una parigina a Lhasa, di Tiziana Concina

Una parigina a Lhasa

Una donna piccola, non più giovane, e un uomo, poco più che un ragazzo, attraversano le grandi distese degli altopiani del Tibet, camminando per mesi, di giorno e di notte, nell’autunno e nell’inverno del 1923. Sembrano due mendicanti, avvolti nelle loro guarnacche, con ai piedi gli stivali tipici dei pastori tibetani, portando sulle spalle ciò che occorre: una piccola tenda di cotone, la ciotola, poche provviste che consentono la loro sopravvivenza, mattonelle pressate di té, tsampa, burro di yak.

Alexandra David-Néel con Yongden

Quella che a tutti pare una vecchia tibetana è in realtà Alexandra David-Néel, nata nei dintorni di Parigi il 24 ottobre 1868, la prima donna occidentale che è riuscita a entrare a Lhasa, la città santa vietata a chi è straniera/o, coronando così un progetto nato molti anni prima, preparato e perseguito con grande determinazione.

Alexandra David-Néel bambina
La giovanissima Alexandra

Alexandra è una grande viaggiatrice, giovanissima aveva visitato la Spagna, la Svizzera e l’Inghilterra, conosce l’Africa settentrionale dove incontra il marito Philippe Néel, viaggia in India, in Giappone, ma soprattutto attraversa la Cina e il Tibet. Questo costante desiderio di muoversi verso regioni poco o per nulla conosciute e la capacità di portare a termine questi progetti è già di per sé cosa notevole, in un periodo in cui viaggiare era una attività riservata a poche/i, densa di rischi e molto faticosa, certamente considerata inadatta a una donna, per di più sola.

In Cina

Ma colpisce la motivazione profonda che spinge questa donna ad allontanarsi dal marito, a cui pure rimarrà legata per tutta la vita, e a trascorrere quattordici lunghi anni in Oriente, spostandosi tra l’India, la Cina e il Tibet: «Raccoglievo le manifestazioni del pensiero umano, cercando di penetrare il mistero del mondo e di calmare la paura davanti alla sofferenza e alla morte» (Il paese dei briganti gentiluomini). Alexandra, infatti, non è solo una viaggiatrice, è una profonda conoscitrice dell’Oriente e una studiosa appassionata delle dottrine indo-buddiste: impara il sanscrito e il tibetano per affrontare direttamente i testi sacri, risiede per anni in importanti monasteri nella regione himalayana del Sikkim, diviene allieva di Lama riconosciuti che la iniziano a pratiche di meditazione, arriva addirittura, nonostante fosse una donna occidentale, a incontrare il XIII Dalai Lama. Queste esperienze le permetteranno di diventare una divulgatrice affidabile e apprezzata che, grazie a saggi, romanzi eduna attività instancabile di conferenziera, farà conoscere in Europa il buddismo e il lamaismo.

La caverna

Nel 1914 raggiunse il Gomchen (grande meditatore) Rinpoche di Lachen, ritiratosi in meditazione solitaria a 3.500 metri d’altezza, a circa trenta chilometri dalla frontiera che separa il Sikkim dal Tibet. Qui Alexandra rimase per venti mesi, riparandosi in una caverna che lei stessa chiamerà Claire lumière, in quasi totale solitudine, con l’unica compagnia del Gomchen che le permetterà di approfondire la conoscenza teorica e pratica della cultura tibetana e dei metodi di meditazione. L’Europa, attraversata dall’orrore della Prima guerra mondiale, a cui pure la richiamava il marito, deve essere sembrata sempre più lontana ed estranea a questa donna, capace di abbandonare il proprio mondo, con i suoi ruoli e le sue finzioni, ma anche le sue certezze e comodità, per intraprendere la strada aspra e difficile di un apprendistato che le avrebbe imposto prove notevoli, ma che poteva rispondere al suo profondo bisogno di spiritualità e di autenticità.

