se dico no è no! editoriale di Giusi Sammartino

LE PROMESSE MANCATE E I LIBRI FILONAZISTI IN FIERA
Carissime lettrici e carissimi lettori
“Era una casa molto carina/ Senza soffitto, senza cucina/ Non si poteva entrarci dentro/ Perché non c’era il pavimento/ Non si poteva andare a letto/ In quella casa non c’era il tetto/ Non si poteva fare pipì/ Perché non c’era il vasino lì/ Ma era bella, bella davvero/ In via Dei Matti, numero zero”. Cantata da Sergio Endrigo nel 1969 sul testo della canzone del poeta, compositore e diplomatico brasiliano Vinicius de Moraes (1913-1980) che scrisse oltre al testo anche le musiche.
Stamattina cercando notizie da commentare insieme con voi, ho trovato un’interpretazione di uno degli accadimenti più “chiacchierati” e presenti sui media di questi ultimi tempi. Periodo che scorre vertiginosamente incontro alle festività del Natale, che ci vuole tutti e tutte brave/i e buone/i. Un momento che marcia con altrettanta solerzia verso il referendum sulla Giustizia e sui giudici che la compongono. Inoltre, si sente l’aria più pregna del ”profumo” di apertura della campagna elettorale per le prossime votazioni politiche del 2027.
In questi punti appena elencati deve stare l’essenza della presenza in cronaca. La storia e i fatti che sottende, riguarda la cosiddetta “casa nel bosco”, a Palmoli, nelle montagne sopra Vasto (Chieti). Si contestano la vita e le scelte di una famiglia anglo-australiana formata dai due genitori e dai loro tre bambini (due gemelli di 6 anni e la più grande di otto anni) immersi nel bosco, nella ruvidità della montagna. La famiglia del bosco abruzzese, però, non è “sola”. Vivono in comune con altre famiglie e si incontrano tra loro i bambini e ragazzini di ogni età, di chi ha fatto le stesse scelte di vivere sì in “rete”, ma intesa come condivisione, intesa in senso reale e non mediata dalle regole sociali, compresa la scuola, con lo stile, che siamo in accordo o no, di molte altre famiglie non solo di quel territorio. Un fenomeno chiamato dei “neorurali” (ma di nomi ce ne sono altri, di altri gruppi, con l’intensione di seguire il principio dell’immersione totale nella natura, animali compresi, e tanti alberi intorno, bagno “a secco” (senza sciacquone e motori). Esclusione assoluta dalla vita di oggetti in plastica e altre “modernità superflue” secondo la loro concezione
Il punto centrale di ciò che è accaduto, dell’attenzione dirottata sul nucleo familiare del bosco di Palmoli è che un certo giorno tutti, nessuno escluso, sono stati vittime di un avvelenamento da funghi e sono finiti in ospedale. Ciò ha trasformato un episodio che succede con una certa frequenza a chi raccoglie i funghi e non li fa analizzare e non li conosce bene, in un’“esca” che, purtroppo, ha fatto gola alla politica odierna.
La “scintilla” così scoccata, se così si può chiamare, ha toccato tutti e cinque i componenti, la madre Catherine Birmingham, il padre Nathan Trevallion e i loro tre bambini. Questi ultimi, tutti minori, e proprio per questo, sono così stati così monitorati insieme alla famiglia, messa sotto osservazione compresa la loro situazione abitativa e territoriale che li accoglieva: la casa del bosco, il bagno inesistente, l’assenza dell’educazione scolastica dei ragazzini, così come la si intende comunemente. Perché i genitori, quelli della fotografia, dove tutti sono sorridenti, dicono che i tre fanno ragazzini comunque studiano. E vivono tra animali e verde.
Ma ritorniamo alla mia ricerca e alla lettura, sempre più attenta e riflessiva da parte mia, che “vede” la cosiddetta “casa nel bosco da un’altra ottica e lo scardina da quello che è stato di “esca” creata per “parlare d’altro e mettere in atto scontro politico su elementi “altri”. Perché di casi simili a questa modalità di vita della famiglia anglo-australiana di Chieti ce ne sono, lo abbiamo detto, tanti e non se ne parla così tutti i giorni. Un palese caso di “straniamento”. Allora la storia potrebbe prendere altre strade e ritorcersi, come dire, contro chi voleva “usarla”.
