Émilie du Châtelet, una studiosa alla ricerca della felicità, di Maria Grazia Vitale

Émilie du Châtelet. Una studiosa alla ricerca della felicità

Durante il secolo dei Lumi, forse per la prima volta, alcune donne si rendono protagoniste della vita culturale, soprattutto in Francia, per il loro contributo alle arti, alla scienza e alla politica, oltre che al costume. Citando Montesquieu: «Esse formano una specie di repubblica, un nuovo stato nello stato».

Émilie du Châtelet, matematica, fisica, filosofa, una delle personalità più importanti della cultura del diciottesimo secolo, è un perfetto esempio di questo tipo di donna. Madame Pompon-Newton — questo è il nomignolo che affettuosamente le aveva attribuito Voltaire, senza dubbio il più duraturo e profondo fra i molti amori della sua vita — fu una delle regine dei salotti aristocratici della Francia del suo tempo, al centro dei pettegolezzi, viziata e adorata, ma allo stesso tempo una studiosa colta e appassionata, dai molteplici interessi, protagonista del dibattito scientifico e filosofico del suo tempo. A lei certamente si deve la divulgazione dell’opera newtoniana.
Potremmo anche definirla una “femminista ante litteram”, per la consapevolezza con la quale denuncia la posizione ingiustamente subalterna in cui sono costrette le donne del suo tempo, per l’educazione che viene loro impartita, che di fatto le esclude dalla possibilità di accedere a un’istruzione di valore pari a quella degli uomini.
Nella prefazione alla sua traduzione in francese dell’operetta Favola delle api di Mandeville, Émilie si chiede: «…perché per tanti secoli non è mai uscito dalle mani di donne una bella tragedia, una bella poesia, una storia apprezzata, un bel dipinto, un buon libro di fisica? Perché queste creature, la cui intelligenza sembra in tutto così simile a quella degli uomini, sembrano invece bloccate da una forza invincibile al di qua della barriera… Lascio ai naturalisti il compito di cercarne una [causa] fisiologica, ma finché non l’avranno trovata le donne avranno il diritto di protestare contro il modo in cui vengono educate».
E prosegue: «Sono convinta che molte donne ignorano i propri talenti, a causa della loro educazione, oppure li seppelliscono per pregiudizi e mancanza di coraggio. Ciò che ho vissuto personalmente mi conferma questa opinione. Il caso mi fece conoscere dei letterati che mi dimostravano amicizia, e notavo con estremo stupore la loro considerazione. Allora cominciai a credere di essere una creatura pensante… a un’età in cui c’è ancora tempo per diventare ragionevoli, ma in cui non c’è più tempo per acquisire talenti».

Gabrielle-Émilie Le Tonnelier de Breteuil nacque a Parigi il 17 dicembre 1706, in una famiglia aristocratica. Era la quinta di sei figli, l’unica femmina. Suo padre, Louis-Nicolas Le Tonnelier, barone de Breteuil, ricopriva incarichi ministeriali e a Corte e le permise di essere istruita insieme ai fratelli. Fin dalla prima giovinezza Émilie traduceva dal latino all’impronta e sapeva a memoria i più bei passi di Orazio, Virgilio e Lucrezio. Conosceva il tedesco, l’inglese, lo spagnolo e l’italiano, ma adorava più di tutto la filosofia e le scienze esatte, in modo particolare la matematica.
Émilie cresceva in un ambiente molto stimolante: la sua casa natale era sede di periodiche riunioni letterarie, scientifiche e mondane, che attraevano personalità di rilievo e alle quali a lei era concesso di partecipare. All’età di sedici anni suo padre la introdusse alla corte di Versailles e nel 1725 sposò il marchese Florent-Claude Châtelet, un militare che trascorreva la maggior parte del tempo in servizio di guarnigione. Il loro era stato più che altro un matrimonio di convenienza, dal quale nacquero tre figli.

