costituzione letteraria, art.1, di Valeria Pilone

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
L’art. 1 della nostra Carta costituzionale sancisce due aspetti cruciali su cui si fonda il nostro Stato. La forma di governo è quella di una Repubblica democratica in cui la sovranità è esercitata dal popolo nei limiti imposti dalla carta stessa, ed è una Repubblica che si fonda sul lavoro.
Per l’Italia che usciva da un regime dittatoriale ventennale, i padri e le madri costituenti hanno immaginato un progetto nuovo di società civile in cui le decisioni coinvolgano tutti i cittadini e le cittadine e vengano prese a maggioranza, nel rispetto delle libertà inviolabili dell’essere umano, stabilite dalla stessa Costituzione, al fine di non ripetere più gli errori del passato, in cui una maggioranza tirannica ha prevaricato le minoranze più deboli. Tale ordinamento repubblicano poggia le sue fondamenta su un elemento vitale per la realizzazione delle persone e della società: il lavoro, affinché nessuno possa vantare titoli di merito al di fuori del contributo che sceglie di dare per il progresso dello Stato, inteso come comunità di cittadini e cittadine.
Per questa prima tappa del nostro viaggio di interconnessione tra il dettato costituzionale e la letteratura, il libro che mi ritorna alla memoria è Fontamara di Ignazio Silone. Questo romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1933 in Svizzera, dove lo scrittore si trovava in esilio essendo oppositore del fascismo, ma in Italia vedrà la luce sono nel 1949. La storia è raccontata da un narratore interno, Giuvà, un “cafone” che, insieme a sua moglie Matalé e al loro figlio, racconta in prima persona le vicende accadute a Fontamara, paesino immaginario collocato nella Marsica, in Abruzzo, e ispirato al paese di Silone, Pescina dei Marsi, dove lo scrittore vi era nato il 1° maggio del 1900 (alba del nuovo secolo e giorno della Festa dei Lavoratori).
A Fontamara non arriva più l’elettricità perché gli abitanti non pagano le bollette, convinti che la luce sia una cosa naturale. Della situazione si approfitta il cavalier Pelino, miliziano fascista, il quale fa firmare ad ogni “cafone” una carta bianca che non è altro che l’autorizzazione a indirizzare l’acqua destinata all’irrigazione dei campi verso i possedimenti di un imprenditore fascista divenuto podestà. Dopo aver scoperto l’inganno, i contadini tentano di negoziare con l’imprenditore per cercare di rimediare al danno subito. In modo particolare, sono le donne che si recano da don Circostanza, l’avvocato che si offre da mediatore e che approfitta della loro ignoranza per imbrogliarli ancora di più: un nuovo accordo stabilisce che «tre quarti scorrano nel nuovo letto del fiume, mentre i tre quarti del rimanente nel vecchio, cosicché ognuno abbia tre quarti […] In realtà – confessa la narratrice – nessuna di noi aveva capito in che cosa consistesse quell’accordo».
Ancora, quando si tenta di rabbonire i fontamaresi sulla durata di usufrutto dell’acqua che l’imprenditore aveva chiesto essere di cinquant’anni, don Circostanza propone di fissare tale termine sulla carta in dieci lustri, dopo aver irretito ancora una volta i “cafoni”: «Don Circostanza venne verso di noi sul ciglio della strada e ci fece uno dei soliti suoi discorsi e noi, purtroppo, l’ascoltammo. “Non avete più fiducia in me? Ecco perché le cose vostre vanno male. Credete di fare i vostri interessi con le grida e le violenze?” […] Più tardi ci dissero che la perdita dell’acqua sarebbe durata dieci lustri e che questa proposta sarebbe stata avanzata in nostro favore da don Circostanza; ma nessuno di noi sapeva quanti mesi o quanti anni facessero dieci lustri».
