padrone della propria vita, donne in viaggio, di Tiziana Concina

Lo spirito d’avventura, il desiderio di viaggiare, di vedere nuovi luoghi è spesso presente nei bambini e nei ragazzi, alimentato da romanzi, da foto, trasmissioni televisive che mostrano la bellezza e il mistero di ciò che è là fuori e che attende solo di essere scoperto da viaggiatori pronti a partire per mettersi in gioco, in piena libertà.
La frase che ho appena scritto, sebbene in parte vera, è fuorviante: il maschile sovra esteso, come spesso accade, dandosi per universale, in realtà nasconde una profonda disparità di genere. Per un ragazzo, per un uomo, soprattutto occidentale, è piuttosto facile proporsi di vivere un’avventura solitaria, muoversi liberamente in luoghi conosciuti e sconosciuti padrone di sé stesso, mettere alla prova le proprie capacità in Paesi stranieri, senza dover temere riprovazione sociale o combattere imposizioni familiari. Per una ragazza, per una donna è molto più difficile, anche oggi, anche in occidente.
Una donna che voglia affrontare da sola l’esperienza del viaggio in luoghi lontani deve fare i conti con una miriade di preclusioni che nascono dallo stereotipo, ancora così radicato, della donna debole, incapace, bisognosa dello sguardo e della protezione maschile, che non saprà sottrarsi ai pericoli del mondo e la cui condizione naturale è la stanzialità; o ancora deve accettare di essere considerata una sventata, una “che se la va a cercare”, una avventuriera, termine che se declinato al maschile evoca coraggio, mistero, fascino, se declinato al femminile richiama solo una certa disponibilità sessuale.
Un bel libro di Lucie Azema Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione, uscito in Francia per le edizioni Flammarion, nel 2021 e pubblicato in Italia dalle edizioni Tlon, nel 2022, aiuta a scoprire la portata rivoluzionaria del viaggiare da sole, attraverso l’esperienza di viaggio dell’autrice e quella delle tante esploratrici, reporter, giornaliste che, nonostante i tabù sociali, hanno saputo diventare padrone della propria vita e hanno raccontato le proprie imprese.
All’inizio c’è Penelope: votata all’attesa e al silenzio, trofeo da conquistare, chiusa nelle stanze a sorvegliare l’oikos. Il viaggio, muoversi nel mondo, è una cosa da uomini, poiché necessita di coraggio, intraprendenza, resistenza, determinazione, tutte qualità che non sono mai state riconosciute alle donne, nonostante a esse, specialmente nelle società più povere, siano stati imposti i lavori più umili e faticosi e a esse tocchi il dolore e il rischio del parto. Ai giovani maschi si è insegnato ad avere fiducia nelle proprie capacità, a identificarsi con l’eroe e spesso a pensarsi conquistatore: il viaggio è stato, nella mitologia e nell’immaginario collettivo, la palestra ove praticare queste doti, il rito di passaggio per eccellenza.
Il viaggiatore occidentale, specialmente in età coloniale, ha attraversato i luoghi con piglio da padrone, certo del proprio diritto, proiettando sul mondo altro che andava osservando il proprio immaginario, spesso imbevuto di esotismo, e quasi sempre con la convinzione di potersi impadronire di ciò che desiderava, fossero cose, luoghi o persone. Purtroppo questa idea di virilità sembra agire ancora in un certo turismo sessuale che approfitta della superiorità economica per sfruttare donne e bambine, già sottomesse da un modello patriarcale.
Lo spazio del femminile invece è la sfera domestica, non solo interna, chiusa, protetta, ma anche ripetitiva, sottomessa, costretta. L’esclusione dall’esperienza del mondo si accompagna al mancato riconoscimento e allo svilimento delle capacità, implica un ruolo di servizio, oblativo, impedisce l’affermazione di sé, si trascina in un tempo di attesa, di rinuncia.
Dunque il viaggio sancisce il diritto riconosciuto del maschio alla libertà e all’indipendenza, alla padronanza di sé e del proprio tempo, «lo stesso non avviene per le donne: quando partono e diventano autonome, si allontanano da ciò che la società ha disposto per loro» (Azema, pag. 21).
Eppure le donne hanno viaggiato da sole, anche se spesso, per poterlo fare, hanno dovuto travestirsi da uomini, inventarsi falsi mariti, in alcuni casi perfino sopportare di essere messe in prigione. Soprattutto, quasi sempre e ancor oggi, sono state oggetto di atteggiamenti paternalistici e di mansplaining, di svalutazione, poiché una donna sola è incompleta, probabilmente incompetente, certamente inadatta: evidentemente è difficile sopportare che una donna voglia viaggiare per le stesse ragioni di un uomo e sia in grado di farlo.
A volte, quando si trattava di raggiungere una meta o ottenere un record, le donne che si sono messe in gioco sono state diffamate. Azema ricorda il caso dell’alpinista neozelandese Lydia Bradey, la prima donna, nel 1988, a raggiungere la cima dell’Everest senza ossigeno, in solitaria, dopo essersi allontanata dai compagni di scalata che pretendono di relegarla a un ruolo secondario e che, tornati nel loro Paese, mettono in dubbio la sua ascensione. Per avere giustizia Lydia dovrà aspettare che le autorità nepalesi riconoscano ufficialmente il suo primato.
