accadde…oggi: nel 1937 muore Antonio Gramsci, di Giuseppe Vacca
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Nacque ad Ales, allora in provincia di Cagliari, il 22 genn. 1891, quarto di sette figli, da Francesco, impiegato nell’ufficio del Registro, e da Giuseppina Marcias, casalinga.
Durante il ginnasio cominciò a leggere la stampa socialista, in particolare l’Avanti!, che il fratello maggiore Gennaro, in servizio di leva a Torino nel 1905, gli inviava.
Nel 1911 si licenziò al liceo Dettori di Cagliari dove, negli anni precedenti, aveva frequentato gli ambienti socialisti e fatto le prime letture di K. Marx. In ottobre di quell’anno vinse una borsa di studio del collegio Carlo Alberto e poté iscriversi alla facoltà di lettere per filologia moderna dell’Università di Torino.
I suoi interessi si volsero alla glottologia e nel 1912 compì alcune ricerche sulla lingua sarda, sotto la guida di M. Bartoli che aveva colto in lui un grande talento di studioso e avrebbe voluto avviarlo alla carriera universitaria. Gli studi di linguistica, comunque, lasciarono un’impronta determinante nel suo stile di pensiero. Nel 1912 allacciò amicizia con P. Togliatti, anche lui vincitore di una borsa del collegio Carlo Alberto nel 1911. Poco tempo dopo svolsero insieme una ricerca sulla struttura sociale della Sardegna.
Nel 1913 seguì numerosi corsi di lettere e di giurisprudenza ma, per le cattive condizioni di salute, non riuscì a sostenere alcun esame. Nella primavera di quell’anno, in occasione dello sciopero degli operai metallurgici, entrò in contatto con gli ambienti operai. In settembre, rientrato dalla Sardegna, visse per qualche tempo con A. Tasca, di un anno più giovane di lui ma già attivo nel movimento giovanile socialista e probabilmente si iscrisse allora al Partito socialista italiano (PSI).
In Sardegna aveva seguito la battaglia elettorale per le prime elezioni politiche svoltesi con il suffragio universale maschile nell’ottobre dello stesso anno ed era rimasto impressionato dai mutamenti introdotti in quell’ambiente dalla partecipazione dei contadini alla vita politica. Leggeva assiduamente La Voce di G. Prezzolini e L’Unità di G. Salvemini e nella primavera del 1914 – ricorderà nello scritto sulla questione meridionale – insieme con un gruppo di socialisti torinesi propose la candidatura di Salvemini per le elezioni suppletive del collegio di borgo S. Paolo di Torino, con lo scopo di “eleggere un deputato per i contadini pugliesi” ai quali “la pressione amministrativa del governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia” avevano impedito di eleggerlo nel suo collegio di Molfetta e Bitonto (La costruzione del partito comunista, p. 141).
Gli anni del “garzonato universitario” furono anche quelli in cui il gruppo di giovani socialisti di straordinario valore, di cui il G. faceva parte, si formò intellettualmente sotto l’influenza della cultura neoidealistica e liberista, in aperto contrasto con la tradizione positivistica del socialismo italiano. Insieme con Tasca e Togliatti, il G. progettò allora di fondare una rivista di cultura socialista intitolata La Città futura. Egli era su posizioni di sinistra rivoluzionaria e durante la “settimana rossa” prese parte alla grande manifestazione operaia torinese del 9 giugno.
L’ambiente e il clima di quegli anni si possono sintetizzare con le parole di Togliatti nella conferenza “Gramsci pensatore e uomo di azione”, tenuta nell’Università di Torino il 23 apr. 1949. Dopo aver ricordato i maestri che formarono il G., e cioè A. Graf, R. Renier e soprattutto A. Farinelli, Togliatti racconta che incontrava il G. anche in altre lezioni, “dappertutto, si può dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una serie di problemi essenziali, da Einaudi a Chieroni a Ruffini”. Ma, aggiunge Togliatti, “non vi erano solo in questa università e città professori e lezioni […]. Vi era un’altra realtà, che colpì Gramsci e altri di noi, allora, profondamente. […] Sembravano, a prima vista, diversi da noi studenti; sembrava un’altra umanità. Ma un’altra umanità non era. Era, anzi, l’umanità vera, fatta di esseri che vivono del proprio lavoro e che, lottando per modificare le condizioni di questo lavoro, modificano in pari tempo se stessi e creano nuove condizioni per la loro esistenza e per tutta la società” (Togliatti, Gramsci, p. 69).
Allo scoppio della guerra il G. era iscritto alla sezione socialista torinese ma non aveva alcun ruolo di rilievo. Alla guerra è dedicato il suo primo articolo politico Neutralità attiva ed operante, pubblicato su Il Grido del popolo il 31 ott. 1914 (Scritti giovanili, pp. 3-7).
In esso il G. criticava la linea della “neutralità assoluta” assunta dal partito il 28 luglio proponendo che essa non significasse pura attesa e tanto meno inerzia rispetto agli sviluppi della guerra, ma fosse il punto di partenza per preparare le condizioni della rivoluzione proletaria.
Era un modo coerente di interpretare la politica della “intransigenza”, cioè quella della maggioranza massimalista raccolta intorno a G.M. Serrati, che si basava su una visione antitetica dei fini e dei compiti della borghesia e del proletariato; un anno dopo il G. si schierava sulle posizioni della sinistra uscita dalla conferenza di Zimmerwald.
Nella formazione del suo pensiero ebbe un valore determinante la rielaborazione critica della politica “intransigente” che egli sviluppò fra il 1916 e il 1918. In quegli anni, nei quali egli interruppe gli studi e cominciò a lavorare come redattore del Grido del popolo e dell’edizione piemontese dell’Avanti!, si venne definendo la sua percezione della portata epocale della guerra e della Rivoluzione russa, insieme con la prima messa a fuoco dei temi fondamentali della storia e della politica italiana, e con la chiarificazione del suo orientamento marxista.
Il primo aspetto della guerra che attira l’attenzione del G., dopo l’intervento dell’Italia, riguarda le sue conseguenze sull’unità del paese e soprattutto sul Mezzogiorno. Il tema si inserisce nella battaglia antiprotezionistica che dal 1913 impegnava la maggioranza “intransigente” del partito socialista. La questione meridionale assume così un particolare rilievo politico e viene inquadrata nell’indirizzo liberista sostenuto dal G. tanto per la politica economica nazionale, quanto per quella internazionale (Scritti giovanili, pp. 30-32). Ma tutto lo sviluppo della guerra è analizzato in rapporto alla straordinaria accelerazione che essa crea nella formazione della soggettività dei popoli. “Tre anni di guerra – scrive il G. nel novembre 1917 – hanno ben portato delle modificazioni nel mondo. […] Sentivamo il nostro piccolo mondo [e] ci saldavamo alla collettività più vasta solo con uno sforzo di pensiero, con uno sforzo enorme di astrazione. Ora la saldatura è diventata più intima. […] Vediamo uomini, moltitudini di uomini dove ieri non vedevamo che Stati o singoli uomini rappresentativi” (ibid., p. 130).
Questo mutamento è reso ancor più intenso dal principale evento originato dalla guerra: la Rivoluzione russa. Le prime riflessioni del G. si riferiscono alla Rivoluzione di febbraio che egli interpreta come una rivoluzione proletaria e perciò non “giacobina” (La Città futura, pp. 138-141); tale caratterizzazione è legata, per la forma, alla parola d’ordine della Costituente, sostenuta risolutamente dai bolscevichi, e nella sostanza al fatto che la rivoluzione proletaria non può non essere, e in Russia è, una “rivoluzione della maggioranza”. Ma ancor più importante, per il G., è la forza che anche il proletariato italiano ha conquistato come “riflesso della “forza” del proletariato russo” (ibid., p. 131). Quest’ultimo a sua volta può contare sulla solidarietà del proletariato internazionale e ciò induce il G. a condividere, ben prima dell’ottobre, la posizione di Lenin, che ritiene possibile una rivoluzione socialista nella Russia arretrata (ibid., pp. 138-141).
