accadde…oggi: nel 1755 nasce Fortunata Fantastici Sulgher, di Sara Mostaccio
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A 10 anni improvvisa versi, a 13 compone poesie e presto diventa una così celebre improvvisatrice che i suoi versi travalicano i confini della sua Toscana. Fortunata Fantastici Sulgher è stata una delle poche donne letterate della sua epoca a diventare famose.
Nasce a Livorno il 27 febbraio del 1755 dalla pisana Elisabetta Angeli dal livornese Francesco. I genitori non posso permettersi prestigiosi istitutori per la figlia che dimostra un fervido talento e inizialmente la affidano alla guida del Dottor Loggia. Chi la ascolta, ancora bambina, è così stupefatto da tanta destrezza nell’improvvisazione che scrive
A dì nostri donzella Livornese,
A cui non estro non prontezza manca,
Se vola in Pindo nell’april degli anni,
Spiegherà fatta adulta audaci vanni.
E sarà proprio così, l’improvvisazione è il suo talento e presto diventerà tanto famosa che non servirà neppure dirne il nome, sapranno tutti chi è la donzella livornese. Continua gli studi con il vescovo Gian Domenico Stratico, con l’abate Francesco Fontani si applica a latino e greco e alla fisica la inizia Attilio Zuccagni. Ma è la poesia che le accende lo spirito. E le conquista l’incoraggiamento di molti poeti dell’epoca e la protezione di molte nobildonne.
Come improvvisatrice si fa presto una fama e già nel 1770 entra in Arcadia con il nome di Temira Parraside. Non è l’unica Accademia ad ammetterla. Farà parte della Reale Accademia di Mantova, che accoglie una donna per la prima volta nella storia, ma anche dei Rozzi e degli Intronati di Siena, dei Liberi di Città di Castello, degli Etnei, dei Fervidi di Bologna e della Reale Accademia delle Scienze di Torino.
Temira io son, Febo è il mio nume, lieta
Son di mia sorte, e la mia dolce Lira
Ogni tumulto del mio cuore acqueta
Qualor m’inspira.
L’appartenenza alle accademie rappresenta il prestigio della poetessa oltre che un’occasione di incontro con il suo pubblico, per lo più maschile. Sono però importanti anche le amicizie femminili, con altre poetesse arcadiche ma soprattutto con la pittrice Angelica Kauffman che nel 1792 dipinge un suo ritratto e a cui Fortunata dedica una raccolta di poesie chiamandola “donna sublime”.
I nostri nomi, o mia diletta, andranno,
Se a te son cara, anche all’età future,
E forse fia che un giorno invidia desti
L’udir che te cantai, che me pingesti.
L’amica la ritrae in abito azzurro, con un volto gentile incorniciato da riccioli castani che sfuggono da un turbante verde. È l’unica immagine della poetessa, poi trasformata anche in incisione da Raffaello Morghen per il frontespizio dei suoi libri.
Tra il 1772 e il 1775 la famiglia Sulgher si è trasferita a Firenze, forse per un rovescio di fortuna, forse perché Fortunata possa mettere a frutto le sue inclinazioni poetiche. È comunque un evento significativo nella vita della giovane poetessa che si immerge nella vita letteraria della città. Non pubblica (ancora) le sue poesie, che per loro stessa natura si esauriscono nel momento stesso della loro creazione: sono improvvisazioni. Ma sono ammiratissime da tutti.
Con le muse scherzo e canto
Per diletto del mio core,
Se anche un Mida
Me derida,
Che mai pose in Pindo il piè.
Diventa così famosa che persino il personaggio di un romanzo contemporaneo di Antonio Piazza la nomina. È l’attrice Rosina che dichiara: “Non è cosa strana che una donna si metta a scrivere.” E continua raccontando come ha intrapreso la via del teatro dopo aver rifiutato le nozze imposte dalla famiglia. “Una delle prime a difendere la mia causa, era quella famosissima giovine livornese che sopra qualunque soggetto e in tutti i metri della poesia felicemente improvvisa, sommo onore arrecando alla patria sua e al suo sesso… Suona eccellentemente il gravecembalo, canta bene, intende diverse lingue, sa imitare la pronunzia di molti dialetti… canta con una dolcezza da far arrestare un fiume, da far piangere un marmo.”
La candida Innocenza un di’ godea
Coronata di gigli il petto e il crine,
Quando incognito Amore, a lei dicea
T’adorna di mie rose porporine.