Il viaggio è dunque un atto di ribellione, evidentemente fastidioso, un affrancamento dalle regole sociali e dalle imposizioni dei ruoli, «viaggiare per una donna è un atto fondatore, equivale a dire: vado dove voglio, appartengo solo a me stessa» (Azema, pag. 118), equivale dunque al rifiuto di un destino già scritto per tutte e all’affermazione della propria individualità, al desiderio di mettere in gioco capacità, forza, determinazione, resistenza.
Il tema della sicurezza personale, del timore e della consapevolezza è centrale per ogni donna che voglia mettersi in viaggio da sola. Il corpo femminile è considerato in molte culture terreno di conquista, spazio di dominio, non un corpo vissuto ma una proprietà che comunque un uomo può intestarsi. L’attenzione all’estetica, l’idea di bellezza diffusa ha reso ancor più ristretti gli spazi di libertà, ha acuito le forme di costrizione: tacchi, abiti aderenti o minimali, rendono le donne, volenti o nolenti, impacciate nei movimenti, dipendenti. E se questo è vero nelle società occidentali lo è ancor di più in società che costringono le donne a coprirsi con spasmodica attenzione.
Dunque non si può negare che una cultura di dominio maschile ponga la donna nella condizione, offensiva e ingiusta, di doversi guardare le spalle e difendere, tuttavia Azema sottolinea come nel pensiero comune i rischi vengano amplificati e caricati totalmente sulle spalle della donna, «la gabbia intorno alle aspiranti viaggiatrici è quasi sempre innalzata in nome della loro sicurezza e protezione: essa non si materializza in un lucchetto chiuso a chiave su una porta, ma in un appello alla prudenza a oltranza, uno scoraggiamento sistematico, un’ossessione per il ‘coraggio’ delle donne che viaggiano sole, come se fossero degli strani animaletti» (Azema, pag.120). Insomma, a causa di queste pressioni, la consapevolezza del rischio si trasforma nella viaggiatrice in uno stato di dubbio, nel timore di esporsi volontariamente a situazioni incontrollabili, anche se nessuna evidenza statistica prova che viaggiare sia più pericoloso di girare per la propria città o, purtroppo, incontrarsi con un ex marito. Mentre Azema ci ricorda, attraverso proprie e altrui esperienze di viaggio, come la viaggiatrice risulti spesso un fenomeno sorprendente e interessante: sottraendosi alle convenzioni sociali appare un’eccentrica e suscita la curiosità bendisposta delle popolazioni locali, pronte addirittura a offrire aiuto e sostegno.
Evidentemente la paura dell’esterno a cui sono educate le bambine ha la funzione di relegarle in un ‘interno’ facilmente controllabile.
D’altro canto quanto più le donne rinunciano ad abitare lo spazio del mondo tanto più si diffonde la convinzione che quello spazio non sia adatto a loro, che esse lo attraversino come intruse e per questo risulti irto di pericoli. Da qui nasce anche l’incredibile, illogica situazione per cui è la vittima di molestie e violenze a doversi sottrarre e giustificare e non chi ne è attore a essere esposto alla riprovazione sociale e a una punizione adeguata. Insomma è considerato normale che alle donne venga impedito di fruire liberamente del proprio diritto di spostamento, del proprio essere cittadine al pari degli uomini, in nome di una sicurezza che loro stesse devono garantirsi con la rinuncia.
La possibilità di uscire, di godere dello spazio esterno, di passeggiare per la propria città o di muoversi alla scoperta di città sconosciute è un piacere che in molti luoghi alle donne è negato, la città è costruita a uso e consumo del maschio che può muoversi in libertà, bighellonare, mentre alla donna è consentito solo uno spostamento utile, necessario. Le donne sole che non appaiono occupate in qualche attività riconosciuta vengono percepite come naturalmente esposte alle molestie, interrotte nel loro pensiero, quasi che il loro tempo e la loro attenzione debbano essere comunque invasi dalla presenza maschile: il maschio ritiene suo diritto commentare il corpo delle donne, farle sentire a disagio, imporre il proprio desiderio sulla dimensione privata di una sconosciuta, cosa impensabile se rivolta a un altro uomo.
Proprio per questo vagare sole, senza meta per una città è un atto di trasgressione, significa conquistare una indipendenza, affermare una libertà che è prima di tutto quella di non essere accompagnate.
La solitudine è anch’essa un’esperienza tradizionalmente poco concessa alle donne, gravate dall’obbligo dell’accudimento e della cura dei figli, dei mariti, dei genitori, raramente poste nella possibilità di pensare solo a sé stesse, di calarsi nell’intimo del proprio universo senza essere invase dalla presenza e dal bisogno dell’altro. Inoltre essere sole è spesso inteso come la prova di una mancanza, di un’assenza, non di una scelta e di una possibilità. Invece questo sentimento garantisce l’accesso a uno spazio di consapevolezza, di autonomia e soprattutto di libertà che non per forza significa rifiuto dell’altro ma piuttosto apertura volontaria, non imposta e dunque più vera ed empatica.
Il viaggio rappresenta la condizione migliore per attingere a questa esperienza: essere sole davanti a una avventura, libere da ruoli e obblighi, consce delle proprie capacità, fiduciose nella propria forza, straniere ma a casa propria ovunque, insegna ad abbattere almeno in parte i lacci infiniti che legano e costringono ogni donna, e a sentire il diritto di appartenere a questo mondo e di poterlo raccontare secondo nuovi sguardi, insomma significa imparare a «occupare il posto che avremmo preso facilmente se fossimo state uomini» (Azema, pag.180).
🤍adorata solitudine ❕
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