Il nesso genetico fra la guerra e la Rivoluzione russa è analizzato in modo puntuale, il 25 luglio 1918, in polemica con F. Turati. “La guerra è stata la condizione economica, il sistema di vita che ha determinato lo Stato nuovo, che ha sostanziato di necessità la dittatura del proletariato: la guerra che la Russia arretrata ha dovuto combattere nelle stesse forme degli Stati capitalistici più progrediti” (Il nostro Marx, p. 207). Perciò, quando i bolscevichi assumono il potere il G. scrive il celebre articolo La rivoluzione contro il “Capitale” (1° dic. 1917), nel quale dà una giustificazione storica dell’evento basata su una interpretazione di Marx che annuncia i futuri sviluppi della filosofia della praxis. Osando la conquista del potere in un paese che non aveva ancora conosciuto lo sviluppo capitalistico, i bolscevichi avevano certamente ignorato le previsioni di Marx. Ma Marx, scrive il G., “ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto”. Quindi i “massimalisti russi” avevano rinnegato la scolastica marxista (e le incrostazioni positivistiche presenti nel Capitale), ma non lo spirito del materialismo storico, il “pensiero immortale di Marx” continuatore, secondo la lezione di B. Spaventa, dell’idealismo italiano e tedesco, che “pone come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo” (La Città futura, p. 514).
Nella Russia arretrata i compiti del potere sovietico non consistono nella instaurazione del socialismo, bensì nella creazione delle condizioni giuridiche e politiche necessarie a preparare la società al socialismo, chiamando “all’esercizio della sovranità statale tutti gli uomini, e all’esercizio della sovranità della produzione quelli che producono” (ibid., p. 537). Quindi, quando il 19 genn. 1918 il comitato esecutivo sovietico panrusso sciolse per decreto l’Assemblea costituente e trasferì il potere ai soviet, il G. considerò la situazione che così si creava una forma necessaria ma provvisoria di dittatura, volta a “permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche necessità”, e pertanto lo valutò come “un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente [aveva] dovuto assumere” (ibid., p. 603). Naturalmente, al pari di Lenin, egli pensava che la Rivoluzione russa si sarebbe “salvata” e avrebbe potuto “svilupparsi nelle vie del comunismo integrale” solo se e quando “il mondo intero, o almeno le nazioni del mondo che ne determinano la vita intensa nella produzione e negli scambi, abbiano instaurato il regime dei Soviet” (Il nostro Marx, p. 470). Con quell’atto i bolscevichi separavano le loro sorti da quelle del socialismo europeo e il G., condividendolo, non solo portava a compimento la sua rottura con la corrente riformista, ma avviava anche il suo distacco dalla maggioranza “intransigente” del PSI.
La ricerca di un nuovo programma si salda, nel G., all’analisi del raggruppamento delle forze e dei nuovi movimenti politici originati in Italia dalla guerra. Fra questi egli dedica attenzione innanzi tutto allo “sviluppo del nazionalismo”, nel quale ravvisa “il sorgere della classe borghese come organismo combattivo e cosciente”.
Ma il nazionalismo manifesta gli stessi limiti “corporativi” della borghesia italiana, identifica gli interessi ristretti di alcuni gruppi industriali con gli interessi della nazione e perciò corrisponde a quello che, nel movimento operaio, rappresentano i riformisti (La Città futura, pp. 481-483). Per il G. la forma classica dell’egemonia borghese è il liberalismo, espressione della consapevolezza della borghesia di essere al tempo stesso una “classe economica” e una “classe storica”, nazionale e internazionale. L’orizzonte del nuovo movimento è invece il “nazionalismo economico”, travestimento appena mascherato del vecchio “protezionismo” che cerca la “collaborazione di classe” con i gruppi operai “privilegiati”, ma non può riuscire nell’intento sia perché il proletariato italiano è saldamente schierato su posizioni “intransigenti” (è anch’esso consapevole di essere una “classe economica” e una “classe storica”, nazionale e internazionale), sia perché, per espandersi oltre il mercato interno, ha “necessità di guerre e di conquiste coloniali” (ibid., pp. 598-601).
Di ben altro rilievo gli appare la nascita del Partito popolare italiano (PPI), “il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento”. Essa acquista significati molteplici.
Sembra, infatti, poter portare a conclusione la “questione romana” segnando la sconfitta del liberalismo italiano che, per debolezza intrinseca e per la presenza del Vaticano, non era mai riuscito a inquadrare in uno Stato laico moderno le masse popolari controllate dalla Chiesa. Ma, per altro verso, la nascita del PPI è anche un risultato del processo di secolarizzazione originato dallo sviluppo capitalistico e accelerato dalla guerra, al quale la Chiesa cattolica non può più resistere come nel passato. Essa testimonia, dunque, che anche in Italia, così come era avvenuto altrove, “il mito religioso […] si dissolve, si laicizza, rinunciando alla sua universalità, per diventare volontà pratica di un particolare ceto borghese” (Il nostro Marx, pp. 455-460).
Dal canto suo il campo delle forze liberali non è immobile. Alla fine del 1918 il mutamento di indirizzo della Gazzetta di Torino, da protezionistico a liberista, viene letto dal G. come il prodromo del formarsi di un nuovo blocco fra gli industriali meccanici del Nord e gli agricoltori meridionali al fine di emarginare definitivamente il blocco giolittiano. Sicché “si profila per il dopoguerra una formidabile lotta fra i grandi ceti borghesi italiani” che evoca quella avvenuta in Inghilterra fra industriali e agrari circa un secolo prima, a parti rovesciate (ibid., pp. 68 s.).
All’evoluzione della nomenclatura dei partiti borghesi i socialisti guardano con interesse; ma, per favorirla, il loro unico compito è quello di sviluppare l’organizzazione autonoma del proletariato e di negare, anche alla borghesia liberista, qualsiasi collaborazione. Il nesso fra “intransigenza” e “liberismo” si chiarisce, dunque, in una prospettiva rivoluzionaria: “gli intransigenti sono liberisti” perché la libertà economica crea le premesse della crescita e dell’organizzazione del proletariato. Con espressione solo all’apparenza paradossale egli scrive: “Il socialismo rivoluzionario è il liberismo del proletariato” (ibid., pp. 36 s.).
L’unità di classe vertebra l’unità della nazione. La nazione “non è un’astratta entità metafisica, ma concreta lotta politica di individui associati per il raggiungimento di un fine” (La Città futura, p. 761).
In Italia non è stata la borghesia liberale a creare l’unità della nazione, ma il socialismo perché solo con la sua nascita, agli inizi del XX secolo, “una parte del popolo si è unificata intorno ad un’idea, ad un programma unico”. Esso “ha fatto sì che un contadino di Puglia e un operaio del biellese parlassero” lo stesso linguaggio politico. Il socialismo, dunque, ha svolto anche il compito che nelle nazioni più progredite aveva svolto il liberalismo, e questo costituisce il titolo non ultimo della sua legittimazione a guidare il paese (ibid., pp. 350 s.).
L’8 genn. 1918 W. Wilson aveva formulato in “14 punti” il suo piano di pace e il progetto della Società delle Nazioni. Dinanzi all’opinione pubblica di tutti i paesi gli Stati Uniti assurgevano al rango di nuova potenza egemonica mondiale e il G. coglie subito il valore progressivo della nuova “struttura del mondo” che essi tendono a creare.