Il paese prova a manifestare, a ribellarsi, ma paga amaramente il conto con una spedizione punitiva degli squadristi fascisti, che violentano le donne e interrogano ogni singolo abitante che non risponde «il Duce» alla domanda «Chi evviva?»: refrattari, costituzionali, anarchici, liberali, socialisti, comunisti, mascalzoni, sono gli epiteti che le camicie nere segnano nel loro lungo elenco di fontamaresi. Tra i “cafoni” del paese c’è il giovane Berardo Viola, il cui nonno era stato brigante, «l’ultimo brigante delle nostre parti giustiziato dai Piemontesi». Berardo cerca di trovare fortuna fuori dal paese, ma la sua fama di fontamarese (“cafoni” ribelli e facinorosi) non gli permette di trovare un lavoro, anzi. Viene arrestato per un equivoco insieme all’Avezzanese, un partigiano conosciuto in Abruzzo, con il quale in cella ha modo di sviluppare una forte coscienza di classe fino al sacrificio di sé: si autoaccusa, infatti, di essere il Solito Sconosciuto, un antifascista che operava clandestinamente, viene torturato fino a morire e si fa credere che si sia suicidato in carcere per «gravi dispiaceri amorosi». Colpiti dalla morte del giovane compaesano, i fontamaresi si organizzano per cominciare a stampare un giornale dal titolo emblematico Che fare?, per denunciare violenze e ingiustizie, ma una squadra di fascisti arriva e soffoca tutto nel sangue. Alcuni paesani riescono a fuggire, tra cui i tre narratori della storia.
La storia di questo romanzo ha carattere universale, perché nel paese Fontamara si possono identificare tutte le realtà contadine poverissime, soprattutto nel Meridione, che da sempre nella storia hanno subito la sorte della miseria e dell’ignoranza, volutamente inflitta loro da chi comanda.
In questa storia è centrale l’idea del lavoro come mezzo di sostentamento personale e di motore per il benessere di una comunità. È proprio la mortificazione di tali caratteri che ha contraddistinto certamente il periodo storico precedente alla nascita della Costituzione, ovvero il ventennio fascista, ma non solo. Nel romanzo di Silone si evidenzia come il Mezzogiorno sia passato, in fondo, da un padrone a un altro sin dal processo dell’Unità: «I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo. Tutte le novità portateci dai Piemontesi in settant’anni si riducono insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa. Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola volta. A noi è sempre bastata la pipa»; «dalle nostre parti, come raccontano i vecchi, i Borboni avevano preso il posto degli spagnoli e i piemontesi il posto dei Borboni. Ma donde provenissero e di che nazione fossero i nuovi governanti, a Fontamara non si sapeva ancora con certezza»; ancora: «Le complicazioni e gli inganni cominciarono, a detta dei vecchi, quando arrivarono i Piemontesi: ogni giorno fecero una nuova legge, ogni giorno crearono un nuovo ufficio; e affinché ognuno potesse raccapezzarvisi furono necessari gli avvocati. A parole, la legge si separò dai proprietari e divenne uguale per tutti, ma per applicarla, per eluderla, per trasformarla in sopruso, crebbe l’importanza degli avvocati e il loro numero». La dittatura accentua la privazione di ogni diritto, in particolare lo sfruttamento del lavoro dei più poveri, i “cafoni”, a vantaggio dei padroni violenti e prepotenti. La condizione sociale dei contadini è accettata come se fosse una legge divina, quasi come nella società medievale, basata su una piramide che prevedeva un rigido immobilismo sociale: «Come può un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere tutti questi fatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un’altra è chi comanda. I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è sempre quello. L’autorità è sempre quella […].
«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni».
Il primo articolo della Costituzione libera dalle catene di tale determinismo sociale, come già aveva auspicato Marx ne Il capitale: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalle considerazioni terrene […]. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà». Nel nostro paese gli anni terribili della dittatura fascista non hanno scoraggiato giovani donne e uomini e resistere, a dichiararsi antifascisti, a operare per la parte giusta, ad essere in tal senso “partigiani”, ovvero chi parteggia, chi si schiera da una determinata parte, anziché indifferenti, tanto odiati da Gramsci. Tra questi, è impossibile non ricordare Giuseppe Di Vittorio, padre del sindacalismo italiano e cittadino che ha incarnato nella sua stessa esistenza la difesa di quei “cafoni” – i contadini poverissimi delle campagne di Cerignola – fino alla costruzione del loro senso di appartenenza ad una più ampia parte della storia e della consapevolezza dell’importanza del lavoro come strumento di riscatto sociale. A tal proposito, calzanti sono le parole di Alfonso Pepe riportate nell’articolo di Annalina Ferrante su “Left” del 4 novembre 2017: «Il patto fondativo espresso dall’art. 1 della Costituzione – continua Adolfo Pepe – si fonda in larga parte proprio sul ruolo primario assunto dal mondo del lavoro grazie a Di Vittorio, che impone i diritti del lavoro come condizione per ricostruire l’unità del Paese. Questa è la matrice di fondo della storia dell’Italia repubblicana. […] Di Vittorio segue sempre il principio che la Costituzione deve entrare nelle fabbriche perché non ci può essere una zona franca per i diritti dei lavoratori. Questo fa di Di Vittorio un uomo modernissimo sul piano economico, sociale e sul piano della rivendicazione dei diritti del lavoro». Nel romanzo è rimarcata nei “cafoni” la mancanza di capacità di rivendicazione dei diritti, perché lo stato di ignoranza in cui essi sono tenuti dalle angherie del potere fascista non gli permette di liberarsi dallo sfruttamento che subiscono da quell’oggetto che sentono a loro estraneo (come scriveva Marx), ovvero il prodotto del loro lavoro, che impoverisce anche il loro mondo interiore: «La maggiore offerta di braccia sulla piazza era stata subito sfruttata dai proprietari e dai grossi fittavoli per diminuire i salari, ma, per quanto bassi, vi erano sempre dei cafoni costretti ad accettarli per fame; e taluni arrivavano al punto da offrirsi senza chiedere che fosse fissato il salario in anticipo, disposti ad accettare qualunque miseria».
