lo sguardo sul mondo dagli occhi di Berenice Abbott, di Nicole Maria Rana

Lo sguardo sul mondo dagli occhi di Berenice Abbott 

Il 17 luglio ricorre l’anniversario della nascita di Berenice Abbott (1898–1991), voce autorevole della fotografia del XX secolo, che ha trasformato la macchina fotografica in uno strumento di indagine artistica, sociale e scientifica.
Americana di nascita, precisamente originaria dell’Ohio, trovò la sua vera dimensione creativa spostandosi verso l’Atlantico: visse a Parigi, negli anni ruggenti del primo dopoguerra, dove la sua carriera prese forma. Immersa nell’ambiente dell’avanguardia parigina, Abbott lavorò come assistente di Man Ray, figura chiave del surrealismo, ed ebbe l’intuizione di riconoscere il valore delle fotografie di Eugène Atget, narratore poetico e visionario di una Parigi destinata a sparire. Negli anni Venti, questa città era più di una capitale culturale: divenne laboratorio vivente di idee, in cui esplorare l’arte e la libertà.

Dopo le ferite che la Prima guerra mondiale aveva lasciato, la città aveva iniziato ad attrarre anime inquiete da ogni angolo del mondo — scrittori/trici, pittori/trici, musicisti/e e pensatori/trici — alla ricerca sia di ispirazione, sia di uno spazio in cui esistere, senza compromessi o restrizioni. In questo fermento, infatti, Parigi divenne un rifugio per molte persone queer, in particolare donne, che altrove sarebbero state costrette a nascondersi o a vivere emarginate e denigrate. Per Berenice Abbott, quel mondo rappresentò una vera e propria svolta. A Montparnasse e lungo la Rive Gauche, si ritrovò in un ambiente sorprendentemente aperto alla diversità di genere e orientamento sessuale dove poteva finalmente essere sé stessa. Frequentava i salotti di Gertrude Stein e Alice B. Toklas, dove si discuteva di arte davanti a Picasso o Matisse; si muoveva tra gli scritti audaci di Djuna Barnes (ne abbiamo parlato nel numero 328 di Vv), tra i versi sensuali di Natalie Clifford Barney, tra gli scaffali di Sylvia Beach — fondatrice della celebre Shakespeare and Company, che ‘’osò’’ pubblicare Ulysses di Joyce. In questo universo intellettualmente instancabile, Abbott poté esplorare non solo la propria identità affettiva — intrecciando relazioni profonde, come quella con l’artista Thelma Wood — ma anche la propria vocazione artistica. Fu lì che conobbe Man Ray: fu proprio grazie a lui che scoprì il lavoro di Atget, il fotografo che avrebbe ispirato profondamente il suo sguardo. In quel mondo, apertamente radicale, femminista e anti-borghese, trovò la libertà di cui aveva bisogno — e che avrebbe continuato a coltivare per il resto della sua vita.

Negli anni ’30, però, fece ritorno negli Stati Uniti dove esplorò un’altra città in trasformazione, New York, dove la sua macchina catturò la modernizzazione vertiginosa della metropoli. Il progetto Changing New York (1935–1939), realizzato grazie al sostegno del Federal art project, è oggi una pietra miliare della fotografia documentaria, per la sua capacità di fondere precisione tecnica e sensibilità estetica. Ma Abbott, affascinata dalla scienza, si lanciò anche in una sfida ambiziosa: raccontare il mondo invisibile delle leggi fisiche e dei fenomeni naturali attraverso immagini. Collaborando con il Mit, infatti, trasformò concetti complessi in fotografie chiare, eleganti, visivamente potenti.

La sua vita privata, invece, come quella di molte artiste del suo tempo, si intreccia profondamente con il contesto culturale in cui visse e creò. Sappiamo che fosse di natura riservata, ma visse la propria omosessualità con naturalezza, senza mai farne una dichiarazione pubblica, ma nemmeno nascondendola. A Parigi, negli anni Venti, trovò un ambiente aperto, abitato da donne queer e intellettuali anticonformiste come Djuna Barnes, Sylvia Beach, Gertrude Stein e Janet Flanner. In quel microcosmo un po’ bohémien, Abbott poté esplorare liberamente sé stessa e la propria arte, respirando una libertà che l’America dell’epoca non era in grado di offrire. Tra le relazioni che segnarono la sua esistenza, la più duratura e significativa fu quella con Elizabeth McCausland, critica d’arte raffinata che fu sua compagna di vita per oltre trent’anni. Il loro fu un sodalizio affettivo e intellettuale, unito a livello profondo da ideali e amore per la cultura: McCausland scrisse spesso i testi che accompagnavano le fotografie di Abbott, in particolare durante il celebre progetto Changing New York, dando voce scritta a immagini che raccontavano una città in metamorfosi.
Dopo la morte di McCausland, nel 1965, Abbott si ritirò nel silenzio operoso del Maine, dove continuò a lavorare con dedizione, organizzando il proprio archivio e restando fedele a un’esistenza vissuta all’insegna dell’indipendenza e della coerenza. Oggi, la sua identità e le sue relazioni, mai esibite ma mai rinnegate, sono considerate parte integrante della sua eredità.