L’ideologia wilsoniana, egli scrive, “è il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessità degli scambi internazionali”, “rappresenta un conguagliamento della politica con l’economia” e la volontà di costituire un “grande Stato borghese supernazionale” che crei l’ambiente favorevole alla unificazione e integrazione del mercato mondiale (ibid., p. 571). La base del progetto wilsoniano è il “riconoscimento giuridico” “delle interdipendenze capitalistiche createsi fra i vari mercati nazionali”; quindi “è utile ai fini della rivoluzione sociale” (ibid., p. 696). “Nel sommovimento ideale provocato dalla guerra” si sono dunque rivelate “due forze nuove: il presidente Wilson, i massimalisti russi. Essi rappresentano l’estremo anello logico delle ideologie borghesi e proletarie” (ibid., p. 691).
Questo gli fa prevedere che “il fenomeno nuovo che caratterizzerà la storia del secolo XX sarà con tutta probabilità il riavvicinamento degli Stati Uniti all’Inghilterra [con] la costituzione di una federazione […] che dominerà e sottoporrà al suo controllo i mari di tutto il mondo”. Le nazioni latine ne saranno travolte, saranno costrette a “liberarsi dalla forma capitalistica” protezionistica e statolatrica che in esse predomina e diventeranno “satelliti della nuova formidabile forza storica che si sta costruendo”. Il G. giudica che ciò sia “un bene”. D’altro canto, la pace “forse sarà assicurata proprio da questo costituirsi di una immane potenza, contro cui ogni altra sarebbe debole e si frangerebbe nel cozzo” (Il nostro Marx, pp. 175 s.). L’unificazione del mondo sulla base di un progetto liberale guidato dagli Stati Uniti accelera dunque lo sviluppo dell’Internazionale e prepara le condizioni obiettive del suo avvento (ibid., p. 315). Il progetto della Società delle Nazioni è anche una risposta alla Rivoluzione d’ottobre e ai principî di politica internazionale propagandati dai bolscevichi. In una prospettiva di lungo periodo, quindi, gli Stati Uniti “sono forse la più grande forza della storia moderna del mondo”, ma solo “dopo la Russia”, poiché ora l'”iniziativa storica” è nelle mani del proletariato (ibid., pp. 156 s.).
Stride con questo giudizio l’affermazione che il socialismo rivoluzionario non ha e non può avere una politica estera poiché questa si basa sulla perpetuazione degli Stati (La Città futura, p. 695). In realtà nelle riflessioni del G. si riverbera una contraddizione in cui il movimento comunista s’imbatte fin dall’inizio: quella derivante dalla difficoltà di definire l’internazionalismo di fronte alla necessità di conservare e difendere lo Stato in cui il proletariato ha conquistato il potere. Infatti, da un lato il G. afferma che “con lo stabilirsi di una repubblica socialista nel mondo, i proletariati nazionali hanno cominciato ad avere una politica estera propria”; dall’altro, però, questa coincide con “i problemi inerenti all’esistenza e al libero sviluppo di questo primo nucleo dell’organizzazione collettivistica del mondo” (Il nostro Marx, p. 464). Nelle relazioni internazionali la contraddizione si manifesta nel fatto che, se il riconoscimento della Russia sovietica da parte degli Angloamericani inaugurerà una fase di “convivenza pacifica” fra essa e gli altri Stati del mondo, dal canto suo la Repubblica dei soviet si potrà integrare in un nuovo ordine internazionale solo “quando nel resto del mondo il proletariato avrà attuato la sua dittatura politica” (ibid., pp. 509-511).
A ogni modo, perché questo progetto si concretizzi sono necessari tanto la creazione di nuovi organismi che, come i soviet, realizzino l’autonomia sociale del proletariato, quanto un nuovo tipo di partito che non potrà essere, come era il PSI, l’organizzazione federativa del ceto politico selezionato su basi concorrentistiche nel gruppo parlamentare, ai vertici della Confederazione generale del lavoro, e nelle federazioni provinciali.
Quando, sull’esempio della Rivoluzione russa, il G. individua nel soviet l’organo della trasformazione socialista, il punto di rottura con il massimalismo italiano è già delineato. Nel settembre 1917 in polemica con C. Treves – ma il discorso investe tutta la tradizione socialista – egli definì il partito una parte della classe operaia (La Città futura, p. 332); questo fu, poi, il punto di rottura anche con A. Bordiga.
Infine, il G. riteneva necessario creare anche in Italia una associazione di cultura socialista che, sul modello della Fabian Society, promuovesse una “discussione profonda e diffusa dei problemi economici e morali che la vita impone o imporrà all’attenzione del proletariato”, saldando al movimento operaio “una gran parte del mondo intellettuale e universitario” (ibid., p. 499). Egli riprendeva così un tema che caratterizzò il suo modo di intendere la lotta per il socialismo fin dagli inizi: la necessità di prepararne le condizioni innanzi tutto sul terreno culturale.
Questa problematica era stata impostata nell’articolo Socialismo e cultura, del gennaio 1916, nel quale, sulla scia della Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, il G. attribuisce un valore emblematico al nesso fra l’Illuminismo e la Rivoluzione francese (Scritti giovanili, pp. 22-26). Rimase, quindi, un punto di riferimento costante e nei Quaderni sarà evocato come modello della “riforma intellettuale e morale”.
Questo primo lavoro di “traduzione in linguaggio storico nazionale” del bolscevismo condizionò anche il mutamento della concezione gramsciana del marxismo. Se nel gennaio 1918, ancora una volta in polemica con Treves, egli aveva affermato “che i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbono diventare ipoteca sul presente e sul futuro” (La Città futura, p. 556), un anno dopo, polemizzando con B. Giuliano, ne proponeva una definizione in cui è palese l’intento di recuperare la previsione storica e di elaborare una “scienza della politica” che saldi organicamente teoria e prassi.
“La dottrina del materialismo storico – scrive il G. – è l’organizzazione critica del sapere sulle necessità storiche che sostanziano il processo di sviluppo della società umana” (Il nostro Marx, p. 521). Si avviava così, anche sul terreno filosofico, il passaggio dalla lezione di Antonio Labriola a quella di Lenin.
Nell’aprile 1919, insieme con Togliatti, Tasca e U. Terracini, il G. fondò L’Ordine nuovo. Il settimanale, nato come rassegna di “cultura socialista”, si pubblicò fino al Natale del 1920, per cedere il passo, dal 1° genn. 1921, a L’Ordine nuovo quotidiano, primo organo del Partito comunista d’Italia (PCd’I, che nacque a Livorno il 21 dello stesso mese). Per quasi due anni la pubblicazione del settimanale assorbì tutte le energie del G. e, dopo pochi numeri, divenne una rivista di cultura politica di valore europeo, impegnata nella divulgazione degli scritti di Lenin e dei principali esponenti del bolscevismo, nello studio e nella discussione delle più significative esperienze del movimento rivoluzionario internazionale, in quel breve periodo in cui parve davvero che la Rivoluzione russa fosse il prodromo della rivoluzione mondiale.
Fin dagli anni della guerra Torino che, per il rapido sviluppo della FIAT aveva assunto la fisionomia di una delle città industriali più moderne d’Europa, era sede di una straordinaria concentrazione operaia ed era stata teatro (nel 1915 e nel 1917) di grandi scioperi insurrezionali. Il mito della Rivoluzione russa conquistò subito gli operai e l’ambiente socialista torinesi, e scopo de L’Ordine nuovo diventò ben presto quello di studiare le condizioni concrete della rivoluzione proletaria in Italia.
