induce ad applicare categorie come cleptocrazia o patrimonialismo, dalle quali sistemi liberali e democratici, con i loro checks and balances, parevano essere almeno in parte immuni. Sono tutte analogie suggestive e accattivanti. Offrono utili chiavi di lettura. Ma a ben guardare risultano zoppe e parziali: esili e, in ultimo, insufficienti, come spesso accade quando invocando un passato lontano si cercano lezioni che, decontestualizzate, mal si attagliano a un presente specifico e distinto. Per leggere il quale è forse più utile affidarsi ad altre categorie interpretative, più capienti e meno determinate, storicamente e intellettualmente. Se leggiamo e proviamo a spiegare la nuova politica internazionale, è quella — deliberatamente provocatoria ed evocativa — di gangsterismo a essere forse la più utile. Il modello è qui quello di un crimine organizzato le cui forme e strutture delineano lo schema, la filosofia e le pratiche di un nuovo tipo di governo della cosa pubblica. Che riprende e combina alcuni aspetti dell’autoritarismo, dell’imperialismo o del patrimonialismo. Ma li declina appunto in forma peculiare e specifica, appoggiandosi a tre pilastri fondamentali.
Il primo è la violenza. Usata come prassi della politica: come strumento con cui minacciare, piegare, punire e se necessario eliminare rivali o nemici. Una violenza, questa, che non viene dissimulata o negata, ma è ostentata e celebrata. Perché la possibilità di dispiegarla definisce le gerarchie di potenza e la capacità quindi di agire sulla politica, interna ed estera. Perché è strumento primario di ricatto e intimidazione, con cui silenziare il dissenso o imporre le proprie posizioni, come ben abbiamo visto negli arresti arbitrari di tanti studenti che hanno manifestato su Gaza. Perché praticata in modo discrezionale e frequente, irrora quella retorica della crudeltà — nella quale qualsiasi empatia umana diventa sinonimo di debolezza — che costituisce una delle cifre distintive nella narrazione e auto-rappresentazione di questo gangsterismo politico.
Il secondo pilastro è quello clientelare, cleptocratico e nepotistico. Anche in questo caso, non si nega o nasconde, ma si mostra ed esibisce. Si presenta come espressione del successo politico l’arricchimento proprio e della propria cerchia permesso dal controllo delle istituzioni e delle leve del potere politico. Lo avevamo visto bene nell’ascesa di Putin e nella prima esperienza presidenziale di Donald Trump. Lo vediamo ancor meglio, in modo eclatante, in questo Trump II, con società d’intermediazione di criptovalute create dal Presidente a ridosso del voto di novembre, speculazioni borsistica immediatamente successive a decisioni sui dazi, relazioni esterne piegate a questi interessi privatistici (si pensi solo all’ultimo viaggio di Trump nei paesi del Golfo).
Il terzo e ultimo pilastro, infine, è quella della legalità, interna e internazionale. Si smantellano gli organi d’intermediazione e di controllo interno (una delle prime iniziative di Trump è stato l’immediato licenziamento degli ispettori generali di tutti i dipartimenti dell’Esecutivo). Si alterano gli equilibri tra i poteri a vantaggio di quello Esecutivo, sotto il cui controllo si cercano di porre tutte le agenzie indipendenti».

Ancora si parla di guerra in una notizia di un premio. Anna Foa è risultata la vincitrice, con 22 voti su 55 espressi, della prima edizione del Premio Strega Saggistica per il libro Il suicidio di Israele (Laterza). Il riconoscimento è stato assegnato il 20 giugno a Taobuk – Taormina International Book Festival.

Prima di chiudere un saluto a Lea Massari (il cui nome anagrafico era Anna Maria Massatani), chiamata Lea per amore di un primo quasi-marito morto a 30 anni cinque giorni prima delle nozze. Era nata in uno storico quartiere romano, dove viveva ora, a Monte Verde Vecchio nel 1933. Prima cacciatrice incallita, poi vegetariana e animalista. Ha recitato diretta da registi importanti: da Mario Monicelli a Dino Risi, da Sergio Leone a Michelangelo Antonioni e in sceneggiati televisivi che l’hanno vista nei panni di Anna Karenina, o nei Fratelli Karamazov o nella manzoniana suor Gertrude, la disperata monaca di Monza.

«Viviamo in un tempo veloce. Un tempo che chiede risposte prima ancora che ci sia stata una domanda. Eppure, ogni tanto, qualcosa ci sospende. Una parola, un paesaggio, un gesto semplice che ci costringe a stare. A sentire. A esserci davvero. La poesia Si arriva qui di Mariangela Gualtieri, contenuta nella sezione Selvatico sacro della raccolta Ruvido umano (Einaudi, 2024), è una di quelle rare creazioni che ci riportano al centro. Al silenzio che parla, alla domanda che precede ogni risposta. Una poesia piccola, sette versi. Ma dentro c’è il mare, c’è l’uomo, la donna. C’è il sacro. C’è il senso di una sosta che può cambiare tutto».

Si arriva qui 

Si arriva qui, sulla punta estrema
del molo. Si sosta un po’—
lunga occhiata lontano. E poi
si torna indietro. Cosa si viene
a prendere — o a portare, cosa
si lascia? cosa si domanda?
Questo il nostro pregare. Senza
che noi stessi lo sappiamo.

Mariangela Gualtieri

Buona lettura a tutte e a tutti.