la scrittrice viaggia, di Tiziana Concina

La scrittura di viaggio, l’odeporica, è un genere letterario dai confini sfumati. Chi viaggia è naturalmente spinto a comunicare le impressioni che nascono dal contatto con una realtà lontana; lo stupore, la curiosità, la fatica, il timore che accompagnano il/la traveller molto spesso si depositano sulla carta, tuttavia le modalità di questa comunicazione possono essere assai varie e fortemente condizionate non solo dalla personalità e dalla formazione di chi scrive ma pure dalle motivazioni del viaggio.
Coloro che intraprendono il Gran tour, fortunata pratica di formazione per giovani di una elevata classe sociale, inviano a casa lettere ricche di dettagli curiosi e di notazioni personali o, al loro ritorno, scrivono memorie, spesso nostalgiche; le spedizioni che dal Settecento in poi, sempre più frequentemente, vengono organizzate da chi è naturalista e botanica/o oppure amante dell’arte e dell’archeologia, alla ricerca di specie sconosciute o reperti antichi, producono resoconti che, sebbene non propriamente specialistici, vogliono essere oggettivi e hanno aspirazioni classificatorie; quando poi il viaggio ha finalità di scoperta geografica o, addirittura, ha motivazioni diplomatiche e militari, le relazioni che vengono inviate sono trattazioni scientifiche e rispondono a richieste specifiche.
Dall’Età dei lumi in poi il desiderio di viaggiare coinvolge un numero sempre maggiore di persone, appartenenti a classi sociali diverse, che partono spinte dal piacere dell’avventura e della scoperta e testimoniano le loro esperienze con grande libertà, attingendo a modelli precedenti della letteratura popolare e romanzesca, con una mescolanza di generi e di registri che sconfina nell’autobiografia, nella memorialistica, nella epistolografia.
Se poi chi viaggia e scrive è una donna, che raramente ha incarichi ufficiali e quasi mai aspira alla pubblicazione dei propri testi, l’autonomia e l’originalità dell’espressione è ancora maggiore, priva di vincoli esterni e in grado di proporre punti di vista inediti.
La diffusione di giornali e riviste tra la fine del XIX secolo e il secolo successivo garantisce nuovo spazio alla scrittura odeporica: da un lato si afferma il reportage, prodotto da una/un inviato della testata, spesso in grado di muoversi in zone di guerra e di calamità, dall’altro ha sempre maggior successo l’elzeviro, pubblicato in terza pagina da scrittrici e scrittori affermati, attenti al valore letterario dei propri testi, che spostano l’attenzione dalla pura osservazione dei luoghi visitati alla riflessione soggettiva, alla narrazione originale nata dalla sensibilità e dalla cultura dell’autore e dell’autrice.
Insomma la scrittura di viaggio diviene letteratura di viaggio e, grazie a firme come quelle di Carlo Emilio Gadda, di Tommaso Landolfi, di Pier Paolo Pasolini, di Anna Maria Ortese, nascono pagine bellissime.
Tra le tante testimonianze appare singolare, forse unica, l’esperienza di viaggio e di scrittura di Anna Maria Ortese. Figura di intellettuale insolita, estranea ai salotti e alle mode letterarie ma in contatto con editori e personalità del suo tempo, dotata di una sensibilità estrema e visionaria, spesso scomoda, l’autrice de Il porto di Toledo, L’iguana, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari, è stata una viaggiatrice instancabile. Viaggiatrice non è forse la definizione più corretta, Ortese è stata piuttosto una nomade, costretta a un continuo peregrinare dalle difficoltà economiche e dalla solitudine, ma anche da una sua propria ritrosia a radicarsi, ad appartenere, ad accettare di guardare il mondo dal punto di vista pacificato e rassicurante di chi si sente in salvo, a casa, e può ignorare il dolore dell’esule.
Molti dei viaggi di cui Ortese dà testimonianza nei suoi lavori nascono per motivazioni economiche: si tratta di guadagnarsi il pane e le corrispondenze commissionate da periodici e quotidiani fanno sperare in un compenso, sebbene non sempre garantito. «Qualche volta viaggiavo per un giornale, qualche volta no. E i giornali erano, nel caso fortunato, di destra (per dire che pagavano), in quelli meno fortunati di sinistra o piccola sinistra (per dire che spesso il compenso era di pochi spiccioli, e a volte nemmeno)», Ortese, La lente scura).
Gli articoli apparsi sulla stampa vengono parzialmente raccolti in volumi come Il mare non bagna Napoli e Silenzio a Milano, per essere poi pubblicati, nel 1991, in La lente scura, silloge ordinata dall’autrice con testi usciti originariamente tra il 1939 e il 1964 e altri inediti.