La rivista diventò così l’incubatrice del movimento dei consigli di fabbrica, variante italiana di quel movimento dei consigli che, fra il 1919 e il 1920, fu il protagonista delle esperienze rivoluzionarie e influenzò il movimento operaio in molte parti del mondo. Essa fu, quindi, anche il crogiuolo della trasformazione di un gruppo di intellettuali di grande levatura in dirigenti rivoluzionari dal profilo del tutto particolare. “Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonata al Soviet, che partecipi della sua natura?”. Da questa domanda esordiva la ricerca del G. e, dal settimo numero, la rivista ritenne di poter dare una risposta positiva studiando e rielaborando, fianco a fianco degli operai della FIAT, quel “germe di governo operaio” costituito dalle commissioni interne (L’Ordine nuovo, 1987, pp. 619 s.). I consigli che da esse ebbero vita furono cosa diversa sia dai soviet russi, sia dai Räte tedeschi e dalle altre esperienze consiliari del “biennio rosso”. Nell’attività de L’Ordine nuovo si delineava una visione della “rivoluzione proletaria”, il cui nucleo essenziale, il nesso fra produzione e politica (De Felice, 1971), va ben oltre le esperienze di quel biennio e imprime alla riflessione successiva del G. un carattere peculiare nella storia del comunismo, del socialismo e del marxismo.
La particolarità dei consigli di fabbrica torinesi scaturiva dal fine che il G. assegnava loro, cioè di realizzare “l’autonomia industriale” della classe operaia. Dal punto di vista organizzativo egli attingeva all’esperienza degli shop stewards inglesi e degli americani Industrial Workers of the World, oltre che naturalmente all’esperienza russa. La funzione dei consigli era ben distinta da quella del sindacato e del partito. A questo spettava la direzione politica del processo rivoluzionario e dello Stato, mentre al sindacato, che come compito ordinario conservava quello di tutelare gli interessi dei lavoratori salariati, dopo la conquista del potere sarebbe toccata la funzione di organizzarli per lo sviluppo dell’economia nazionale. Ma solo la rete dei consigli di fabbrica avrebbe consentito che la forza sociale egemone del processo rivoluzionario e della costruzione del nuovo Stato fosse il proletariato perché, se il sindacato e il partito erano associazioni volontarie, di carattere “privato”, la rete dei consigli, unificando l’insieme dei lavoratori sulla base delle loro funzioni produttive, era l’unico organismo che ne potesse imporre la volontà politica; era quindi un organismo “necessario” (non volontario), di natura pubblica come lo Stato, costituiva l’organo della “dittatura del proletariato” e la base dello “Stato dei Soviet”.
L’urgenza di organizzare tutta “la massa” degli operai dell’industria e dell’artigianato in consigli di delegati (di reparto, di industria e di circoscrizioni territoriali), al fine di realizzare il controllo permanente dei produttori sul processo lavorativo e sul processo di produzione, scaturiva dal carattere del “periodo storico”, dominato dall’attualità della rivoluzione proletaria. Il primo aspetto di essa, come abbiamo visto, consisteva nell’eccezionale mobilitazione delle masse provocata in tutto il mondo dalla guerra e nello sviluppo della soggettività dei popoli che poneva fine al vecchio ordine liberale (L’Ordine nuovo, 1987, pp. 3-6). Ma non meno decisivo era che la guerra avesse “irrimediabilmente rotto l’equilibrio mondiale della produzione capitalistica” (ibid., p. 303) e che la situazione internazionale creatasi nel dopoguerra impedisse la ricomposizione del mercato mondiale; in sintesi, l'”attualità della rivoluzione” scaturiva da un quadro della situazione mondiale estremamente drammatico e al tempo stesso dinamico, nel cui ambito al G. sembrava che solo sotto la guida del proletariato si potesse ricostruire l’unità dell’economia mondiale, naturalmente su nuove basi che avrebbero segnato l’avvento dell’Internazionale: l’economia mondiale ordinata “in un organismo unico, sottoposto ad una amministrazione internazionale che governa la ricchezza del globo in nome dell’intera umanità” (ibid., p. 536).
La classe operaia appariva dunque al G. come l’unica forza sociale in grado di salvare il mondo dalla catastrofe generata dalla guerra e di indicare una prospettiva, nazionalmente, alla dissoluzione dello Stato. A condizione, ovviamente, che essa venisse inquadrata in nuovi organismi che la rendessero consapevole della sua forza e della sua missione. Si poneva, cioè, il problema delle condizioni soggettive della rivoluzione proletaria; in questa prospettiva al G. sembrava che gli organismi individuati dall’Internazionale comunista, soviet e partito “di tipo nuovo”, si potessero riproporre ovunque nei paesi sviluppati grazie alla scissione fra capitalismo e industrialismo originata dal “sistema di fabbrica”. Essa costituiva il presupposto obiettivo tanto della generalizzazione dei consigli, quanto della costruzione dei partiti comunisti.
Inquadrato nei consigli l’operaio acquisiva consapevolezza dell’unitarietà del processo produttivo e dalla fabbrica poteva risalire all’economia nazionale (“che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione”) e ai suoi collegamenti internazionali, scoprendosene protagonista (ibid., p. 299).
Il G. procedeva quindi a specificare i termini dell'”attualità della rivoluzione” in Italia. Innanzi tutto, i consigli si rivelavano idonei a organizzare su basi rivoluzionarie non solo gli operai delle grandi fabbriche, ma anche i piccoli artigiani e i contadini poveri. Anche in Italia, come in Russia, la classe operaia poteva unire a sé le grandi masse contadine immesse dalla guerra sulla scena della storia e rivelarsi l’unica classe in grado di unificare il Nord e il Sud del paese, di mutare i termini della produzione e della distribuzione della ricchezza nazionale, di eliminare la debolezza interna e internazionale dell’organismo economico ereditato dal Risorgimento. Poteva determinarsi così l’avvento di una nuova classe dirigente (ibid., pp. 376-378).
Dal canto loro, le vecchie classi dominanti non erano in grado di indicare al paese una via che gli evitasse la riduzione allo stato di “colonia”, a cui il nuovo ordine internazionale del dopoguerra lo condannava. L’impresa di Fiume accelerava la decomposizione dello Stato. Le elezioni politiche del 1919, che videro la vittoria dei socialisti e dei popolari, avevano il valore di una costituente.
Con l’avvento del suffragio universale le vecchie classi dirigenti si mostravano incapaci di inquadrare le masse, divenute protagoniste della vita politica del paese, e l’affermazione dei grandi partiti popolari poneva fine al vecchio parlamentarismo. Sia per la borghesia capitalistica, il cui potere si concentrava nelle grandi banche, nelle grandi imprese e nei grandi giornali, sia per il proletariato e i ceti popolari, inquadrati nei sindacati, nei consigli e nei partiti di massa, l’organo di governo del paese non poteva essere più il vecchio Parlamento (ibid., pp. 439 s.). Sul piano generale, la polarizzazione delle classi contrapposte scuoteva l’interclassismo dei popolari che ora apparivano al G. destinati a svolgere il ruolo svolto in Russia da A.F. Kerenskij (ibid., pp. 272-274).
In risposta alla grande ondata di scioperi e di insubordinazione sociale, che ebbe il suo epicentro a Torino e in Piemonte con lo sciopero “delle lancette” (aprile 1920) e l’occupazione delle fabbriche (settembre 1920), procedeva velocemente una trasformazione autoritaria dello Stato e i grandi gruppi del capitalismo agrario e industriale favorivano lo sviluppo del movimento fascista, fondato da B. Mussolini il 23 marzo 1919 a Milano. Il G. ne individuava il fine principale nella disorganizzazione violenta del movimento operaio e nella instaurazione di uno Stato autoritario che ne impedisse permanentemente la riorganizzazione politica, assorbendo invece nei suoi quadri le organizzazioni sindacali (ibid., p. 766).