La donzelletta che nulla temea
Fu in pria ritrosa, ma piegossi alfine,
E i freschi gigli al traditor cedea
Il quel cambio prendendo e rose, e spine.
Pochi anni dopo Fortunata incontra Vittorio Alfieri durante uno dei suoi soggiorni fiorentini e inizia a scambiare lettere con grandi personalità dell’epoca, tra cui Vincenzo Monti e Aurelio Bertola, noto per il suo Viaggio sul Reno. A tutti i suoi corrispondenti chiede di inviarle libri e versi. È in contatto con la migliore cultura della sua epoca.
Intanto si sposa. Nel 1777 convola a nozze con l’orefice Giovanni Fantastici ed è con il suo cognome che si fa conoscere nelle numerose città italiane in cui si esibisce. Viaggia infatti anche fuori dalla Toscana a partire dal 1783. Si reca a Bologna, Moderna, Parma e Colorno e i suoi versi raggiungono anche Venezia.
Senza la dolce Musa
Ogni mio vanto tace,
E sol per lei mi piace
L’atre cure obliare.
Del matrimonio si sa poco, sono note invece le sue sette gravidanze, quasi tutte finite male. Solo le figlie Isabella e Massimina sopravviveranno e come la madre coltiveranno la poesia. Tuttavia, al di là delle incombenze domestiche e delle sue tragedie, Fortunata riesce sempre a ritagliarsi lo spazio da dedicare alla lettura, alla poesia e alla corrispondenza.
Nell’angoscioso stato
In cui gittommi la mia fera sorte,
Meglio del viver morte
A tanto male, a tanto duol sarìa,
Ma me’l divieta la tirannia mia.
La prima pubblicazione risale al 1782, quando escono le Terzine estemporanee dettate ad un amico di Temira Parraside: Canti chi vuol d’Amor gli sdegni e l’ire. Due anni dopo escono sulla rivista Parnaso Italiano di Bologna altre Rime. Non sappiamo con precisione quanto sia stato pubblicato e quanto perduto delle rime che produceva visto che erano quasi sempre destinate alla fruizione immediata e non alla stampa. Ma sappiamo che si esibiva in molte città dell’Italia settentrionale e il suo salotto era un ritrovo ben frequentato in cui lei recitava e spesso cantava i propri versi. Gli improvvisatori, infatti, dovevano essere dotati anche di capacità canore. E Fortunata lo era. Recitando alla Reale Accademia Fiorentina di Belle Lettere suscitava commenti ammirati:
“Il Bel Sesso deve essere grato al merito procuratosi dalla chiarissima Autrice. Essa si è condotta al massimo impegno per far decoro alla Patria e al suo sesso… E si è inoltrata da se medesima nella strada gloriosa del Tosco Pindo quando in Firenze i Cigni dell’Arno presso che tutti tacevano… Tutto ell’ha vinto ciò che impedivale d’arrivare al suo scopo per avere luogo nel nostro Parnaso.”
Non era cosa da poco per una donna del 700 che raramente aveva accesso agli studi e alla gloria letteraria. Il successo raggiunto le consente di pubblicare sempre più spesso le sue poesie, sia a Firenze che a Livorno. Nel 1794, dopo l’uscita di una nuova raccolta di successo, si confronta a Firenze con un’altra poetessa arcadica, Teresa Bandettini, il cui pseudonimo è Amarilli Etrusca. È arrivata la concorrenza. Teresa è una improvvisatrice non meno dotata e Fortunata deve dividere la fama conquistata.
Coi vivi lumi
M’empi d’ardore;
Me più non miri,
Languo qual fiore.
Non si sa molto della vita successiva della poetessa, in quegli anni la Toscana è coinvolta nelle campagne napoleoniche e il clima si fa instabile né ci sono documenti che testimonino la sua vita personale o la sua attività poetica a parte una pubblicazione a Parma del 1802, la morte del marito Giovanni nel 1807 e il nuovo matrimonio con Pietro Marchesini.
Quando muore per un colpo apoplettico il 13 giugno del 1824 il marito la fa seppellire nel chiostro di Santa Croce con un epitaffio che ne menziona la carità ma non il talento poetico. A sopravviverle però sono stati i suoi versi.
Quel cipresso che destina
Sulla tomba la pietà
Sia piantato
Ch’or più grato
S’egli adombrami sarà.