Lo stile di Berenice Abbott ha qualcosa di inconfondibile: è chiaro, rigoroso, profondamente legato alla realtà. Che si tratti di un ritratto, di una strada di New York o di un esperimento scientifico, il suo sguardo è sempre coerente, sempre fedele a un’idea: raccontare le cose come sono, senza orpelli, ma con una cura profonda per la forma. Non amava le mode del momento, come il pittorialismo, con i suoi effetti sfumati e romantici. Preferiva un’immagine nitida, diretta, essenziale. Non cercava di stupire, ma di dire la verità — quella che si nasconde nella costruzione attenta di un’inquadratura, nella luce giusta, in una geometria che parla. Nel progetto Changing New York, questa visione diventa quasi architettonica. I palazzi, le insegne, i marciapiedi: tutto è osservato con occhi precisi, linee nette, prospettive che raccontano il respiro profondo di una città che cambia. Abbott era affascinata dai contrasti — l’antico che resiste accanto al nuovo che avanza, i resti del passato tra le ombre dei grattacieli. Non cercava la spettacolarità, ma quel punto di frizione dove si agita il cuore della modernità.

Negli anni Cinquanta, la sua curiosità la porta verso la scienza. Comincia a fotografare fenomeni fisici con la stessa sensibilità con cui un tempo ritraeva le strade. Le sue immagini diventano strumenti di conoscenza: forme limpide, linee pulite, un’estetica quasi astratta ma sempre fedele al dato reale. Era convinta che la fotografia potesse unire arte e sapere, e i lavori realizzati per il Mit ne sono la prova più bella. Anche nei ritratti — molti scattati a Parigi — il suo stile resta sobrio ma potente. Non cercava pose forzate o effetti teatrali. Preferiva la semplicità: uno sfondo neutro, una luce essenziale, e tutto lo spazio lasciato allo sguardo della persona. Nei volti di James Joyce o Jean Cocteau c’è silenzio, ma anche una profonda empatia. Una relazione sincera tra chi guarda e chi si lascia guardare.

In fondo, la forza di Abbott sta proprio qui: nella sua capacità di osservare con attenzione, con rispetto, con intelligenza. Le sue foto sono documenti, certo, ma anche riflessioni visive, piccoli racconti sospesi. Non sono fredde, ma lucide. E in quella lucidità c’è tutta la sua umanità — il desiderio di capire il mondo, per poi restituirlo, attraverso l’obiettivo, nella sua forma più vera.
Ripercorriamo insieme alcune delle sue foto più significative:

Night View, New York City (1932)

Night View, New York City (1932). Una delle sue immagini più celebri, mostra Manhattan di notte, vista dall’alto, con le finestre illuminate che brillano come costellazioni urbane: un esempio perfetto della sua capacità di unire precisione tecnica ed emozione, catturando l’energia della città.

Blossom Restaurant, 103 Bowery, Manhattan (1935) 

Blossom Restaurant, 103 Bowery, Manhattan (1935). Parte del progetto Changing New York, questa foto immortala una vecchia insegna al neon sopra un ristorante popolare. La scena catturata ci racconta la stratificazione sociale della città e il contrasto tra passato e presente.

Canyon: Broadway and Exchange Place (1936) 

Canyon: Broadway and Exchange Place (1936). Una veduta mozzafiato del canyon urbano creato dai grattacieli di Wall Street. L’effetto prospettico e l’uso della luce enfatizzano la verticalità e il senso di monumentalità della metropoli.

James Joyce (1928)

James Joyce (1928). Uno dei suoi ritratti più famosi. Abbott ha fotografato numerosi intellettuali e artisti del suo tempo, e il suo ritratto di Joyce, con lo sguardo sfuggente e l’atmosfera intima, è tra i più noti.

Eugène Atget’s Death Mask (1927) 

Eugène Atget’s Death Mask (1927). Scattata dopo la morte di Atget, è un’immagine intensa, che testimonia quanto Abbott tenesse alla figura del fotografo francese e quanto si sentisse custode della sua memoria.

Fotografia scientifica per il Mit. Soap-Bubbles. New-York (1945)

Fotografia scientifica per il Mit. Soap-Bubbles. New-York (1945). Meno note al grande pubblico, ma di grande rilevanza: Abbott realizzò straordinarie immagini per spiegare concetti fisici come l’onda, il moto e la rifrazione. Sono esempi di fotografia come strumento educativo, estetico e analitico.

Concludiamo con una sua frase che ci ricorda la sua concezione di arte e fotografia: «La gente dice di dover esprimere le proprie emozioni. Sono stufa di questa cosa. La fotografia non ti insegna a esprimere le tue emozioni, ti insegna a vedere» (Berenice Abbott).