viva le donne delle medaglie, viva le donne in oro, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Viva le donne delle medaglie. Viva le donne in oro

Carissime lettrici e carissimi lettori,
più che un fantasma, c’è un’aria strana che gira per l’Europa. Questa volta, soffia lontana e si respira anche altrove. È la brutta aria del razzismo che invade e si insinua ovunque. Parte (o arriva) dallo sport alla società, passando, inevitabilmente, per la politica, che non sembra più avere il suo nobile valore originario, di quando è nata come concetto, nell’antica Grecia: di amministrazione della Polis, come base della democrazia.
Abbiamo visto durante questa trentatreesima Olimpiade di Parigi l’opposizione a tutto. Una sorta di non certo nascosta invocazione all’appiattimento. A tal punto che si è rivoltata anche contro i/le sue stesse evocatrici come è successo alla ministra per la Famiglia e le Pari (!) opportunità Roccella che ha ironizzato chiamando ormai, per il futuro, l’opportunità di Giochi “neutri”, varrebbe a dire, promiscui (forse il termine mette paura alla ministra che, però, un tempo, non era schierata tra le fila dei radicali di Marco Pannella?!). La sorte vuole che proprio questo probabilmente accadrà a Los Angeles nel 2028. «Andando avanti così il Cio abolirà la distinzione tra gare maschili e gare femminili, unificando le competizioni in un unico genere neutro», cita in proposito un articolo di un quotidiano, che continua: «Alla Ministra Eugenia Roccella prenderà un colpo nel sapere che sì, a Los Angeles, nel tiro, specialità dove le donne spesso sparano meglio degli uomini, potrebbero esserci gare open, aperte a tutti, come tra l’altro accadeva trent’anni fa». Dunque, tra l’altro, neppure nulla di nuovo!
Chi l’ha contestata l’Olimpiade francese e per quanto tempo? Sicuramente a criticare, fin quasi a boicottarla, sono stati i partiti sovranisti e la destra estrema (ma anche più moderata), cominciando da quella francese, che giocava in casa, e proseguendo con quella italiana (con un ministro/vicepremier davvero furibondo, seppure, come abbiamo visto, non solo lui). L’hanno contestata per tutto il tempo del suo svolgimento. Non guardando allo sport, alle prestazioni eccellenti, alle donne che hanno stravinto.
Le donne. Continuiamo a pensare, e non siamo le sole, che queste di Parigi siano state, più delle altre, le Olimpiadi della parità. Particolarmente quella di genere, sia per partecipazione che per la presenza femminile sul podio. E in questo l’Italia, anzi le italiane, si sono distinte egregiamente facendo il pieno del medagliere da riportare a casa. La settimana di Ferragosto è praticamente finita. Il sogno olimpionico per l’Italia ha dato i suoi frutti e le donne hanno vestito del loro valore questi Giochi ritornati in Europa dopo tanto tempo e già pronti a volare oltreoceano, sulle ali degli Angeli, negli Usa, per una Los Angeles che speriamo sia brillante e meno contestata di questa Parigi 2024!
«Le donne hanno vinto il doppio degli uomini, e tutti sono stati formidabili nel raggiungere le finali: è accaduto ottanta volte, contro la cinquantina di Tokyo. Le terre delle medaglie hanno una distribuzione che continua a riflettere l’evidente disparità di condizioni, ricchezza, possibilità di accesso e strutture tra nord, centro e sud. La Lombardia (di Roncadelle, dove si è registrato un alto numero di medaglie n.d.r.) è la regione più medagliata (14), davanti a Toscana (11), Veneto (8) e Piemonte (7). La prima regione del sud è la Sicilia (4). Strade e mappe virtuose si snodano soprattutto in provincia, e questo vale per l’intero paese: sono tutto sommato pochi i campioni metropolitani. In sei sono nati all’estero, e molti sono italiani di seconda o terza generazione: questo sì racconta l’Italia in movimento verso il domani, la forza di una nazione piena di risorse, energia e bellezza a dispetto di quelli che non capiscono, sempre meno per fortuna, nonostante certa politica (tra l’altro, la politica allunga sempre più le mani sul Coni). Infine, siamo primi anche nei quarti posti: addirittura 24 i bronzi sfumati per poco o nulla: tutti saranno ricevuti al Quirinale. Ma smettiamola di chiamarle medaglie di legno. Il legno ci dà boschi, oggetti, calore, libri. Il legno ci dà gli alberi e i fiori…».
