c’è ancora domani, il film di cui avevamo davvero bisogno, di Valeria Pilone

Io oggi canto in mezzo all’altra gente
Perché ci credo o forse per decenza
Che partecipazione certo è libertà
Ma è pure resistenza
(Daniele Silvestri, A bocca chiusa)
Se è vero – come è vero – che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», allora Paola Cortellesi ha centrato in pieno il dovere sancito dall’art. 4 comma 2 della nostra Costituzione. Lo ha fatto dirigendo e interpretando il film C’è ancora domani, la sua opera prima da regista, in cui presta anche il volto alla protagonista Delia accanto all’attore Valerio Mastandrea, che interpreta Ivano, suo marito.
La pellicola è, in ogni senso, un atto politico di cui avevamo davvero bisogno, al quale aderiamo andando al cinema, perché quello che la storia di Delia suscita in chi la guarda è desiderio di partecipare alla costruzione di un futuro migliore, come la Costituzione ci invita a fare, anzi ci obbliga a fare perché il verbo utilizzato è dovere e le nostre coscienze, di fronte a quel dovere costituzionale, ogni giorno sono chiamate a interrogarsi, a rispondere, a non voltare la testa dall’altra parte. Non servono azioni eroiche, basterebbe che ognuno svolgesse la propria piccola ma grande parte per la società.
Il film C’è ancora domani andrebbe assolutamente visto per vari motivi. Innanzitutto, per aver saputo portare all’attenzione del pubblico il tema della violenza di genere e dell’emancipazione femminile dal punto di vista delle/degli ultimi, dei più poveri, della gente comune, mostrando non la grande Storia, ma la vita di una famiglia povera della Roma del dopoguerra, una famiglia che mostra la storia di tante famiglie a noi vicine, le famiglie delle nostre nonne, delle nostre madri. La storia racconta di Delia, madre di tre figli, che vive nell’immediato dopoguerra, nell’anno 1946, in condizioni di povertà e precarietà, cercando di fare più mestieri per portare soldi a casa e occupandosi di una casa ubicata in un sottoscala in una corte di un palazzo popolare di Roma. Delia ha un marito violento, Ivano, che è un concentrato di tutti gli stereotipi e principi su cui si fonda il patriarcato, nonché l’interprete perfetto di tantissimi uomini di quell’epoca (e non solo). In casa vive con loro anche il suocero, Ottorino, che Delia serve non meno di come fa con il marito. È una trama che richiama molto alla nostra memoria ambientazioni e personaggi come quelli del romanzo La Storia di Elsa Morante o Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, o ancora del film Roma città aperta di Roberto Rossellini. La pellicola di Cortellesi, infatti, è in bianco e nero e questo crea un effetto chiaramente suggestivo.
È un film potente per la commistione riuscita ed efficace di fotografia e musica. Il bianco e nero, la luce e le sfumature, le inquadrature, la musica che accompagna poeticamente le scene più forti, stemperando quei pugni allo stomaco che sentiamo ogni volta che assistiamo inermi alla violenza: è tutto sapientemente dosato e teso a far concentrare spettatori e spettatrici sul significato e la conseguenza di ogni singola azione. Sono cinematograficamente efficaci le scene accompagnate dalle canzoni M’innamoro davvero di Fabio Concato, La sera dei miracoli di Lucio Dalla e la potentissima A bocca chiusa di Daniele Silvestri sul finale della pellicola.
È un film che invita a pensare che la Storia l’hanno cambiata non solo le tante donne importanti, divenute famose e di cui oggi narriamo le memorabili parabole esistenziali, ma anche le donne del quotidiano, le perfette sconosciute che nel silenzio della loro casa hanno subito sopraffazioni, violenze, condizionamenti, che spesso – nella maggioranza dei casi – non sono riuscite a liberarsi, ad affrancarsi, ad autodeterminarsi, perché prive degli strumenti necessari e perché inserite in un contesto sociale in cui la condizione di sottomissione fino all’annullamento di sé era talmente introiettato e culturalmente condiviso che si faceva fatica anche solo a immaginarsi una vita da gestire senza un uomo accanto (il personaggio della Sora Franca che gestisce una merceria da sola è emblematico in questo senso). Proprio per questo è un film realistico, in quanto, nonostante faccia prospettare un certo epilogo per tre quarti di pellicola, la storia ha una conclusione non aderente alle conquiste che solo negli ultimi decenni abbiamo raggiunto in termini di consapevolezza per difenderci dalla violenza maschile e per fuggire da prigioni di umiliazione, ma è un finale che predispone a meditare e rimeditare su quello che nel nostro paese è stato – a mio avviso – un importante punto di partenza per tutte le donne, nessuna esclusa, verso la costruzione della propria posizione nel mondo. È un finale portatore di speranza soprattutto per le generazioni future, per tutte le donne che, agendo la loro cittadinanza nelle scelte di ogni giorno, possono costruire un mondo in cui donne e uomini contribuiscano insieme al progresso materiale e spirituale della società, in una sinergia paritaria che siamo ancora lontani dall’aver raggiunto compiutamente.
Mentre scrivo, arriva la notizia del ritrovamento dell’ennesimo corpo di giovane donna uccisa per mano dell’ex fidanzato. E non possiamo non andare con il pensiero alla sua famiglia, alle persone che le volevano bene, a tutte le donne abusate, umiliate, maltrattate, uccise.
Ciao, Giulia Cecchetin…
A te dedichiamo questo film,
a te e a tutte le vittime di violenza maschile
che non hanno avuto “ancora un domani”
per realizzare i propri sogni.
Non ho avuto ancora occasione di andarlo a vedere, ma so che non poteva essere altrimenti: da una donna intelligente più nascere solo qualcosa di altrettanto denso di significato, e che fa riflettere. Grazie Daniela. Low
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grazie a te ❤
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