accadde…oggi: nel 1921 nasce Elena Bono, di Sara Mostaccio

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Considerata una delle maggiori scrittrici del secondo dopoguerra (la sua opera omnia è disponibile su Amazon), tradotta all’estero e corteggiata da Pasolini che voleva fare un film da un suo libro, fu anche staffetta per la Resistenza. Perché allora Elena Bono è stata dimenticata?

Elena nasce a Sonnino, Latina, il 29 ottobre del 1921. Il padre è un noto classicista e per via del suo lavoro la famiglia si trasferisce presto a Recanati. La futura poetessa ha solo 3 anni ma presto scopre una consonanza con Giacomo Leopardi a cui si riferisce affettuosamente come a Giacomino: “La notte è troppo pesante sopra il mio capo.”

Ha 10 anni quando la famiglia si stabilisce a Chiavari in Liguria dove il padre diventa preside del liceo classico. Qui Elena cresce e si avvicina alla scrittura. Qui si sposa, anche. Il 21 febbraio 1959 convola a nozze con Gian Maria Mazzini, imprenditore e critico letterario con una parentela con Giuseppe Mazzini e, per più lontane ascendenze, anche con Giuseppe Garibaldi. Presenze significative nella vita di Elena. Come lo furono il padre e la nonna materna, Elena come lei, originaria di Pescasseroli e amica intima della famiglia di Benedetto Croce.

Sin da giovanissima Elena si esercita sui classici greci e latini, traduce Sofocle, si forma sui miti antichi e sulle tragedie. E inizia a scrivere. Celebre la storia del modo in cui concepisce la raccolta di racconti Morte di Adamo, considerata il suo capolavoro. Se ne stava in salotto ascoltando musica ungherese quando improvvisamente si fece silenzio ed emersero le prime parole del libro: “Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo tornò alla terra”. Prese carta e penna per iniziare a scrivere e poi mostrò a suo padre il risultato. Il commento di Francesco fu “Povera figlia mia”.

Da allora non si fermerà più scrivendo non solo poesie – la prima appare su L’Illustrazione italiana – ma anche romanzi, opere teatrali e un’opera storica, la biografia del capo partigiano Aldo Gastaldi. Lo conosce durante la guerra quando, sfollata a Bertigaro sull’Appennino ligure in seguito al bombardamento di Chiavari, partecipa come staffetta alla Resistenza.

Piccola Italia, non avevi corone turrite
né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.

Il primo “risveglio alla storia”, così lo definisce lei stessa, risale all’8 settembre 1943 quando vede i soldati italiani in rotta e una vecchietta che si scaglia contro due SS che li inseguono. Sente di dover prendere posizione. In Appennino entra in contatto con le formazioni partigiane della zona e riporta informazioni su imminenti rastrellamenti. Il suo impegno civile continuerà anche in seguito, quando si candiderà alle prime elezioni europee del 1979 con il Partito Repubblicano di Spadolini.

Una gran parte delle opere di Elena si ispira alla Resistenza. Lo fa in chiave storica nei suoi romanzi, specie nella trilogia Uomo e Superuomo che include Come un fiume come un sognoUna valigia di cuoio nero e Fanuel Nuti. Ma è nelle poesie che i temi assumono valenza esistenziale e universale. Come nelle liriche di Piccola Italia. Come nelle struggenti Stanze per Rinaldo Simonetti “Cucciolo” che ricordano un bambino fucilato.

Negli anni 50 è l’autrice di punta di Garzanti insieme a Pasolini (che vorrebbe trarre un film da un suo libro ma a cui risponderà di no. Come farà con Visconti). Per l’editore milanese pubblica a breve distanza le liriche I galli notturni nel 1952, l’opera teatrale Ippolito nel 1954, i racconti Morte di Adamo nel 1956 e le poesie Alzati Orfeo nel 1958.

Ma il successo dura poco. Elena resta marginale, non aderisce alle avaguardie letterarie di moda, rifiuta tanto l’ermetismo quanto gli sperimentalismi seguenti. Va controcorrente scegliendo una poetica radicata nella fede religiosa e nella lezione stilistica dei classici greci e latini, dei poeti orientali, di Foscolo e Leopardi.

Non frequenta neanche i salotti letterari. Tranne il suo, in cui accoglie volentieri chi voglia conoscerla e le numerose scolaresche che vanno a trovarla fino ai suoi ultimi giorni. Nonostante i premi letterari e benché venga tradotta in molte lingue, scivola nell’oblio. Quando muore nel 2014 dopo lunga malattia in pochi se ne ricordano. Ha continuato a pubblicarla solo un piccolo editore di Recco, LeMani, che nel 2007 fa uscire l’opera omnia poetica. E anche gran parte del suo teatro. Elena ha scritto moltissimo per le scene, ha amato il teatro sin da bambina quando lo faceva con le figurine dei pupazzetti ritagliati dal Corriere dei Piccoli. Ai poeti ammette di preferire gli attori.

Tutto quel che scrive, e soprattutto la poesia, obbedisce a una vocazione. “Sono un’amanuense” ripete spesso, affermando di scrivere sotto dettatura, rispondendo a una chiamata, mettendosi al servizio di una voce più alta. Perciò la sua è una scrittura che “accade”. E al tempo stesso è decisamente concreta, necessaria, non esercizio stilistico ma qualcosa “che aiuta a vivere, come il mangiare e il bere.”

Per Elena tutto è questione di vocazione, tanto la letteratura quanto l’impegno antifascista e anche la dedizione allo spirito francescano come terziaria dell’ordine. In lei i temi religiosi sono frequenti e la sacralità della parola – asciutta, precisa, lontana da astrazioni e funambolismi stilistici – aspira al ritorno alla Parola. Quindi a Dio. “Credo che l’esperienza religiosa faccia l’uomo uomo. Senza… è una bestia.”

Tempo di Dio si intitola anche la poesia che preferiva di tutta la sua produzione. Scritta appena dopo la fine della guerra, affronta il tema della libertà e della responsabilità che poi sviluppa nella trilogia Uomo e Superuomo composta nell’arco di 30 anni.

Se da giovanissima è attratta dalle filosofie orientali (le poesie pubblicate da Elemire Zolla su Conoscenza Religliosa e poi riunite nel libro Invito a Palazzo appartengono al “filone orientale”), presto ne prende le distanze aderendo a una filosofia impregnata di cristianesimo. Per Elena niente è un caso, la destinazione ultima non è la dissoluzione nel Vuoto e siamo tutti responsabili delle nostre scelte. Dio è la direzione a cui l’anima tende e il concetto attraverso cui l’uomo definisce se stesso e distingue l’essenziale dall’inessenziale.

Così semplice era tutto, chiudere gli occhi e guardare” dice consapevole di ricorrere a un paradosso. Significa accettare il mistero per attingere all’essenza che è invisibile ma non può sfuggire a chi è alla ricerca dell’infinito. Tornano echi leopardiani. È in questa essenzialità che sta tutta l’anima della poesia di Elena Bono. Il suo verso è nitido, semplice, privo di artifici stilistici. E racchiude il nocciolo delle cose in cui convergono la realtà concreta della vita e la spiritualità più elevata.

Non è mai tenera, la poesia di Elena, né consolatoria. Al contrario si plasma nel dolore, è pronta a esporre il corpo alle ferite e a portarne i segni. Il dolore stesso diventa occasione di salvezza e la condizione personale della poetessa diventa esperienza collettiva. Come solo la poesia è capace di fare. E come la tragedia greca insegna.