Ben presto la giovane marchesa diventò una delle protagoniste della vita di corte. Amava ballare e partecipare alle feste, andare a teatro, recitare ed esibirsi al clavicembalo. Émilie non era particolarmente interessata al ruolo di madre e moglie, che non le impediva di avere una movimentata vita sentimentale, cosa del resto abbastanza usuale a quel tempo fra le donne del suo rango. Nonostante ciò, il suo matrimonio, non basato sull’amore, durò per tutta la vita, trasformandosi in un legame di profonda amicizia.
La marchesa ebbe due relazioni importanti, con il marchese di Guébriant, per il quale tentò di suicidarsi, e con il duca di Richelieu, un discendente del cardinale che aveva dominato la Francia un secolo prima.
Ma è del 1733 l’incontro che diede una svolta alla sua vita: quello con Voltaire, che lei aveva già conosciuto da bambina nella casa paterna. Émilie aveva una relazione con Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, uno dei più importanti matematici del tempo, che l’aveva introdotta allo studio della geometria analitica e le aveva fatto conoscere le opere di Isaac Newton. Dopo la fine di questa relazione, Émilie si recò nel castello di Cirey, di proprietà del marito, dove Voltaire, su suo invito, si era rifugiato per sfuggire all’ostilità del regime nei suoi confronti seguita alla pubblicazione delle Lettres philosophiques (1733), molte delle quali dedicate alla filosofia newtoniana, che contenevano anche forti critiche alla società del tempo.
Fra i due nacque una relazione basata su una forte intesa intellettuale, una grande amicizia e una travolgente passione. Per sedici anni abitarono nel castello di Cirey, che ben presto divenne uno dei più importanti centri della vita culturale della Francia. Basti pensare che insieme crearono una raccolta di oltre 21.000 libri, una biblioteca da fare invidia a quelle di molte università dell’epoca. Nella loro dimora non mancavano attrezzati laboratori nei quali realizzavano esperimenti di fisica.

Nel 1737 entrambi parteciparono a un concorso bandito dall’Accademia di Parigi per spiegare la natura del fuoco. Émilie conduceva i suoi esperimenti in segreto mentre Voltaire lavorava allo stesso tema. Si trattava di una sana competizione fra scienziati. Ognuno di loro intendeva confutare l’interpretazione della natura del fuoco come una sostanza materiale. Entrambi i lavori furono pubblicati insieme a quelli dei tre vincitori (incluso il saggio di Leonhard Euler, che vinse il primo premio) e così Du Châtelet fu la prima donna ad avere un articolo scientifico pubblicato dall’Accademia.
Émilie continuò a lavorare sull’argomento per molto tempo, modificando e correggendo il testo originale man mano che le sue idee sulla natura del fuoco si precisavano e evolvevano.

Nel 1738 Voltaire pubblicò il suo Eléments de la philosophie de Newton. Nel dedicare l’opera alla marchesa, scriveva: «Non si tratta qui di una marchesa né di una filosofa immaginaria. Lo studio solido che voi avete fatto di molte nuove verità, e il frutto di un lavoro rispettabile, sono ciò che io offro al pubblico per la vostra gloria, per quella del vostro sesso, e per l’utilità di chiunque vorrà coltivare la propria ragione e gioire senza fatica delle vostre ricerche». Queste parole riconoscono a Émilie il contributo dato alla stesura del testo, soprattutto per la parte più strettamente matematica e fisica. Sopra la dedica compare un’immagine allegorica in cui la marchesa, sorretta da uno stuolo di angeli, riflette con uno specchio la luce del sapere dal cielo verso l’autore intento alla scrittura del testo, con la sua corona d’alloro, mentre Newton, dall’alto di una nuvola misura il globo terrestre con un compasso, con lo sguardo rivolto alla donna.

Dopo il 1740 la relazione con Voltaire entrò in crisi. La passione da parte di lui si andò spegnendo, anche se non verranno mai meno l’ammirazione e la complicità intellettuale. Émilie si rifugiò nei suoi studi. Nel delizioso saggio Discorso sulla felicità spiegava con grande consapevolezza il senso di questa scelta: «…penso che l’amore per lo studio, fra tutte le passioni, sia ciò che contribuisce maggiormente alla nostra felicità. Nell’amore per lo studio è racchiusa la passione per la gloria, che è propria di uno spirito eccelso; e questo non è che l’unico modo di acquisirla per la metà del mondo, ed è proprio a questa metà che l’educazione nega i mezzi, rendendo tale piacere impossibile. […] È certo, infatti, che l’amore per lo studio è meno necessario alla felicità degli uomini che a quella delle donne, dato che gli uomini hanno un’infinità di risorse che mancano totalmente alle donne. Essi dispongono di ben altri mezzi per arrivare alla gloria, ed è certo che l’ambizione di dimostrarsi capaci e utili per il proprio Paese e per i concittadini, come l’abilità nell’arte della guerra o di governo o nelle azioni diplomatiche, è per loro più forte di quella dell’amore per lo studio. Le donne, invece, sono escluse da questi tipi di gloria, e quando, per caso, se ne incontra qualcuna che è nata con uno spirito più eccelso, non le resta altro che lo studio per consolarsi di tutte queste esclusioni e di tutte quelle forme di dipendenza alle quali è condannata per il solo fatto di essere nata donna».