Non vi è alcuna sicurezza nel modo di viaggiare di Ortese, non la volontà ferma che accompagna abitualmente le donne che si mettono in viaggio, tutto sembra sottrarsi alla possibilità di determinare con certezza il proprio destino e di avere una presa salda sulla realtà. Il racconto Il battello di Dover dà conto dell’arrivo di Ortese a Londra: il viaggio viene narrato con la levità di una favola, il funzionario addetto ai passaporti si mostra comprensivo davanti alle difficoltà linguistiche della scrittrice e viene paragonato a una lucciola, «questo essere cominciò a emanare una specie di luce, quale hanno certi insetti nelle notti estive; e come invisibili antenne, terminanti in una capocchia azzurra, ch’erano gli occhi, si alzarono nel suo viso, tanto scarno da sembrare un pretesto, l’illusione di un viso: e, sorridendo, mi annunciavano la loro amicizia». Il treno che da Dover giunge a Londra diventa «una casa bassa e lunga, una serie di piccole stanze arredate in modo tranquillo e confortevole», e si muove con la velocità di un tappeto volante. E, sebbene la città si mostri amichevole e accogliente, la scelta di rimanervi per l’intera esistenza o di allontanarsene subito è affidata ai movimenti di un gatto grigio accoccolato su di una balaustra». «Guardandolo, io dissi a un tratto fra me: se quel gatto rimane ancora un minuto dov’è, anch’io rimango dove sono, cioè in quest’isola, e per sempre; se invece entra in casa, vuol dire che non gli sono gradita, e allora me ne vado immediatamente». Il gatto, stiracchiandosi, si mosse e Ortese partì.
Attenzione però a non dar credito alla pretesa pazzia, alla dichiarata nevrastenia dell’autrice: la rinuncia a un approccio razionale, alla misura abituale, nasce dalla volontà di cogliere una realtà più profonda che sfugge allo sguardo miope e sempre uguale con cui osserviamo il mondo. La forza con la quale Ortese costruisce una narrazione ammaliante e visionaria cancella il pericolo di ogni sentimentalismo o romanticheria, ci spinge verso una diversa relazione con l’esistente, che contempli anche il mistero.
Dunque viaggiare non è per Ortese l’affermazione di un soggetto che prende possesso, che garantisce con il suo stesso esserci la veridicità di ciò che osserva e racconta, è piuttosto il muoversi timoroso e stupito di chi si affaccia al mondo quasi contro voglia, privo delle coordinate abituali, dei riferimenti temporali e spaziali che solitamente ci illudono di esser padroni di noi stesse. Spesso il racconto del viaggio ha il tono del sogno nel quale i confini sono incerti, si perde il senso del tempo e l’ordine degli eventi, mentre si ingigantiscono dettagli secondari.
Nel Il treno russo, resoconto del viaggio, durato quasi quattro giorni, che porta Ortese a Mosca, come membro di una delegazione dell’Unione donne italiane, per la prima volta invitate a visitare l’Unione Sovietica — il resto del gruppo aveva viaggiato in aereo — da subito viene meno ogni riferimento geografico, i luoghi e le stazioni si confondono, mentre tutta l’attenzione è posta nel cogliere le posture, le espressioni, i sentimenti delle/dei compagni di viaggio: accompagnate dal rollìo incessante del treno ci si può comprendere senza intendere le rispettive lingue, si può piangere insieme senza quasi conoscersi. Il timore che nasce dal trovarsi in un contesto estraneo lascia il posto alla curiosità verso quanto di umano si rivela nell’incontro.
In questa raccolta di racconti, come in Altri ricordi di Mosca, testo nato dalla stessa occasione di viaggio, non emerge quasi nulla di ciò che probabilmente un lettore/lettrice negli anni Cinquanta si sarebbe aspettato di sapere riguardo alla realtà, poco conosciuta in Occidente, del mondo sovietico. Appena qualche riga viene dedicata ai luoghi del potere, al Cremlino, alla Piazza Rossa, alla chiesa di S. Basilio, paragonata «a una nave a metà scomparsa nella tempesta», maggior spazio viene concesso ai passeri che dal Cremlino giungono, affamati, fino alle finestre dell’albergo che ospita la scrittrice.
Spasmodico è invece l’interesse verso le donne sovietiche che fungono da ospiti e interpreti, l’attenzione ai loro gesti amichevoli che rincuorano, alla purezza dei visi, alla profondità degli sguardi che portano con sé la testimonianza del dolore sofferto, del ricordo dei morti, degli anni terribili. La scrittrice, che si definisce «malata di memoria del mondo», sente una vicinanza sororale alla sofferenza delle donne che incontra e vuole capire che cosa significa veramente vivere quella realtà, vuole accogliere la richiesta di comprensione e di accettazione che le sembra giungere dall’umile, riservata disponibilità delle sue ospiti, vuole penetrare il ‘segreto’ che le pare attraversare l’immenso paese e sostenere gli sforzi di un popolo «per uscire dalla vita del sottosuolo alla libera aria» e le speranze delle ragazze che, interrogate, affermano tutte di voler continuare gli studi per diventare ingegnere. Oltre la propaganda, oltre l’ideologia lo sforzo di Ortese sta tutto nel cogliere la dimensione umana, universale, che le pare più viva e sincera lì che nel suo Paese di origine.