Nel congresso di Bologna (ottobre 1919) la maggioranza del PSI schierava il partito sulle posizioni dell’Internazionale comunista, ma esso rimaneva una formazione politica di tipo parlamentaristico e si rivelava incapace sia di procedere all’organizzazione rivoluzionaria delle masse, sia di dare uno sbocco alla crisi italiana. Di fronte alla complicità della borghesia capitalistica con i movimenti che, dall’impresa di Fiume allo squadrismo fascista, disgregavano violentemente l’unità dello Stato e della nazione, il G., all’epoca segretario della sezione socialista torinese, individuava, dunque, nel proletariato la sola classe nazionale, poiché “la moltitudine di operai e contadini […] non possono permettere il disgregamento della nazione, perché l’unità dello Stato è la forma dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano”. Ma tale funzione nazionale del proletariato poteva essere assolta solo in una prospettiva rivoluzionaria, cioè solo in quanto quello che “il lavoro italiano” aveva costruito costituisse “il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell’Internazionale comunista” (ibid., p. 233).
Si consumava così il distacco del G. (e del gruppo ordinovista) dalla “tradizione intransigente”. Per ovviare all’impotenza del socialismo italiano essi ritenevano necessario e urgente procedere alla fondazione del partito comunista. Il 21 ott. 1920 il G. sottoscriveva Il manifesto programma della sinistra del partito dando vita, insieme con N. Bombacci, Bordiga, B. Fortichiari, F. Misiano, L. Polano e Terracini, alla costituzione della “frazione comunista”. Il 18 dicembre, con l’articolo Scissione o sfacelo?, avvenne la rottura definitiva con Serrati e di lì a un mese, insieme con Bordiga, il G. promosse la scissione del PSI e la nascita del partito comunista.
Il Partito comunista d’Italia, al pari di molti altri partiti comunisti sorti in quel tempo per scissione dai partiti socialisti, era nato anche per forte sollecitazione del II congresso dell’Internazionale comunista, che a metà del 1920 considerava la rivoluzione proletaria in ascesa in Europa.
Sei mesi dopo la sua nascita, nelle tesi per il III congresso dell’Internazionale si registrava invece una brusca inversione di rotta. Prendendo atto delle sconfitte dell’Armata rossa in Polonia, del movimento rivoluzionario del settembre 1920 in Italia e dell’insurrezione degli operai tedeschi nel marzo 1921, l’Internazionale comunista mutava radicalmente l'”analisi di fase”. Cambiavano, quindi, i compiti dei partiti comunisti. Per usare le categorie gramsciane, il mutamento di fase si connotava come passaggio dalla “attualità della rivoluzione” alla “crisi organica” (Paggi, 1970) e il compito dei partiti comunisti diventava quello di unificare nazionalmente il proletariato, sottraendolo all’influenza largamente maggioritaria dei partiti socialisti e socialdemocratici. A tal fine il III congresso varava la “tattica di fronte unico” che i partiti comunisti dovevano seguire smascherando le élites riformiste con l’iniziativa “di massa”. Il PCd’I, impegnato in una lotta frontale contro tutte le altre correnti del PSI, si oppose, dunque, alla svolta del III congresso ed entrò in un conflitto con il Komintern (abbreviazione del russo Kommunističeskij Internacional, Internazionale comunista) che si sarebbe risolto solo con la successione del G. a Bordiga.
Nei primi due anni di vita del partito il G. non si era mai dissociato del tutto da Bordiga, né aveva accettato la proposta venutagli dal Komintern, nell’autunno 1922, di sostituirlo. Condivideva la limitazione della “tattica di fronte unico” alla sola azione sindacale. Per le condizioni in cui il PCd’I era sorto il G. considerava Bordiga insostituibile, sebbene fosse agli antipodi della sua forma mentis.
Egli diresse L’Ordine nuovo quotidiano fino al maggio 1922 quando fu inviato a Mosca per rappresentare il partito presso l’Internazionale. Ma anche a Mosca, dove trascorse lunghi mesi in sanatorio, fino alla metà del 1923 non si distaccò da Bordiga. L’opposizione del G. alla nuova tattica del Komintern era condizionata dalla visione del processo rivoluzionario maturata nel biennio 1919-20; il documento più significativo in tal senso è l’intervento all’esecutivo allargato del Komintern del giugno 1923, nel quale il G. si opponeva alla fusione con i “terzini” voluta dall’Internazionale comunista dopo la scissione dei riformisti.
Intanto, nell’agosto 1922, conclusi i lavori della II Conferenza dell’esecutivo allargato dell’Internazionale comunista, il G., nel sanatorio di Serebrjanyj Bor nelle vicinanze di Mosca, aveva incontrato Julija (Giulia, Jul´ka, Iulca) Schucht, sua futura moglie, da cui ebbe i due figli Delio e Giuliano.
Figlia di Apollon A. Schucht (un “nobile senza patrimonio”, oppositore antizarista, funzionario bolscevico e amico personale di Lenin), Giulia era nata nel 1896 a Ginevra e aveva studiato a Roma dove, nel 1915, si era diplomata in violino presso l’Accademia di S. Cecilia. Iscritta dal settembre 1917 al partito bolscevico, aveva partecipato, insieme con la famiglia, alla Rivoluzione d’ottobre e dal 1920 si era trasferita a Ivanovo-Voznesenk dove, al momento dell’incontro con il G., lavorava come segretaria di sezione della direzione del Sindacato dei lavoratori delle arti.
La relazione con la Schucht è uno dei capitoli più importanti della biografia gramsciana: tra il G. e la famiglia di lei si sviluppò nel tempo un legame destinato a essere parte rilevante del complesso intreccio di rapporti e di conflitti con il PCd’I, con il partito russo e con il Komintern che segnarono la vita del dirigente italiano nel carcere di Turi.
La “scelta larghissima” dei testi gramsciani raccolti nella prima edizione delle Lettere dal carcere, preparata da Togliatti con F. Platone, lasciava appena intuire i contorni di un rapporto matrimoniale e familiare che, anche a causa delle omissioni decise da Togliatti, appariva scandito e dolorosamente segnato dalla malattia e dalla lontananza di Giulia, mitigata dalla presenza assidua e affettuosa della sorella di lei Tatiana (Tania). Le successive edizioni delle lettere (Milano 1964; Torino 1965) restituivano il versante affettivo del rapporto con Giulia ma suscitavano interrogativi senza risposta sulle cause dei lunghi silenzi di lei negli anni del carcere che, come scrisse il G. nel 1931, avevano “contribuito ad aggravare il mio isolamento, facendomelo sentire più amaramente”. L’epistolario del G., i carteggi a esso correlati, le fonti testuali conservate negli archivi ex sovietici permettono oggi di documentare quell’intreccio indissolubile tra dimensione privata e dimensione politica che caratterizzò l’intera vicenda sentimentale e coniugale del Gramsci. Le differenze di carattere, di sensibilità, di modelli educativi e comportamentali – che si acuirono drammaticamente negli anni del carcere – sono evidenti fin dai primi tempi del rapporto e sono testimoniate dalle lettere del periodo 1922-26. Il nodo attorno al quale si complicò fin dall’inizio il dialogo con Giulia era determinato dall’incapacità del G. di tenere separate la sfera affettiva e quella intellettiva, e dalla scelta di individuare il punto di forza del rapporto affettivo con la moglie nella condivisione del lavoro intellettuale e politico. Da Giulia, invece, questo atteggiamento era sofferto come una intollerabile coercizione alla sua volontà, un impedimento allo sviluppo libero e autonomo della sua personalità.
