cinque vite, di Ester Rizzo

Il 19 luglio 1992, alle ore 16,58, il tritolo inghiottì la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta: Vincenzo Fabio Li Muli, Eddie Walter Max Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina ed Emanuela Loi.
Spesso nella sinteticità della notizia o del ricordo, quelle cinque vite unite per sempre, sono rimaste dentro «un contenitore chiamato Scorta», come scrive Mari Albanese in Cinque Vite. Racconti inediti dei familiari della scorta di Paolo Borsellino (Navarra Editore 2024) con la prefazione del giornalista e saggista Enrico Bellavia.
L’autrice, impegnata in progetti volti alla sensibilizzazione sull’antimafia, soprattutto nel mondo della scuola, ha raccolto pazientemente e con grande sofferenza le testimonianze di familiari delle vittime, restituendoci l’umanità, la sensibilità, gli amori, gli affetti, le speranze e i sogni di ciascuna/o di loro. Sogni, amori, passioni che travalicano l’eroismo e che ci riportano a frammenti della nostra vita anche lontani.
È questo, a nostro parere, il grande pregio di questo libro: la restituzione di un pezzetto della nostra quotidianità nella narrazione inedita di quelle cinque vite, dove dettagli e ricordi sono uguali a tanti nostri dettagli e tanti nostri ricordi.
Con grande delicatezza e sensibilità Mari Albanese traccia quei profili, scava nelle pieghe dell’animo e ci racconta il percorso di dolore dei loro familiari che continuano a vivere pur sentendosi morti dentro. Per l’autrice non è stato facile srotolare un tempo lungo ventidue anni, raccogliere il tritolo scoppiato nei cuori di chi viveva in famiglia, separare le lacrime dalle parole, raccontarci queste vite spezzate attorcigliate fra le sue dita in attesa di una trama.
Fabio Li Muli rivive con le parole delle sorelle Tiziana e Sabrina che hanno perso un fratello di ventidue anni e della fidanza Victoria. «Eravamo quattro figli […] papà lavorava come operaio in un’impresa edile e la mamma era una casalinga. La nostra casa non era molto grande […] dormivamo tutti nella stessa stanza, ma non ci pesava, al contrario era molto bello e divertente […] i primi racconti dei nostri amori […] era il mio punto di riferimento […] era bravissimo a scuola, lo chiamavano il professore».
Fabio aveva due sogni: fare il poliziotto e comprarsi una moto. Il primo si avverò per il secondo non ci fu tempo.
Victoria dopo trentadue lunghissimi anni di silenzio ha deciso di aprire lo scrigno dei ricordi. È rimasta prigioniera di «un passato che non passa, che non sa farsi futuro». Un amore che non si è mai arreso alla morte e resta impigliato nelle frasi di biglietti e cartoline e nelle impronte di monete rinchiuse in un salvadanaio che non è stato ancora aperto e che racchiude un progetto di vita, un matrimonio, che non si compirà mai.
Per raccontare la vita di Eddie Walter Cosina, la mamma e le sue sorelle hanno affidato il compito alla nipote Silvia. Loro hanno scelto di restare chiuse nel doloroso silenzio.
Eddie Walter Cosina era nato in Friuli e aveva fatto richiesta per essere assegnato alla Dia. La richiesta fu accolta, protocollata proprio il 23 maggio 1992, giorno dell’uccisione di Falcone, della moglie, la magistrata Francesca Morvillo e dei poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. A giugno lasciò la sua terra per la richiesta di rinforzi della Questura di Palermo. La richiesta era ovviamente indirizzata a tutte le questure d’Italia. Cosina era il secondo della lista, il primo era un collega che era diventato papà da meno di un mese e così si offrì di partire al suo posto. E fatalità volle che anche quel 19 luglio si offrì al posto di un collega appena arrivato da Trieste a cui aveva detto: «Non ti preoccupare, hai viaggiato tutta la notte in treno e sarai stanchissimo, copro io il tuo turno, tanto domani torno a casa e avrò tempo per riposare». Ma quella generosità ritornò a casa chiusa in una bara lasciando negli occhi della madre e delle sorelle «un velo che non li rende più brillanti […] e le tonalità dell’anima mutate in maniera irreversibile». I familiari, oggi, attraversano la vita camminando come su un filo del rasoio: «In equilibrio sopra la follia».