“La storia della famiglia di Palmoli non è solo il racconto di un bosco – scrive un’articolista della Nuova Sardegna, Michela Calledda – di una casa fatiscente o di una scelta estrema. È il sintomo di qualcosa che il capitalismo produce da decenni: la disgregazione del legame sociale, la solitudine organizzata, l’illusione che la salvezza passi attraverso la fuga individuale. Il “ritorno alle origini” che oggi affascina tanti – il parto in casa, il rifiuto dei vaccini, l’istruzione domestica come alternativa alla scuola pubblica, l’autosufficienza totale come risposta al mondo – non nasce fuori dal capitalismo. Ne è un effetto. Quando il welfare arretra, quando la sanità pubblica si sgretola, quando la scuola viene impoverita, quando le istituzioni perdono credibilità, il capitalismo offre un’unica soluzione: arrangiati. Cura te stessa. Educa da sola i tuoi figli. Costruisciti un piccolo mondo privato e difendilo dal resto della società. È l’illusione più potente del neoliberalismo: trasformare l’individuo in un’isola, convincerlo che sottrarsi alla collettività sia emancipazione, non abbandono. Ma la libertà individuale, quando diventa fuga, smette di essere libertà e diventa privatizzazione dei diritti. E così adulti benestanti, colti, perfettamente attrezzati per vivere nel mondo, si convincono che la soluzione sia scomparire dal mondo. Che il bosco sia più giusto della scuola. Che l’autosufficienza sia meglio della comunità. Che basti sottrarsi al sistema per non farne parte. Ma anche questa è un’illusione capitalista: l’idea che ci si possa salvare da soli, che il mondo esterno sia un fastidio, che la collettività sia un ostacolo, che la cura sia un fatto privato. Il problema non è il bosco. Il problema è che il bosco, in questa fase storica, diventa la risposta individuale a un fallimento collettivo. E diventa pericoloso quando l’individualismo assoluto schiaccia i diritti dei bambini: scuola, relazione, cura, sicurezza, futuro. Nel capitalismo, anche l’infanzia rischia di diventare proprietà. Margaret Atwood lo ha visto chiaramente. Nel Racconto dell’ancella, la retorica del “naturale” non libera: disciplina. Il parto senza anestesia, il rifiuto della medicina, l’idealizzazione della purezza non riportano al passato buono: riportano a un passato dove chi è vulnerabile paga un prezzo altissimo. Quello che chiamiamo “ritorno alla natura” è spesso un’altra forma della stessa logica capitalista. Non è ribellione. È una ritirata che lascia il sistema intatto e scarica il costo sui più fragili: sui bambini, sui poveri, sulle minoranze, su chi non può scegliere dove vivere né in quale mondo crescere. La verità è che non si esce dal capitalismo scappando nel bosco. Si esce dal capitalismo ricostruendo i legami, difendendo la scuola pubblica, la sanità pubblica, i diritti sociali, la collettività. Tutto ciò che questo sistema ci ha insegnato a considerare un peso. Non sempre si torna alla natura Molto spesso si torna indietro. E in questo ritorno all’individuo isolato, c’è tutta la forza regressiva del capitalismo contemporaneo”.
Allora possiamo anche cantare: “Aveva una casetta piccolina in Canadà con vasche e pesciolini e tanti fiori di lillà. E tutte le ragazze che passavano di là dicevano che bella la casetta in Canadà”. Forse quella che, per dovere di cronaca devo dirlo, è stata “prestata” alla famiglia per cui si restauri la casa giudicata fatiscente La cantavo da piccola, saltarellando felice, vincendo ogni timidezza, sul marciapiedi di fronte a casa mia. Il testo è di Vittorio Mascheroni, ed era stata presentata al Festival di Sanremo nel 1957. Narra di un tale di nome Martin che possiede una piccola casa distrutta puntualmente da un piromane chiamato Pinco Panco a cui però Martin non gliela dà vinta ricostruendola puntualmente e preservando così la sua proprietà. Ecco oggi, qui, ne ho voluto parlare, ma diversamente.
Invece sul “piatto” della cronaca politica ci sono ben altre notizie. E si gira intorno a gravi problemi sociali. Vittime le donne. Il femminicidio e lo stupro. Una legge approvata, l’altra tradita. A ciò si aggiunge una triste, quanto squallida, lista di nomi di ragazze apparsa, come in una turpe gogna, sui muri del bagno dei maschi in un liceo romano.
È capitato proprio il 25 novembre, una data importante per eliminare la violenza fatta sulle donne (se ne celebra ogni anno la giornata mondiale) e invece il disegno di legge per ampliare e parificare agli altri paesi europei la legge sul consenso libero: “La legge italiana definisce lo stupro come la violenza sessuale (art. 609-bis del Codice Penale), e punisce chiunque, con violenza, minaccia o abuso di autorità, costringa un’altra persona a compiere o subire atti sessuali”. Così è spiegato e si continua con le pene che vanno dai sei ai dodici anni di reclusione. Ma si doveva andare oltre. Le opposizioni di governo si erano accordate in un patto che, fermato al Senato, dopo l’approvazione alla Camera, è suonato come un tradimento. un’aggiunta che doveva mirare a definire esplicitamente che un atto sessuale “senza consenso libero e attuale, è stupro”, di fatto modificando l’articolo 609-bis e rafforzando la tutela della vittima. Il disegno di legge si doveva allineare alla Convenzione di Istanbul, che definisce lo stupro “come un rapporto sessuale senza consenso, e mira a rendere questa definizione giuridicamente vincolante”. Questa modifica mirava a eliminare le zone grigie giuridiche e a rafforzare la tutela della libertà sessuale, ponendo l’accento sul fatto che qualsiasi atto sessuale non consensuale è un reato.
