gli affamati e i sazi, di Timur Vermes, recensione di Loredana De Vita

“Gli affamati e i sazi” (Bompiani, 2022) di Timur Vermes non è un romanzo facile, ma non per la scrittura e lo stile che, anzi, sono scorrevoli e chiari, quanto per il tema, quanto mai attuale, trattato con una consapevolezza da togliere il fiato: la migrazione.
Il romanzo, che si presenta sin dalla breve nota introduttiva a cura dell’autore stesso come una “finzione”, suscita emozioni e reazioni così forti da rendere impossibile separare la fantasia dalla realtà. Se è finzione, non può trattarsi di ucronia, poichè le situazioni narrate non rappresentano realtà parallele né ipotetiche. Troppo reali sono gli eventi, troppo possibili le condizioni per immaginare una simulazione. Probabilmente, il genere della distopia si adatta meglio al contesto narrato, una proiezione in un futuro possibile del deterioramento causato dai mali del presente. Se di distopia si tratta, comunque, essa non è proiettabile in un futuro lontano, anzi, il futuro che si delinea è già presente.
Al di là di ogni definizione letteraria, questo romanzo è un richiamo forte alla responsabilità individuale rispetto non al fenomeno della migrazione in quanto tale, l’uomo è creatura migrante per natura, ma rispetto al comportamento personale dinanzi alla migrazione e ai migranti che non sono esseri invisibili e sovrapponibili, ma persone complete in sé. L’autore sta interrogando noi e non le motivazioni dei migranti. Quali sono le ragioni delle nostre paure, del rifiuto, del costituire un problema alla libertà di ciascun uomo di muoversi per trovare ciò che cerca nella propria esistenza? Vogliamo affiancarci agli affamati o vogliamo restare sempre e solo sazi?
Il titolo stesso del romanzo, “Gli affamati e i sazi”, è un richiamo fortissimo al titolo che Primo Levi diede al racconto della sia esperienza concentrazionaria, “I sommersi e i salvati”, ma con una strategia più materialista, tipica della società globalizzata che resta cieca dinanzi alle sofferenze e lascia indietro i più fragili. Un altro segnale di questo imput è la definizione di “lager” per il campo che i tedeschi, in questo futuro immaginario ma possibile, hanno costruito nel Nord Africa per impedire che i migranti raggiungessero la Germania. La definizione di lager racconta tutto della solitudine e indifferenza con cui era gestito il campo e la vita di migliaia e migliaia di migranti.
La storia parla di un “migrante” (un senza nome, quindi, non perché un nome non abbia, ma perché non gli viene riconosciuto e, si sa, ciò che non si nomina non esiste… o ci si illude che non esista), così chiamato prima che altri gli attribuiscano il nome di “Lionel”, che, isolato nella sua impossibilità di raggiungere la Germania, sembra cominciare a rassegnarsi alla sua vita di prigioniero nel lager fino a quando una “giornalista” tedesca, Nadeche Hackenbusch, accetta dalla sua emittente di fare un servizio dall’interno del campo per raccontare che cosa vi accada.
In un primo momento, il servizio che immediatamente si trasforma in reality show, prevede persino la scelta di chi degli abitanti del lager possa comparire in televisione in base a tutti quegli aspetti esteriori che possano attrarre il pubblico televisivo aumentando i guadagni dell’emittente e la fama della conduttrice. Piano piano, però, le situazioni riprese sono tali che non possono più essere selezionate, le persone sono così tante e le loro storie così particolari e raccapriccianti da rendere impossibile fare finta di non accorgersene.
Il migrante, poi Lionel, comprende che la visibilità offerta dalla televisione può essere un vantaggio per tutti i migranti cui cercherà di dare voce affinché si arrivi alla libera circolazione in Germania e in Europa. Il pubblico televisivo resta in un primo momento affascinato e il Governo è imbarazzato. Nadeche cambia punto di osservazione e il suo legame con Lionel la trasforma al punto da decidere di restare nel lager con lui. Questa la scintilla che farà precipitare gli eventi. Lionel intuisce che la scelta di Nadeche è una buona occasione per ottenere il visto di passaggio, «il passatore» come viene chiamato nel lager, per la Germania e convince tutti ‘ 150.000 migranti del campo a raggiungere a piedi i confini della Germania.
Che cosa accadrà? L’interesse del pubblico sarà ancora così intenso quando vedrà messi alla prova i propri confini dal diritto umano di passaggio dei migranti? Il Governo troverà l’equilibrio per accontentare gli uni e gli altri?
Solo il lettore scoprirà, leggendo, quanto dolore, inganno e violenza si nascondono dietro le scelte individuali e quanto queste possano fomentare l’odio, illegittimo sempre, o costruire la pace.
“Gli affamati e i sazi” (Bompiani, 2022) di Timur Vermes è un romanzo coraggioso, un romanzo che richiama oggi a quello che potrebbe accadere domani. Lo suggerisco.