Ma furono gli incarichi di lei nelle strutture del partito russo, in particolare il lavoro svolto in quelle della polizia politica dal 1924, a determinare quei condizionamenti al rapporto sentimentale – per esempio l’impossibilità di vivere insieme a Vienna – dei quali, fino al novembre 1926, il G. e Giulia ebbero piena consapevolezza, considerandoli limitazioni imposte dal lavoro politico alla vita privata che comunque venivano accettate. Solo nel 1930 – dopo che erano intervenuti il fallimento di alcuni tentativi di liberazione attraverso uno scambio di prigionieri fra il governo sovietico e quello italiano e la svolta imposta alla linea del partito italiano dal VI congresso e dal X plenum dell’Internazionale comunista – i primi sospetti del G. sul comportamento del partito italiano si saldarono all’intuizione dell’esistenza di difficoltà diverse dalla malattia nella corrispondenza della moglie. Nel maggio, egli affrontava apertamente l’argomento in una lettera a Tatiana. Le rassicurazioni contenute nelle lettere della cognata saranno una conferma indiretta dei sospetti del G.; da Tatiana soprattutto arrivò la rivelazione dell’ostilità violenta manifestata dalla maggiore delle sorelle Schucht, Eugenia, nei confronti del legame coniugale di Giulia. Il G. scoprì così uno scenario insospettato dei rapporti familiari a Mosca, determinato – come suggeriscono le nuove fonti documentarie – non tanto dalla acritica condivisione delle accuse politiche contro di lui che circolavano negli ambienti del Komintern e del partito russo, quanto dal timore degli Schucht di vedere accresciute le difficoltà che si trovavano ad affrontare nella Russia staliniana a causa dei rapporti politici e di amicizia che li avevano legati a Lenin e alla sua famiglia. Pur a conoscenza delle difficoltà e dei pesanti condizionamenti ai quali erano sottoposti Giulia e i suoi familiari a Mosca, solo dal febbraio 1933 il G. collegò apertamente lo stato dei rapporti con Giulia alla coscienza di essere ormai ai margini del partito ed espresse i sospetti sul legame strettissimo tra questo stato di cose e l’agire della moglie. Nonostante la lontananza, i silenzi, i sospetti, il G. non manifestò la volontà di distaccarsi da Giulia: tra le carte che riguardano l’ultimo anno della sua vita è presente la minuta, manoscritta da P. Sraffa, datata 18 apr. 1937, della domanda che, una volta libero, egli avrebbe indirizzato alle autorità italiane, chiedendo di poter espatriare in Unione Sovietica per ricongiungersi con Giulia e con i figli.
Nel maggio 1923, da Mosca, il G. avviava un carteggio con Togliatti, Terracini e Scoccimarro con l’intento di formare, intorno al vecchio nucleo “ordinovista”, un nuovo gruppo dirigente del partito. Cominciava così il suo impegno di direzione politica, interrotto dall’arresto l’8 nov. 1926.
Ai partiti comunisti nazionali, nella nuova congiuntura di relativa stabilità, era assegnato il compito di inquadrare nazionalmente la classe operaia e di raccogliere le forze in attesa di una nuova ondata rivoluzionaria. Era maturata la consapevolezza che, quand’anche questa avesse assunto l’irruenza e la simultaneità del dopoguerra, avrebbe presentato problemi nuovi e diversi in ciascun paese, e ciò domandava ai partiti comunisti la capacità di divenire un fattore attivo della politica nazionale e di conoscere a fondo le particolarità dello sviluppo capitalistico e della struttura del potere nei rispettivi paesi. Nell’Internazionale il rifiuto della “tattica di fronte unico” aveva condotto il PCd’I in un vicolo cieco: esso era schierato con la minoranza di sinistra del Komintern e Bordiga mirava a farne il centro propulsore di essa. L’Internazionale comunista non poteva fare altro che cercare di “spezzargli le reni” (Gramsci). D’altro canto, l’assoluta mancanza d’iniziativa della direzione bordighiana aveva ridotto il partito al ruolo di “frazione esterna” del PSI, senza alcuna prospettiva. Nella situazione creata dal fascismo tale condizione era insostenibile. Per contro, in una fase di “stabilizzazione relativa” del capitalismo il G. ora riconosceva nel “fronte unico” la sola tattica che consentisse al partito di perseguire una linea di massa e di sviluppare un’iniziativa politica. La revisione, quindi, andava portata a fondo, fino a mettere in discussione le modalità della scissione di Livorno. Ripensata dal punto di vista internazionale, essa era consistita nel “distacco della maggioranza del proletariato italiano dall’Internazionale comunista” e aveva favorito “il più grande trionfo della reazione” (Togliatti, La formazione del gruppo dirigente…, p. 102). Dal punto di vista nazionale “fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana” (ibid., p. 357).
D’altro canto, il centralismo del Komintern e l’inevitabile predominio in esso del gruppo dirigente russo facevano sì che la “tattica di fronte unico” avesse assunto caratteri astrattamente normativi, che non avevano aiutato i partiti comunisti a diventare fattori attivi della politica nazionale. Essi invece dovevano procedere a una “ricognizione nazionale” delle condizioni della rivoluzione proletaria e questo era un compito assolutamente autonomo di cui ciascun partito era responsabile. A tal fine il G. fissava innanzi tutto le differenze fra la Rivoluzione russa e la rivoluzione italiana, inserendole in una riflessione più ampia sulle differenze morfologiche fra Oriente e Occidente. Riprendendo il filo della sua riflessione sul nesso fra produzione e politica il 9 febbr. 1924, da Vienna – dove era giunto, proveniente da Mosca, nel dicembre 1923 -, scriveva a Togliatti e Terracini: “La determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e prudente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre 1917” (ibid., p. 197). Era posto così un tema che avrebbe avuto il più ampio sviluppo nei Quaderni, quello del passaggio dalla “guerra manovrata”, che aveva avuto un’applicazione vittoriosa in Russia, alla “guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente”.
Il mutamento di paradigma poneva al partito la necessità di elaborare una propria visione della storia d’Italia e di studiare i modi in cui si era formata e operava l’egemonia della borghesia capitalistica. Naturalmente questo studio era indisgiungibile dallo sviluppo dell’azione politica. Il fascismo al potere non era ancora consolidato, ma procedeva velocemente nell’instaurazione – prima esperienza europea del dopoguerra – di un regime autoritario di nuovo tipo. Questo creava “un dilemma molto crudo e tagliente: quello della rivoluzione in permanenza e della impossibilità non solo di cambiar forma allo Stato, ma semplicemente di mutar governo altro che con la forza armata” (ibid., pp. 152 s.). A tal fine il G. si proponeva di definire il campo di azione del partito attraverso lo studio della società italiana e individuava nel Mezzogiorno la parte del paese più duramente sacrificata dal fascismo, che pertanto sarebbe potuta diventare la sua “fossa” oppure “il maggior serbatoio e la piazza d’armi della reazione nazionale e internazionale” (ibid., p. 201).
Quindi il G. si domandava se la parola d’ordine del “governo operaio e contadino”, che il Komintern aveva lanciato come traduzione operativa della “tattica di fronte unico”, ma che finora non aveva avuto determinazioni concrete, non dovesse essere adattata alla situazione italiana e riformulata in quella di “Repubblica federativa degli operai e dei contadini”, prevedendo la “possibilità di fare alcune concessioni di carattere politico a queste popolazioni” (ibid., p. 225).
A ogni modo, la questione meridionale doveva diventare il centro del programma del partito e, sia per conoscere meglio l’Italia, sia per dare plastica evidenza alla “funzione nazionale” che esso intendeva far assolvere alla classe operaia, nel gennaio 1924 il G. fondò un nuovo quotidiano scegliendo come testata l’Unità (sottotitolo, “giornale degli operai e dei contadini”).