“Il 25 novembre è stata persa l’occasione per fare qualcosa di buono in un giorno importante – ha scritto Amnesty international – ancora una volta la politica si è divisa su una questione di fondamentale priorità e questo la dice lunga su quanto i diritti umani siano tenuti in considerazione – continua amaramente – Dopo il voto unanime alla Camera, il dibattito è stato inquinato da argomentazioni risibili che partono dal presupposto che sia quasi inevitabile che le relazioni sessuali tra uomini e donne finiscano prima o poi in tribunale. La norma bloccata il 25 novembre al Senato è già in vigore in 21 stati europei, i cui parlamenti hanno evidentemente ritenuto infondata l’idea che nei tribunali l’uomo imputato sia “colpevole fino a prova contraria” e sia così messo a rischio il principio della presunzione d’innocenza. Già oggi, un uomo che si accerta della volontà di una donna a compiere un atto sessuale tramite la comunicazione verbale e non verbale, non desumendone il consenso dall’abbigliamento o dal comportamento e non insistendo quando tale consenso è ritirato, è sicuro di non compiere nessun reato.
Ciò che Amnesty International chiede con una la campagna #IoLoChiedo, lanciata nel luglio 2020 – oltre al rispetto della Convenzione di Istanbul dovuto dall’Italia sin dal 2013 – è che cessi l’indegna prassi per cui in tribunale le sopravvissute allo stupro sono obbligate a dimostrare che la violenza sessuale “non se la sono andata a cercare” e che hanno resistito accanitamente. L’allarme sull’inversione dell’onere della prova è infondato. La riforma mira semplicemente a garantire che possa essere comminata una pena adeguata nei casi in cui il tribunale ritenga che sia dimostrato che l’imputato ha agito contro la volontà della persona sopravvissuta. Quando è sì è sì e quando è no è no: è un concetto così elementare che stupisce se ne stia ancora a discutere. Così come dovrebbe essere ovvio che tutelare i diritti delle donne non va a danno di nessuno, ma migliora la vita di tutte le persone. Anche degli uomini”.
Nel 1996 finalmente lo stupro è diventato reato contro la persona e non contro la morale ma arriviamo al 2020, quarantotto anni dopo e, è da sottolineare, solo cinque anni fa: l’Istat fa un sondaggio agli italiani da cui viene fuori che una persona su quattro ritiene che un modo di vestire succinto possa provocare una violenza sessuale. Il 15% degli italiani, poi, siamo sempre nel 2020, crede che se una donna subisce uno stupro quando è ubriaca o drogata sia in parte responsabile. C’è chi osserva che “Se questi dati fossero veri sembrerebbero tratti da un monologo comico. Eppure il 7% degli italiani secondo il sondaggio pensa che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no, ma in realtà pensano sì, e Il 6,2% affermano che le donne serie non vengono violentate” Questo succede nell’Italia di cinque anni fa. Questo forse fa capire con ancora più forza il perché è ancora così vigorosa l’opposizione all’introduzione nella Scuola dell’educazione affettiva e sessuale senza passare per il consenso dei genitori e rivolta a tutte le età di alunni e alunne. Senza intrusioni massicce, proprio come succede per qualsiasi materia curricolare.
Leggiamo insieme due poesie intense. Una scritta da una poetessa afghana, Wadia Sadami, piena di dolore, ma “con quel pensiero fisso in testa che ti dice di scappare lontano e realizzare subito dopo che anche per quel giorno non sarà possibile; aspettare invano per anni che le cose cambino”. Finisce però la poesia con un grido di ribellione e la speranza.
Poi una composizione brevissima quanto intensa ed essenziale del grande Pablo Neruda. La quintessenza dell’amore. Buona lettura
Mi sveglio ogni mattina progettando la mia fuga
Ma che ne sarà dei miei figli?
Chi mi crederà?
Chi mi darà una casa?
Passano gli anni e io sto ancora aspettando
Quando finirà tutto questo?
Il mio trucco non copre il mio viso livido
Il mio sorriso non nasconde il mio volto tirato.
Eppure, nessuno viene ad aiutarmi
Dicono: andrà meglio
Dicono: non parlarne
Dicono: questo era il mio destino
Dicono: una donna deve tollerare
I panni sporchi si lavano in famiglia, dicono.
Quando finirà tutto questo?
Ancora una volta, trascina il mio corpo sul pavimento.
Mi soffoca e io lo imploro di non uccidermi.
Ancora una volta, pretende il mio silenzio
Ancora una volta mi dice che non merito di vivere.
Ne ho avuto abbastanza
Non voglio tacere
Vivrò
Troverò la libertà
Tutto questo finirà oggi.
Wadia Sadami
E da allora sono perché tu sei,
e da allora sei, sono e siamo,
e per amore sarò, sarai, saremo.
(Pablo Neruda)