Nei primi decenni del Novecento il Tibet era stato oggetto di controversie tra la Gran Bretagna, decisa a impedire l’espansione russa nella zona e ad affermare il proprio interesse economico, e la Cina, a cui verrà riconosciuta una forma di protettorato. Per questo motivo il Tibet costituiva un territorio proibito al quale era possibile accedere solo provvisti di permessi concessi dall’autorità britannica. Alexandra verrà più volte invitata a lasciare il Tibet dalla implacabile sorveglianza inglese, ma riuscirà comunque a tornare e ad attraversarne le grandi distese, coprendo migliaia di chilometri. Rimangono a testimonianza di queste avventure due interessanti diari di viaggio.

In viaggio

Nel 1918 Alexandra arriva al monastero di Kum Bum, a circa trenta chilometri a sud ovest della città di Xining, dipendente dall’amministrazione cinese del Kansu, dove risiede per due anni e otto mesi, accompagnata da Aphur Yongden, un giovane Lama tibetano che, abbandonata la famiglia, dal 1914 la accompagna in tutte le sue peregrinazioni, fungendo da guida, da traduttore e da segretario e che diverrà suo figlio adottivo.
Dal Monastero di Kumbum Alexandra parte per tentare di raggiungere Lhasa, attraverso un lungo itinerario, da nord a sud, che costeggia la regione di frontiera tra Cina e Tibet, fino a incontrare le strade percorse dalle carovane che dal Sechuan giungono alla città santa; è costretta a un lungo periplo poiché non ha il permesso di entrare liberamente in Tibet e deve dunque muoversi senza farsi riconoscere e senza attirare l’attenzione delle autorità locali, in un territorio inesplorato, abitato da tribù, dedite al brigantaggio, formalmente sotto il controllo cinese in realtà indipendenti sia da Pechino che da Lhasa. Ha con sé, oltre a Yongdon, un domestico e due giovani trapa, discepoli del monastero, ma non riesce a raggiungere Lhasa poiché viene intercettata da un funzionario cinese che la costringerà a fermarsi e a volgersi verso Jakyendo, nel Tibet orientale, a nord ovest di Lhasa.

In Tibet, 1933

Dalle puntuali descrizioni delle disavventure affrontate in un Paese pericoloso, alle prese con una natura meravigliosa e selvaggia, emerge il ritratto di una donna veramente singolare, estremamente coraggiosa e autorevole, equilibrata, capace di guardare con occhio disincantato ma pietoso alla varietà delle persone che incontra, soprattutto mossa da un’insaziabile curiosità per quanto vi è di bello e interessante. Essere in compagnia del giovane Lama e farsi passare per una khandoma, genio femminile incarnato, permette ad Alexandra di trovare accoglienza nelle fattorie e nei villaggi, la scorta che la segue le garantisce un minimo di sicurezza, ma la espone alla curiosità di molte persone e alla possibilità di essere riconosciuta. Il viaggio ha i suoi rischi: fiumi che esondano, ponti che crollano, febbri, briganti e ladruncoli ma il gusto dell’avventura e dell’imprevisto cancella qualunque disagio, «per colui che sa guardare e sentire, ogni minuto di questa vita libera e vagabonda è un incanto» (Nel paese dei briganti gentiluomini). Tuttavia, poiché il suo progetto di raggiungere Lhasa viene scoperto, dopo sei mesi di viaggio è costretta a tornare nel Tibet cinese, non senza aver visitato monasteri e incontrato saggi Lama, e a rimandare la grande avventura a tempi migliori.