Il 1740 è l’anno di pubblicazione de I fondamenti della fisica, apparentemente un libro di testo di fisica per suo figlio, ma in realtà un’opera altamente originale di filosofia naturale. In quest’opera fornisce la base metafisica per la fisica newtoniana. Contemporaneamente inizia a lavorare alla sua opera forse più monumentale: la traduzione in due volumi dal latino al francese dei Principia di Newton.
Nel 1748 Madame du Châtelet conobbe un ufficiale, il marchese Jean François de Saint-Lambert, di 12 anni più giovane di lei. Dal loro incontro nacque una passione travolgente e Émilie rimase incinta. Consapevole del rischio di un parto tardivo, la marchesa cominciò a lavorare in maniera forsennata a quella che sarebbe stata la sua ultima opera. Nell’aprile del 1749 scriveva a Saint-Lambert: «Non perdo un momento di tempo, sacrifico al lavoro ogni sorta di piacere e persino la mia salute e la cena, e, malgrado ciò, le distrazioni e i doveri si moltiplicano. […] Vi confesso che voglio finire la mia opera, soprattutto prima di partorire, dal momento che potrei anche morire di parto». E ancora: «Io sacrifico tutto, persino il mio aspetto. […] Mi alzo alle 9, qualche volta alle 8, lavoro fino alle 3, prendo il mio caffè alle 3, riprendo il lavoro alle 4 e lo lascio alle 10 per mangiare solo un boccone, converso sino a mezzanotte con M. de V. che mi fa compagnia durante la cena e riprendo il lavoro […] fino alle 5 […]. Convengo che se avessi condotto questa vita da quando sono a Parigi, ora avrei finito. […] Ho visto che dovevo rinunciare ad andare a partorire a Lunéville, o perdere tutto il frutto del mio lavoro nel caso io muoia di parto, […]  e ho capito che il solo modo di evitare tutti questi inconvenienti […] era di isolarmi assolutamente, di rischiare il tutto per tutto e di non fare altro che il mio libro».

Questo suo ultimo lavoro verrà pubblicato postumo nel 1759 a cura di Voltaire, che nella prefazione scrisse: «Questa traduzione, che gli uomini più sapienti di Francia avrebbero dovuto fare […] l’ha intrapresa e condotta a termine una donna per la gloria del suo paese. Gabrielle-Émilie […] è l’autore di questa traduzione divenuta necessaria a tutti coloro che vorranno acquisire quelle profonde conoscenze di cui il mondo è debitore al grande Newton. […] Abbiamo assistito a due prodigi: l’uno che Newton abbia scritto quest’opera e l’altro che sia stata una donna a tradurla e a commentarla».
La traduzione di Madame du Châtelet dei Principia, l’unica disponibile in francese, favorì la diffusione dell’opera di Newton non soltanto in Francia ma nell’intera Europa, anche grazie alla grande mole di annotazioni, essenziali per la comprensione della fisica newtoniana dei contemporanei, in particolare quelle in cui la traduttrice inserì il suo concetto originale di conservazione dell’energia, che solo la conoscenza approfondita della geometria analitica e del calcolo aveva reso possibile. Ancora oggi è l’unica traduzione completa in francese.

Il parto fu rapido e avvenne senza problemi. Venne alla luce una bambina, che però sarebbe vissuta solo due anni. Dopo qualche giorno, Émilie, colpita dalle terribili febbri puerperali morì, il 10 settembre 1749. Accanto a lei erano Voltaire, il marchese suo marito e Saint-Lambert.
Le sue spoglie riposano nella chiesa di Saint-Jacques di Lunéville, all’inizio della navata centrale.