Per combattere il fascismo era necessario seguirne attentamente le crisi interne, gli spostamenti e le lotte che si sviluppavano fra le sue componenti, e saper trovare punti di contatto con le altre forze antifasciste. A tal fine, nel marzo 1924, il G. proponeva al partito di far propria la parola d’ordine dell’Assemblea costituente, sostenuta dal movimento politico diretto da Giovanni Amendola, e poneva il problema della lotta per la democrazia (ibid., pp. 245 s.). Naturalmente, essa rimaneva iscritta in una prospettiva rivoluzionaria, volta, cioè, a creare le condizioni della “dittatura del proletariato”.
Adeguando la precedente interpretazione antigiacobina di questa formula alla situazione attuale, il G. prevedeva che, anche alla ripresa di una fase rivoluzionaria (che nel febbraio 1924 egli riteneva possibile a breve), il PCd’I sarebbe stato “ancora minoranza, che la maggioranza della classe operaia” avrebbe seguito i riformisti “e che i borghesi democratici liberali” avrebbero avuto “ancora da dire molte parole”. Quindi, diversamente dalla Russia del 1917, in Italia la “rivoluzione in permanenza” sarebbe stata un periodo denso di “fasi intermedie”, nel quale avrebbe avuto “il sopravvento quel partito che meglio [avesse] capito questo processo necessario di transizione” (ibid., pp. 200, 246).
Nelle elezioni del 6 apr. 1924 il G. fu eletto deputato nel Veneto e in maggio rientrò da Vienna in Italia. In agosto fu eletto segretario dal comitato centrale del partito, nel pieno della crisi Matteotti. Il suo maggior impegno fu quello di avviare, sulla linea del V congresso del Komintern (giugno 1924), la “bolscevizzazione” del partito, cioè la sua riorganizzazione sulla base di cellule di fabbrica, e di costituire un organismo per la sua penetrazione fra i contadini. Al tempo stesso egli conduceva il partito a distinguersi dal blocco delle opposizioni aventiniane con la proposta che esse si costituissero in “antiparlamento” e lottassero per ottenere il disarmo delle camicie nere e abbattere il governo con la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre, il PCd’I proponeva di armare il proletariato e lanciava la parola d’ordine di un “governo operaio e contadino”. L’Aventino si risolse in un fallimento, il PCd’I restò isolato sulle sue posizioni e nel gennaio 1925 la crisi Matteotti si chiuse con il rafforzamento del regime.
Il maggior impegno del G. fu quindi quello di sconfiggere le posizioni bordighiane, che erano ancora molto radicate nel partito, di inserire i “terzini” che in agosto, Serrati per primo, vi erano confluiti e di preparare, in condizioni di quasi completa illegalità, il III congresso del PCd’I che si tenne a Lione nel gennaio 1926.
Le “tesi di Lione” costituiscono un documento singolare nella letteratura dei partiti. Nella prima parte esse contengono un vero e proprio saggio, sia pure sintetico, sulla storia politica italiana dall’Unità in poi e un abbozzo di analisi della “struttura della società italiana”. La loro originalità era nell’assunzione della questione meridionale come tema centrale del programma del partito. La “funzione nazionale” della classe operaia veniva quindi individuata nella capacità di risolvere il problema del dualismo italiano, dando al paese quella solida unità che la borghesia capitalistica non era riuscita a creare e avviando a soluzione il problema della sua debole competitività internazionale. La chiave di volta era indicata nell’alleanza fra gli operai del Nord e i contadini del Sud. Infatti, il G. rivendicava a merito del PCd’I l’aver compreso, diversamente dal partito socialista, che “i contadini meridionali [erano], dopo il proletariato industriale e agricolo del Nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana” (La costruzione del partito comunista, p. 10). A questa conclusione egli giungeva sulla base di un’analisi dello sviluppo capitalistico italiano secondo la quale “economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come un’immensa campagna di fronte all’Italia del Nord, che funziona come un’immensa città”. Nell’Italia meridionale questo determinava “il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una questione nazionale”. Vale a dire, il Mezzogiorno fungeva da “colonia” interna del capitalismo italiano e, come nelle rivoluzioni anticoloniali, la liberazione dei contadini meridionali poteva raggiungersi soltanto attraverso un’alleanza con il proletariato industriale del Nord volta a determinare un mutamento delle classi dominanti e della classe dirigente.
Queste linee d’analisi scaturivano dall’approfondimento dell’indagine sul fascismo, che per un verso veniva considerato il continuatore del blocco protezionista e nordista che aveva dominato l’Italia dall’Unità in poi, e per l’altro presentava significative novità. Esse erano individuate nella base di massa del Partito nazionale fascista (PNF), costituita dalla piccola borghesia inquadrata per la prima volta in una formazione politica unitaria, e nella necessità di procedere a una trasformazione autoritaria dello Stato, basata sulla identificazione di Stato, governo e partito unico.
Il 1926 segnò una ripresa della crisi economica e in Europa fu un anno di grandi sommovimenti operai, a cominciare dal lungo sciopero generale inglese. Questo indusse il G. a ipotizzare che il periodo della “stabilizzazione relativa” stesse per terminare. Tuttavia, anticipando un tema che avrebbe approfondito nei Quaderni, egli rifiutava l’idea che le crisi economiche potessero generare una situazione rivoluzionaria paragonabile a quella del 1917.
Nei paesi periferici dello sviluppo capitalistico, fra i quali vi era l’Italia, la capacità di resistenza dello Stato era indebolita dalla presenza di “un largo strato di classi intermedie” capaci di influenzare politicamente e ideologicamente larghi strati del proletariato e soprattutto le masse contadine, ma a loro volta influenzabili da questi qualora si fossero mostrati capaci di “iniziativa storica”. Dinanzi al riemergere della crisi economica si poneva quindi il problema di saldare lotta al fascismo e lotta al capitalismo elaborando obiettivi politici “intermedi” e creando nuove forme di organizzazione. Nelle tesi di Lione essi erano sintetizzati nella parola d’ordine: “Assemblea repubblicana sulla base di Comitati operai e contadini; controllo operaio sull’industria; terra ai contadini” (La costruzione…, p. 520). Si delineava così una politica di alleanze molto ampia, con la quale però stridevano sia l’idea che il partito comunista dovesse essere il partito di “una sola classe” (il proletariato industriale), sia la sua contrapposizione a tutti gli altri partiti, anche di sinistra e di centro, considerati a vario titolo tutti “reazionari” e compromessi col fascismo. La “fase intermedia” doveva essere condotta in modo da disgregare le forze politiche alleate mostrandone i limiti e le incongruenze nella opposizione al fascismo. Rispetto alla complessa articolazione analitica delle forze sociali e della forze politiche, la previsione di poter sottrarre loro il consenso “smascherandone” i capi era quanto mai improbabile.
L'”egemonia del proletariato”, categoria centrale nel dibattito interno al gruppo dirigente bolscevico fra 1923 e 1924, assunta dal G. per procedere alla bolscevizzazione del partito, esigeva ben altri approfondimenti. In particolare, andava approfondito il tema delle “superstrutture complesse” che facevano la principale differenza fra Oriente e Occidente, e fra gli stessi paesi capitalistici. Emergeva con forza “la quistione politica degli intellettuali” e non a caso, data la conformazione dello Stato italiano, il tema veniva affrontato per la prima volta nello scritto sulla questione meridionale. Elaborato nei mesi che precedettero immediatamente l’arresto del G. e rimasto incompiuto, esso fu pubblicato per la prima volta a Parigi, nel gennaio 1930, su Lo Stato operaio con il titolo redazionale Alcuni temi della quistione meridionale.