Con le monache tibetane

Il fallimento impone ad Alexandra una riflessione e una nuova strategia: se vuole entrare nella città santa dovrà diventare invisibile, dovrà confondersi con le migliaia di pellegrine/i, di mendicanti che ogni anno la visitano, rinunciando anche alle poche comodità di cui aveva goduto nel viaggio precedente. Ora da autentici ardjopa, pellegrini che viaggiano a piedi carichi dei propri bagagli, Alexandra e Yongden vanno mendicando un piatto di minestra e un cantuccio dove dormire, in cucine mai lavate, vicino al focolare, spesso non lontano dalla famiglia che li accoglie e questo permette loro di entrare in contatto con un mondo legato a bisogni essenziali, ricco di credenze e di superstizioni, che si palesa spontaneamente e senza veli. Viaggiando, partono dai dintorni della montagna sacra di Kha Karpo, a nord ovest dello Yunnan e ben presto fanno perdere le loro tracce, comincia così un cammino che durerà quattro mesi, lungo duemila chilometri, incredibilmente ricco di esperienze, da cui nascerà il bel diario, Viaggio di una parigina a Lhasa, in cui è la stessa Alexandra ad affermare: «Il mio vestito semplice di bisognosa devota mi avrebbe permesso di osservare una quantità di dettagli inaccessibili ai viaggiatori occidentali e persino ai tibetani delle classi più elevate. Alle conoscenze già acquisite tra i letterati del Tibet, avrei potuto aggiungerne altre, non meno interessanti, raccolte a caso in mezzo alle classi popolari».
Questa volta Alexandra – che per scurire la sua carnagione e non essere riconosciuta come occidentale si cosparge di terra e polvere di cacao – e il suo sodale viaggiano di notte per non attirare l’attenzione, dormono sotto una sottile tenda di cotone, rischiano di annegare guadando un fiume appesi a una corda. Ciò che colpisce leggendo le pagine del diario è la lucidità che permette alla viaggiatrice di muoversi in ambienti naturali di inesprimibile bellezza ma estremamente pericolosi e l’incredibile resistenza fisica che consente ai due pellegrini di affrontare il terribile inverno himalayano, di camminare salendo montagne altissime, nella neve, per 14 o 16 ore, senza mangiare nulla per giorni interi. Ormai privi di provviste, senza poter contare neppure sul sollievo offerto da una tazza di tè condito con burro di yak, alla maniera tibetana, nell’impossibilità di procurarsi alcunché, la viaggiatrice Alexandra e il suo compagno finiscono con il cuocere nell’acqua i ritagli di cuoio con cui hanno aggiustato le loro calzature. Eppure una incredibile determinazione le consente di superare ogni difficoltà, di godere della bellezza di luoghi magnifici e inesplorati, di guardare con estremo interesse un universo culturale estraneo al mondo occidentale e di riconoscere l’umanità nei semplici gesti di generosità, che le consentono spesso di sopravvivere.

Itinerario

Di quando in quando compaiono nel racconto riferimenti ad accadimenti difficilmente giustificabili con la sola ragione, ma che trovano facile spiegazione nell’universo di saperi e credenze del Tibet: il giovane Lama Yongden è testimone o egli stesso attore di fenomeni di preveggenza, Alexandra riesce ad accendere un fuoco, assolutamente necessario alla sopravvivenza, ricorrendo al tumo reskian, l’arte di aumentare il calore del corpo. Lei stessa racconta di aver assistito al fantastico esame di discepoli che nudi, in pieno inverno, facevano asciugare con il proprio calore lenzuoli bagnati di acqua glaciale e di aver chiesto insistentemente di essere iniziata a quest’arte, grazie alla quale riesce ad asciugare la piccola selce e la stoppa necessarie ad accendere il fuoco.
L’atteggiamento di Alexandra, lontano da ogni facile superstizione, esprime però rispetto e consapevolezza: «L’Oriente – soprattutto il Tibet – è terra del mistero e degli avvenimenti strani. Se solo si è in grado di guardare, ascoltare e osservare con attenzione e a lungo, vi si scopre tutto un mondo al di là di quello che siamo abituati a considerare come l’unico reale, forse perché non analizziamo abbastanza minuziosamente i fenomeni dai quali è nato e non risaliamo abbastanza nel passato alla concatenazione delle cause che li determinano» (Viaggio di una parigina a Lhasa). L’agognato ingresso a Lhasa avviene in una sorta di strano prodigio: improvvisamente si alza una tempesta di sabbia che nasconde il volto della viandante, quasi a volerne proteggere l’identità, «senza che nessuno potesse sospettare che, per la prima volta da che mondo esiste, una donna straniera ha contemplato la città proibita».

A Lhasa

Davanti a un’esistenza così lontana dalle imposizioni sociali e culturali a cui siamo abitualmente soggetti è lecito domandarsi quale rara capacità e quale indipendenza di pensiero ha permesso ad Alexandra David-Néel di guidare la propria vita in totale libertà, ignorando le regole e le attese del suo mondo, cancellando, con un solo tratto, tutti i preconcetti che vogliono la donna fisicamente fragile, bisognosa di protezione, priva di coraggio e di spirito di avventura.

Gli ultimi anni, a Digne Les Bains