Eppure, certa becera politica (o meglio partitica bassa) non cede e mentre il “generale”, confermando la bravura sportiva di Paola Egonu, ne sottolinea caparbiamente la non italianità (!) dei tratti somatici (siamo proprio noi dell’Italia allungata e piena di invasioni emigrazione e conquiste, a prediligere i bambini e le bambine autarchiche?!). Un’Italia dove un giornalista, che fornisce il vino al banchetto del G8 (alla faccia della correttezza professionale) scrive un post qualunquista osannando le ragazze dell’oro del Volley e sbaglia il cognome di Egonu (Enogu!) sottolineando che sono «italiane, brave e nere». Ma che c’entra? Un uomo per tutte le stagioni direi. Poi che dire di quel colore rosa (ma, per esempio, io non sono…rosa) spalmato sul nero della pelle di Paola Egonu in un murale di Laika eseguito sul muro della Federazione a Roma? Ma è questo a determinare la nazionalità di una persona?

Razzismo anche in Gran Bretagna. Subito ammortizzato dal concetto di democrazia per fortuna, anche grazie a tante nonne che si sono messe d’impegno a “educare” i ragazzini (ce ne erano anche di 7 anni!) che buttavano di tutto contro la polizia per le proteste iniziate dopo l’uccisione, a fine luglio, di tre bambine (di cui una di origine straniera) nella tremenda strage di Southport, praticamente un sobborgo di Londra. Sembra, perché ancora non c’è il colpevole certo, che ad ucciderle sia stato un ragazzo, minorenne, con origini straniere, È bastato questo per sollevare un’onda di odio e di altissima xenofobia e, soprattutto, islamofobia. Bande di fanatici si sono così armati di odio e spranghe e bottiglie e hanno incendiato assaltato e distrutto negozi e altre attività commerciali gestite da stranieri. Un odio che, però, alla fine non è riuscito a passare: «Chi li ha visti i fascisti?  — scrive in proposito un quotidiano — La sera di mercoledì 7 agosto la polizia e i servizi britannici, in massima allerta, si aspettavano almeno cento adunate organizzate da estremisti di destra e teppisti di Inghilterra. Invece, questi sono stati letteralmente travolti dalle contromanifestazioni degli antifascisti, scesi in migliaia in strada in tutto il Regno Unito. Un’umiliazione tremenda per xenofobi e razzisti che sono scappati o, in molti casi, non si sono fatti nemmeno vedere in giro. “Hanno paura di noi”, sostengono gli organizzatori delle contro-manifestazioni. È una dimostrazione di forza e una grande vittoria dell’antifascismo — continua l’articolo — , quello visto oltremanica, che rimarrà impresso nella mente di molti». Una vittoria contro i “post incendiari” di Elon Musk (sì sempre ancora lui) che ha gridato ed esortato all’ «imminente guerra civile nel Regno Unito». Elon Musk che ha urlato razzismo contro tutti e tutte davvero a casaccio.

In questi giorni roventi di agosto ricordiamo le persone che abbiamo conosciuto e amato e che, per caso o per necessità, come dicevamo la volta scorsa citando il biologo Monod, ci sono arrivate al cuore. Questo mese si è portato via Franca Valeri (9 agosto 2020, a cento anni esatti) alla quale sarà intitolato quello che è stato il Teatro Valle, per me il più bello e intenso teatro di Roma che rischiava davvero di scoprire o di vedere al suo posto qualcosa di orribile e frivolo. Proprio di questa intitolazione a Valeri mi parlò (mi disse che allora era un segreto) la stimata, poliedrica artista profondamente e personalmente amata da me: Piera Degli Esposti, andata via da noi alla vigilia di Ferragosto (il 14 agosto 2021). Chissà se, essendo noi voce di Toponomastica femminile, Bologna, sua carnale città natale, un giorno le dedicherà una strada! Lo speriamo. Perché Piera è stata una voce femminile («chesta è ‘a voce nova» disse di lei Edoardo) tra le più incisive del Teatro, ma anche indimenticabile come attrice di cinema e televisione.
Oggi, in particolare, dobbiamo ricordare Michela Murgia che ci ha lasciate un anno fa, ma anche lei solo fisicamente, il 10 agosto. Murgia ci ha guidate in un cammino di femminismo e di coraggio utile e caro a tutte le donne e agli uomini che stanno loro al fianco con parità e rispetto.