Il saggio ricapitolava l’elaborazione del decennio precedente e fissava alcune linee di un nuovo “programma di ricerca” che venne poi sviluppato nei Quaderni. Tutto lo scritto ruota attorno al ruolo degli intellettuali come figure di collegamento fra le masse, l’organizzazione dell’economia e dello Stato. Ma l’attenzione è rivolta soprattutto al Mezzogiorno che nelle sue caratteristiche generali viene descritto come “una grande disgregazione sociale”, dominata da un “blocco agrario” nel quale predominano i grandi proprietari terrieri. Lo strato intellettuale intermedio, che fornisce a tutta l’Italia il personale statale, proviene principalmente dalla piccole borghesia rurale e assolve il ruolo di subordinare le masse contadine al blocco agrario. Questo è di natura stazionaria e, alleato alla borghesia industriale del Nord, le consente di dominare la vita economica e di governare il paese. Infatti, la piccola borghesia intellettuale assolve una funzione reazionaria nella faccia rivolta verso lo Stato, ma è anche influenzata dalle pulsioni radicali che percorrono il mondo contadino e gli strati popolari poiché è legata a essi dalle sue funzioni professionali e politiche. I principali esponenti del “blocco intellettuale” sono G. Fortunato e B. Croce, i quali, perciò, possono essere giudicati come “i reazionari più operosi della penisola”. Poiché la centralizzazione del blocco agrario avviene soprattutto “nel campo ideologico”, essi rappresentano “le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana”; essi guidano spiritualmente la massa degli intellettuali intermedi e in tale veste hanno “compiuto una altissima funzione “nazionale” distaccando “gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea” e facendoli così “assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario”. Per disgregare quest’ultimo il proletariato, che “come classe è povero di elementi organizzativi”, deve formare “un proprio strato di intellettuali […]. Ma è anche importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico” e si formi “una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario”. Sotto questo profilo il G. considera emblematica la figura di P. Gobetti. Fondamentale sarebbe dunque “disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario” (ibid., pp. 150, 156-158). Veniva impostato così un tema centrale del programma dei Quaderni: quello dell'”anti-Croce”.
Nella primavera 1926 la lotta per il potere nel gruppo dirigente bolscevico raggiunse l’acme. In luglio, in una drammatica riunione del comitato centrale del partito comunista russo, si consumò lo scontro decisivo fra il blocco delle opposizioni, guidato da L.D. Trockij, e la maggioranza del partito raccolta intorno a I.V. Stalin e a N.I. Bucharin. Fin dal 1925 nell’Internazionale comunista si era convenuto che le lotte di fazione del partito russo non venissero trasferite negli altri partiti comunisti e questi non ne venissero coinvolti. Ma nell’estate 1926 la maggioranza di Stalin e Bucharin rompeva questo accordo e chiedeva agli altri partiti di prendere posizione sulle “questioni russe”. Da Mosca, dove dal febbraio 1926 rappresentava il PCd’I nell’esecutivo dell’Internazionale, Togliatti sollecitò il comitato centrale del partito italiano a pronunciarsi. Ma questo si limitò ad approvare a fine luglio la destituzione di G.E. Zinov´ev da presidente dell’Internazionale comunista in quanto era motivata da ragioni disciplinari, mentre si rifiutò di prendere posizione sui contenuti dello scontro fra maggioranza e minoranza. Sempre più allarmato per il profilarsi di una rottura definitiva del gruppo dirigente bolscevico, l’ufficio politico del PCd’I scelse una forma di pronunciamento irrituale: incaricò il G. di scrivere una lettera al comitato centrale del partito comunista dell’URSS per esprimere, sì, un’adesione alla linea della maggioranza, ma anche per manifestare la sua preoccupazione per quanto stava accadendo e invitare tutte le fazioni a evitare la rottura.
A Mosca Togliatti giudicò la lettera “inopportuna” e chiese al comitato direttivo del PCd’I di autorizzarlo a sospenderne l’inoltro in attesa dell’esecutivo allargato del Komintern che si sarebbe riunito in novembre per discutere le “questioni russe”. Inoltre, annunciava l’invio di J. Humbert-Droz, delegato dell’esecutivo dell’Internazionale, alla riunione del comitato centrale del PCd’I, già convocata per i primi di novembre, perché esso potesse ricevere tutte le informazioni necessarie per pronunciarsi.
Il comitato direttivo autorizzò Togliatti a sospendere l’inoltro della lettera, ma il G. rimase fermo sulle sue posizioni. Il 1° novembre, alla presenza di Humbert-Droz, il comitato centrale si riunì clandestinamente in una località della Valpolcevera, nei pressi di Genova, e aderì alle richieste della maggioranza del partito bolscevico. Ma il G. non poté partecipare alla riunione perché, riconosciuto dalla polizia mentre vi si recava, rientrò a Roma, dove l’8 novembre venne arrestato.
Ai vertici del partito sovietico la sua lettera aveva creato il sospetto che il PCd’I potesse passare sulle posizioni di Trockij e da allora quella lettera fu il pretesto di recriminazioni e di accuse di “oscillazioni” reiterate più volte dal Komintern contro il PCd’I fra 1929 e 1938. Il sospetto nasceva dalle motivazioni che il G. aveva addotto a sostegno dell’appello a non rompere l’unità del partito: egli ravvisava il rischio che, dividendosi irreparabilmente il “vecchio nucleo bolscevico”, venisse meno il centro dirigente dell’Internazionale e l’intero “partito mondiale dei lavoratori” si disgregasse. Quindi, sebbene dichiarasse di condividere le posizioni della maggioranza e rivolgesse le sue critiche all’opposizione, sul punto cruciale che riguardava le sorti della rivoluzione mondiale il G. poneva sullo stesso piano le responsabilità della minoranza e della maggioranza.
In realtà il sostegno dato alle posizioni della maggioranza non poteva nascondere più di tanto l’avversione del G. per la linea del “socialismo in un solo paese”, che anche le opposizioni russe contrastavano. L’opposizione del G., però, aveva motivazioni sue proprie: come si è detto, nel corso del 1926 egli era giunto a mettere in discussione il concetto di “stabilizzazione relativa” sul quale il gruppo staliniano basava le sue scelte. Il carteggio fra il centro del PCd’I e Togliatti, dal mese di marzo in poi, documenta come, nell'”analisi di fase” e nel modo di concepire la “stabilizzazione relativa”, si fossero generate differenze significative anche fra lui e il G., fissate poi nel carteggio dell’ottobre.
Dopo un breve periodo di confino a Ustica, dove insieme con Bordiga diede vita a una scuola per i confinati politici, fu deferito al Tribunale speciale per la difesa dello Stato e avviato alle carceri milanesi di S. Vittore (ove rimase dal 7 febbr. 1927 all’11 maggio 1928); il processo iniziò a Roma il 28 maggio e, il 4 giugno 1928, il G. venne condannato a oltre venti anni di carcere. In luglio fu assegnato al reclusorio di Turi, in provincia di Bari, ove rimase fino al 19 nov. 1933 per essere poi ricoverato, dal 7 dicembre, in stato di detenzione, nella clinica del dottor G. Cusumano a Formia. Vi rimase fino al 24 ag. 1935, dal 25 ott. 1934 in libertà condizionata. Quindi fu trasferito alla clinica Quisisana di Roma, dove, appena riacquistata la piena libertà, la sera del 25 apr. 1937 venne colto da emorragia cerebrale.
Il G. morì a Roma il 27 apr. 1937.
Per sua volontà il corpo venne cremato e vi provvide il fratello Carlo; le ceneri vennero inumate al cimitero acattolico di Roma, dove si trovano tuttora.