Napòlide, di Erri De Luca, recensione di Loredana De Vita

Erri De Luca: Napòlide

Nel suo “Napòlide” (Dante & Descartes, 2022) Erri De Luca manifesta con lucidità la complessità della sua città di origine, Napoli, appunto, dalla quale è difficile staccarsi, ma altrettanto lo è tornarvi.
Una città la cui complessità, sia orizzontale che verticale, è rappresentata dalle pietre, dai vicoli, dalla città sotterranea, dal Vesuvio che sovrasta quanto dai suoi idoli, Totò, De Filippo, Maradona, quanto ancora da ogni singola persona che porta dentro di sé quello spirito duale -contento ma insoddisfatto, ferito ma arrogante, solo ma tracotante- che caratterizza l’anima di un popolo quanto quella di una città.
Allontanarsi procura dolore, ma anche un senso di liberazione da un peso troppo grande da sopportare, da un silenzio che sussurra per vicoli e strade, mercati, porti, l’angoscia di essere abbandonati, certo, ma, ancora di più, l’angoscia di essere prigioneri di se stessi.
Porsi a distanza aiuta a comprendere e valorizzare meglio, a dare un nome al sacrificio e al coraggio di chi la città la ama e vorrebbe ricompensarla per la sua bellezza infinita, figure che si stagliano all’orizzonte come quel Vulcano sul mare e sul cielo, presenti e pronte a esplodere o, immobili, a osservare il contrasto e i contrasti, i chiari e gli scuri cui nessuna parola può dare risposta né può spiegare.
La scrittura di Erri De Luca, come un torrente in piena, travolge ma lascia sospesi, forse perché a ciascuno è dovuto il diritto di scegliere e comprendere, di prendere le distanze senza smettere di amare, di sentirsi beati della bellezza ma non appagati del vuoto.
“Napòlide” (Dante & Descartes, 2022) di Erri De Luca è un libro piccolo da leggere con speditezza, ma che lascia dentro lo stesso pieno e il vuoto di una città che sembra rivelarsi ma che, nel difficile equilibrio del suo esporsi multiforme, poco di sé davvero narra a chi non sa ascoltare.