Murgia ci manca anche per questo. Ci manca il suo coraggio, quello che costantemente arrivava dalle sue parole, dette e scritte, soprattutto. Ci arriva da quel bellissimo libro che ha insegnato a noi donne, a tutte le donne che hanno voluto ascoltarla e hanno imparato, «a non stare zitte» e a opporsi a qualsiasi uomo che ci comandi con uno «stai zitta e ascolta», interpellandoci con arroganza e superiorità, passando improvvisamente alla non richiesta, e per questo offensiva, confidenza del “tu”. Come fece in diretta lo psicanalista Raffaele Morelli durante una trasmissione radiofonica dove Murgia alla protesta contro una frase sessista dello psichiatra: «Donne, se quando uscite non vi guardano, preoccupatevi», accolta con sdegno dall’opinione pubblica e considerata sessista medievale, rispondeva, appunto, con un sonoro: «stai zitta e ascolta» da cui Murgia ha fatto nascere un libro intitolato proprio così: Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo più sentire. Murgia durante un’intervista televisiva ricordò di non essere la sola ad aver ricevuto questo “comando” da parte di un uomo e spiegò tutti questi «stai zitta» mediatici come lo scambiare una contraddizione con una provocazione, perché, secondo una certa vulgata patriarcale: «quando una donna contraddice provoca. Noi donne possiamo fare molte cose, ma quella di parlare è sicuramente la cosa peggiore». E su questo ha scritto Murgia nel suo libro: «Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti “dovremmo dire anche farmacisto”. Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ho un’ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più». Queste le parole di Michela che ci hanno aiutato e ci aiutano a vivere contrastando un mondo maschilista e patriarcale. Un mondo che dovrebbe essere “confortato” da figure come quelle dello/a psichiatra e psicoterapeuta. Noi sappiamo e speriamo non finisca sempre come in quella puntata dello scontro e della contraddizione e non provocazione, di Michela Murgia verso Morelli!

Sfogliando giornali, social, libri (e ricordandomeli!) ho trovato un discorso che mi ha risuonato dentro, come un vecchio o una vecchia amica di sempre. Mi sono sentita in compagnia. E che compagnia! Natalia Ginzburg, nata a Palermo nel luglio del 1916 (scomparsa, a Roma, nel 1991) ha lasciato un segno enorme. Questo che pongo alla nostra lettura non è una poesia, ma un articolo, che perdonatemi, risuona con certe mie sensazioni. Ginzburg lo scrisse per il quotidiano La Stampa che lo pubblicò il 22 agosto del 1971:

«Odio l’estate. Odio l’estate. Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di Ferragosto. Passato il Ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me. Cominciano i temporali d’autunno. Amo l’autunno e nell’autunno, di solito, scrivo qualcosa. Nell’estate, rarissimamente riesco a scrivere. Non odio l’estate per il caldo. Non mi accorgo del caldo e non me ne importa niente. Mi ricordo che fa caldo solo quando ne parlano gli altri. In verità ho cercato più volte di spiegarmi perché odio tanto l’estate. Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliegie. Allora, a Torino, c’erano molte carrozze, e i vetturini cacciavano in testa ai cavalli, d’estate, cappucci di tulle per difenderli dalle mosche. Io dicevo che i cavalli erano “vestiti da fata”. Ai primi cavalli “vestiti da fata” mi sentivo felice. L’estate significava andare in villeggiatura. Comparivano nel corridoio i nostri bauli, enormi e vecchissimi, con lastroni di ferro rugginosi, una sorta di dinosauri. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. Per quattro mesi, stavamo in montagna. Il luogo e la casa li decideva mio padre. Erano sempre, secondo mia madre, case scomode e luoghi noiosi, dove non si trovava nessuno con cui scambiare mezza parola. Assistevo alla cerimonia dei bauli con viva gioia. La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre. Appena ero in montagna, mi immaginavo di essere un’abitante di quei luoghi, nata là e destinata a vivere là per sempre. Mi sforzavo di cancellare dalla mia memoria la nostra casa di città. Non avevo altri bambini con cui giocare, e camminavo sola nei prati cercando cavallette e ranocchie. Allora non conoscevo la noia o la conoscevo appena, mi durava pochi istanti. Per pochi istanti, sbuffavo e ciondolavo intorno alla casa. Venivo subito rimproverata. Secondo mio padre, annoiarsi era una colpa sempre, ma soprattutto in montagna. Mia madre invece sembrava pensare che il diritto alla noia l’avevano soltanto i miei fratelli e lei stessa. Io non avevo questo diritto essendo piccola. Secondo mia madre, i