Il ricordo di Agostino Catalano è affidato a Tommaso, uno dei sette, fra fratelli e sorelle, della sua numerosa famiglia. Con gli occhi puntati sull’albero della pace di via D’Amelio, Tommaso ricorda che il sogno di Agostino era stato sempre quello di fare il poliziotto. Si era sposato a vent’ anni con Maria e avevano tre figli: Emanuele, Emilia e Rosalinda. Amava le bambine e i bambini e tentava sempre di strapparli dalle “cattive strade” di Palermo. Pochi giorni prima del 19 luglio aveva salvato dall’annegamento, nel mare di Mondello, un ragazzino. Aveva un carattere generoso, amava la vita ma dopo il 23 maggio di quell’anno il suo volto sorridente era sempre rabbuiato. Agostino portò a spalla la bara di Giovanni Falcone. Di lui restano oltre l’insegnamento per il senso del dovere e della libertà anche molti suoi quadri: amava dipingere e in tutte le caserme dove ha prestato servizio ha lasciato un suo quadro.
Claudio Traina rivive nelle parole del fratello Luciano anch’egli poliziotto, negli anni più bui della Squadra mobile di Palermo dopo l’omicidio del Vicequestore Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia nell’estate del 1985. Per Claudio, il piccolo di sei figli, l’esempio di Luciano fu determinante nella costruzione del suo futuro. «Era un bambino molto intelligente e solare, sempre sorridente […] amava il teatro […] dopo aver vinto il concorso nel 1987, fece la Scuola di polizia ad Alessandria, poi fu trasferito a Milano».
Lì conobbe Maria da cui ebbe un figlio: Dario. Fu trasferito a Palermo nel 1991 all’Ufficio Scorte. Dopo la strage di Capaci fino al 17 luglio non aveva avuto neanche un giorno di riposo. Quel 19 luglio, nonostante i turni massacranti non si sottrasse al suo dovere e alle sue responsabilità, concedendosi soltanto la mattina, un’uscita in barca con il fratello per condividere la passione per la pesca. Luciano fu l’ultima volta che lo vide. Alla notizia della strage si precipitò in via d’Amelio dove ritrovò solo un pezzo di gamba di Claudio con il pantalone smembrato e nel piede una scarpa. «Claudio era lì in una gamba soltanto».
Emanuela Loi ha il triste primato di essere stata la prima poliziotta uccisa dalla mafia. Era nata in Sardegna nel 1967 e la sua aspirazione era diventare maestra ma il destino non glielo consentì. In Cinque Vite il ricordo è affidato alla sorella Claudia più piccola di un anno. Una sorella con cui Emanuela ha vissuto quasi in simbiosi, con cui ha condiviso tutta l’infanzia e l’adolescenza.
Claudia mentre racconta i dettagli di quella vita precedente non piange: non ha più lacrime. «Mi pare di rivedere Emanuela e il suo meraviglioso sorriso da bambina, era sempre allegra e di buon umore, come se avesse il sole dentro». E i ricordi scorrono: Emanuela per Carnevale vestita da Cappuccetto Rosso, i suoi voti a scuola sempre i più alti della classe, le canzoni di Baglioni ascoltate e cantate insieme, un viaggio a Palma di Maiorca. Dettagli di una vita insieme che si sono fermati quel 19 luglio. Emanuela è rimasta lì, a ventiquattro anni, smembrata in via D’Amelio.
«Di Emanuela sono rimasti solo i gioielli che indossava quel giorno: gli anelli, una collana e un bracciale. Li ho visti quando ce li hanno consegnati e poi non li ho più guardati. Erano anneriti dal fumo della deflagrazione e tutti storti […] conservo ancora la sua macchina fotografica […] gli album di famiglia […] lei è sempre viva a prescindere da tutto».
Oggi c’è un’altra Emanuela Loi poliziotta. È la figlia del fratello Marcello e per la nipote è un orgoglio portare il nome della zia che non ha mai conosciuto perché nata quattro mesi dopo la strage. «E anche lei, oltre alla grande serietà professionale ha il bellissimo sorriso della zia».
Un sorriso che pare trasparire dalle pagine di Cinque Vite.
Cinque vite intense e coinvolgenti nella trama di una scrittura che ci consegna, commuovendoci, dettagli e destini di “una scorta”.