Un’altra grande intuizione di Giuseppe Di Vittorio è stata anche aver concepito la necessaria unità dei contadini e degli operai di fabbrica nella lotta per le rivendicazioni dei loro diritti, motivo che lo portò a cercare l’amicizia e la collaborazione di Bruno Buozzi. Tale differenza con gli operai delle città si percepisce nitidamente nelle parole di Berardo Viola, eroe sconfitto del romanzo di Silone: «”I cittadini si divertono” diceva Berardo con rabbia. “Ah, i cittadini sono allegri. I cittadini bevono. I cittadini mangiano. Alla faccia dei cafoni. […] I cittadini lavorano di meno e guadagnano di più, essi mangiano bene, bevono e non pagano tasse. Basta vedere quanto ci fanno pagare a noi le stoffe i cappelli, le suole. Noi siamo come i vermi. Tutti ci sfruttano”».
Sono le donne fontamaresi le prime che nel romanzo rivendicano la loro umanità di fronte a chi pretende di trattarle come bestie da soma, senza dignità: «E noi? – gli rispondemmo – Non siamo cristiani anche noi?». «Voi siete cafone – ci rispose quello – Carne abituata a soffrire». «Che peccati abbiamo fatti più di voi? A casa vostra non avete una madre, sorelle? Perché parlate in quel modo? Solo perché siamo mal vestite?”».
L’art. 1 della Costituzione ci educa nel senso latino del vocabolo, educĕre, tirare fuori, perché tira fuori di noi la consapevolezza di dover considerare il lavoro come centrale nella nostra storia identitaria, nel senso più nobile che esso rappresenta per l’esistenza umana. Ce lo ricordava papa Francesco nel Discorso al Movimento Cristiano dei Lavoratori del 16 gennaio 2016: «Educare significa “trarre fuori”. È la capacità di estrarre il meglio dal proprio cuore. Non è solo insegnare qualche tecnica o impartire delle nozioni, ma rendere più umani noi stessi e la realtà che ci circonda. E questo vale in modo particolare per il lavoro: occorre formare a un nuovo “umanesimo del lavoro”. Perché viviamo in un tempo di sfruttamento dei lavoratori; in un tempo, dove il lavoro non è proprio al servizio della dignità della persona, ma è il lavoro schiavo». Ce lo ricordava il mai dimenticato Sandro Pertini nel suo Messaggio di fine anno agli Italiani del 1981: «Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo».

Nel piccolo borgo di Aielli, nella piana del Fucino, nel cuore della Marsica, il romanzo di Silone è stato trascritto nel 2018 su un muro di circa 100 metri quadrati, appartenente a un edificio pubblico nei pressi della Torre medievale, nel punto più alto dell’antico borgo. L’artista è Andrea Parente, in arte Alleg, originario di Tagliacozzo, che vi si è dedicato per circa 10 ore al giorno, coadiuvato da alcuni collaboratori e anche da passanti occasionali. L’anno successivo, nel 2019, l’amministrazione comunale ha realizzato il progetto di trascrizione della Costituzione italiana su un’altra grande parete di quaranta metri quadrati. La bellezza a servizio dell’educazione alla cittadinanza consapevole e responsabile.
Penso che quest’estate Aielli sarà una tappa delle mie vacanze.
In copertina: Fontamara a Aielli, il romanzo di Ignazio Silone scritto a mano su un muro.