bambini non dovevano mai né sbuffare né ciondolare. […] A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Non me ne importava più niente delle cavallette e dei rospi. I libri che avevo portato con me li avevo letti e riletti nello spazio di pochi giorni. E inoltre stare a leggere in solitudine mi sembrava un’umiliazione. Mi sembrava che avrei dovuto avere degli amici, ma non ne avevo. Non sapevo assolutamente come passare il tempo. Ero a un tratto diventata pessimista. Inoltre, ero sola a patire la noia perché i miei fratelli diventati adulti non venivano più in montagna con noi, e mia madre stranamente non sbuffava più. Mia madre seguiva mio padre nelle sue passeggiate e con lui lodava la bellezza della natura e la purezza dell’aria. I miei genitori mi sembravano ora molto vecchi. Dalle loro figure contente e vecchie, che insieme camminavano per i sentieri, mi sembrava si propagasse una noia senza nome. Benché invitata a seguirli, non li seguivo, camminare in loro compagnia mi sembrava umiliante, sarebbe stata una dimostrazione palese che non avevo amici con cui passeggiare. Ogni giorno speravo che piovesse, perché se pioveva, potevo starmene in casa, nascosta agli occhi del prossimo. Se non pioveva, ricevevo dai miei genitori l’ordine di “stare all’aria”, e ubbidivo, per antica sottomissione. Leggevo su un prato. Leggevo però senza nessun piacere. Passavano sui sentieri gruppi di ragazzi e ragazze a me sconosciuti, con scarpe di gomma e racchette da tennis. Non potevo unirmi a loro perché non sarei riuscita a scambiare con loro una sola sillaba. Essi mi ispiravano un’invidia mortale. Erano dotati del privilegio supremo di non essere figli dei miei genitori, di non assomigliarmi in nulla, di non avere la più lontana affinità con me. Erano dotati del privilegio supremo di essere il prossimo. […]. Fu allora, in quelle villeggiature solitarie, che io presi a detestare l’estate. Pensai allora che la mia presenza sui prati, nei pomeriggi splendenti, era come una macchia nera che deturpava la felicità della terra. lo non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate, così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte. Scopersi, in seguito, che una simile sensazione non ero io sola a provarla, che era una sensazione comune a molti, perché molti come me in qualche istante della loro esistenza si sono sentiti esclusi e mortificati dall’estate, giudicati per sempre indegni di raccogliere i frutti dell’universo. Molti come me allora hanno odiato lo splendore abbagliante del cielo sui prati e sui boschi. Molti come me ai primi segni dell’estate si sentono in angoscia come all’annuncio di una disgrazia, perché in essi risorge lo spavento del giudizio e della condanna. A noi sembra allora di trovarci senza scampo, inchiodati nel punto dove siamo. Chi è solo, a un tratto, ha l’esatta misura della propria solitudine. Il ritmo abituale dei giorni si spezza. Le consuete sofferenze diventano insopportabili, rischiarate incessantemente da una luce solare e crudele. La nostra vita giace in disordine ai nostri piedi. Ci sentiamo costretti a enumerarne ogni dolore o errore. La luce dell’estate illumina senza misericordia il nostro silenzio, la nostra persona immobile, circondata di antiche e nuove catastrofi. Ci sentiamo a un tratto seduti sul banco degli imputati. Come in un interrogatorio di terzo grado, noi restiamo immobili, annichiliti e stravolti. Impossibile nasconderci a noi stessi e agli altri. Impossibile alzare un braccio per nascondere il nostro volto. Alle domande che ci saranno poste non sapremo rispondere. Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio. Risorge in noi l’antica disperazione dell’adolescenza, quando abbiamo capito a un tratto che eravamo chiamati a essere diversi e felici, ma noi eravamo incapaci di ubbidire a un simile richiamo. Sappiamo per vecchia esperienza che, dopo Ferragosto, il processo sarà finito. Saremo risospinti a poco a poco in una quieta penombra. Là, potremo bisbigliare a noi stessi un nostro privato e personale perdono. Raduneremo intorno a noi con pazienza le nostre sparse rovine. I giorni fino al Ferragosto ci sembrano eterni. Detestiamo la città vuota nel sole accecante, i cinematografi vuoti dove si danno film di terrore. Assistiamo a quei film con indifferenza sia perché sono brutti, sia perché siamo già per conto nostro in preda al terrore. Detestiamo però più ancora la folla dei treni. Tutti partono, e ci chiedono se anche noi partiremo. Impossibile rispondere, quando siamo nel numero di quelli che non «hanno voglia né di partire né di restare». (Natalia Ginzburg)