Una tale libertà di pensiero non fu gradita a tutti, molti — come Rossana Rossanda — non compresero e giudicarono negativamente il rifiuto di Ortese di schierarsi, il suo disinteresse per la Storia, mentre il mondo, in piena Guerra fredda, si divideva in due blocchi. Ma il punto di vista di Ortese è sempre stato ‘altro’, troppo attento a cogliere il dolore del vivere di chi raramente ha voce per accondiscendere alle attese della società. La scrittrice sintetizza così gli esiti del suo viaggio in Russia: «…c’era molto sacrificio, molta pena, molta sofferenza e obbedienza, e questo era sconsigliabile a dirsi per i Credenti di sinistra; ma anche bontà, speranza, saldezza, e questo non andava bene per i Credenti di destra».
La gran parte degli scritti di viaggio di Ortese sono reportages dall’Italia, nati da occasioni diverse: servizi commissionati da periodici, come i pezzi dedicati al Giro d’Italia del 1955, pubblicati da L’Europeo; articoli di costume, frutto di brevi visite o di soggiorni più lunghi, ispirati a Roma, Milano, Genova, Napoli, usciti su alcuni dei più importanti quotidiani nazionali.
Il tono della narrazione è quasi sempre sognante e visionario, capace di rappresentare l’orizzonte, tutto sommato familiare, delle città italiane attraverso una lente deformante, “scura” appunto, che ammanta di stupore e malinconia, ma anche di curiosa partecipazione, le piccole abitudini del nostro Paese nel primo decennio dopo la guerra. Nulla appare ovvio e scontato, immediatamente comprensibile e rassicurante; gli incontri casuali e i gesti quotidiani vengono registrati con acutezza ma velati di un alone favoloso, resi misteriosi e spesso inquietanti; il mondo, apparentemente privo di una sua propria consistenza reale, chiede di essere continuamente decifrato partendo dal rumore del vento, dal mutare misterioso della luce, dal susseguirsi delle nuvole in cielo.
In alcuni brani le strategie espressive a cui Ortese fa ricorso per costruire il suo originalissimo stile di scrittura appaiono più evidenti. Gli scialli neri di Montelepre, articolo uscito su L’Europeo nel settembre del 1965, e raccolto in La lente scura con il titolo Montelepre, nasce come reportage sul paese natale del bandito Salvatore Giuliano, la cui drammatica epopea, culminata con la terribile strage di Portella della Ginestra, aveva colpito tutta l’Italia.
Ortese descrive il progressivo avvicinamento al paese come un’immersione in un mondo grigio di pietra, una sorta di voragine oscura che si nutre di uomini, in cui non vi è albero o altro segno di vita naturale. Le immagini sono evocate attraverso ampie descrizioni in cui l’utilizzo sontuoso del lessico, che sembra operare per cogliere puntualmente l’oggetto, si accompagna a una spinta connotativa che invece sposta e approfondisce il senso. La concatenazione logica viene interrotta dall’uso insistito dell’ossimoro — «né vedevamo luce, benché non potessimo affermare che fosse notte», «vicinissime, a pochi chilometri di distanza, tutte le meraviglie dei bar erano estremamente lontane» — e dalla presenza di similitudini singolari: i banchi di nebbia che si muovono tra le cime e le valli vengono paragonati a un armento in fuga, al muoversi scomposto di grandi animali che furiosamente si allontanano da un pericolo travolgendo ogni cosa. In tutto il brano permane nel lettore la percezione di un luogo fuori dal mondo, in qualche modo destinato, i cui abitanti sono anch’essi fatti di pietra e di silenzio.
Non si accenna che marginalmente al bandito, le cui vicende dovevano essere ben conosciute in quegli anni, ma si osservano le case e soprattutto le donne avvolte in scialli neri che esaltano il biancore dei volti e la profondità degli sguardi, donne chiuse in un lutto perenne.
Ortese sa cogliere quello che è rimasto a Montelepre: il senso di una sciagura collettiva, del dolore nato da una smania di riscatto.
Ciò che più colpisce in questi racconti di viaggio, estranei alla fascinazione dell’esotico e del lontano, tutti volti a scandagliare la prossimità in una nazione che stava cambiando velocemente, senza la consapevolezza del prezzo che si andava pagando per entrare nella modernità, è l’originale consonanza tra una narrazione visionaria, fantastica e l’acutezza dello sguardo, in grado di cogliere i segnali più minuti dell’impoverimento morale, del triste ripiegarsi sui nuovi bisogni: la famiglia romana che mangia in trattoria e, estranea a sé stessa, ripete riti conosciuti — litigi, discussioni, invidie — in un vociare che impedisce ogni comunicazione o la fuga estiva dall’afa di Milano, concessa solo ai nuovi ricchi e ai ricchi di sempre.