storie di gatti e altri animali, di Albertina Vittoria, recensione di Barbara Belotti

Se i vocabolari alla parola recensione indicano, come significato principale, l’esame critico, in forma di articolo più o meno esteso e complesso, di un’opera letteraria o teatrale o cinematografica o pittorica presentata e pubblicata da non molto tempo, allora questa non è una recensione, almeno non nel senso classico. Si tratta piuttosto del desiderio di condividere e consigliare una piacevole lettura fatta a ridosso del Natale: un piccolo volume, edito a ottobre 2024 dalla casa editrice Metauro, dal titolo Storie di gatti e altri animali, scritto da Albertina Vittoria, già docente di Storia contemporanea all’Università di Sassari, da sempre immersa nella storia della cultura e delle istituzioni culturali e politiche italiane del Novecento. Dal contesto della grande storia questa volta la professoressa Vittoria esce per entrare in una piccola e familiare realtà, la sua, in cui lei stessa è non è del tutto protagonista. Si potrebbe dire di trovarsi di fronte a una biografia con storie di animali o, meglio, a una serie di storie animali con biografia.
A farla da padroni, nelle 133 pagine in cui si snoda il racconto, sono i numerosi esseri a quattro zampe che negli anni hanno accompagnato l’autrice, dall’infanzia all’età adulta. Attraverso le storie di ogni animale — gatti, cani, tartarughe, criceti, scoiattoli — la professoressa Vittoria descrive luoghi (le case al mare sul litorale laziale, l’abitazione del nonno in cui cresce con la madre, le altre dimore in cui si trasferisce nel corso della vita), traccia profili di amici e familiari, accenna a eventi personali lieti o dolorosi. Soprattutto però racconta i suoi amici a quattro zampe delineando per ciascuno temperamento, indole, manie, inclinazioni. Perché gatti, cani, scoiattoli o tartarughe un carattere ce l’hanno, proprio come gli esseri umani, e, anche se non sempre risulta gradevole, gli si vuole bene ugualmente.
Il racconto non segue uno sviluppo cronologico e infatti comincia col capitolo dedicato al gatto Gustavo, chiamato così in onore del compositore Mahler. È la storia del grande amore tra Albertina e un siamese beige scuro dagli occhi blu, arrivato nella vita dell’autrice per compensare le crisi, le incertezze e forse anche le solitudini di una giovanissima studente alle prese con gli esami universitari, la vita matrimoniale e l’arrivo del primogenito.
Gustavo non un gatto, è il gatto: «Simpatico, divertente, giocherellone, affettuosissimo» con lei, con il marito che, pur non avendo avuto precedenti col mondo felino, si lascia subito conquistare, con il bambino che, una volta nato, il gatto segue fedelmente pretendendo di stare con lui nella culla. Gustavo, che ha seguito le fasi degli esercizi alla preparazione al parto scegliendo come comoda cuccia il petto della sua padrona che cresceva insieme alla pancia, accoglie il piccolo senza gelosie e timori, lasciandosi fare di tutto, regalando fusa continue nonostante gli strapazzamenti che inevitabilmente il bambino gli infligge. Quando Gustavo scompare il dolore è intenso, tenace, «ho avuto la sensazione — scrive l’autrice — che qualcosa si spezzasse tra me e il mondo felino». E invece, col tempo, altri riaggiusteranno quell’antico filo, nato nell’infanzia e protrattosi nel tempo.
L’amore per i felini gliel’ha trasmesso il nonno il quale, pur apprezzandoli, non gradisce la loro presenza in casa e si oppone che entrino nell’abitazione. Eppure la bambina ci prova a ogni nuova nidiata che scopre nel giardino della casa al mare dove vivono numerosi gatti randagi, chiamati dal nonno “la Gatteria”.
In quella realtà felina, solo apparentemente indistinta, si muove Tamarindo, “eroe romantico” poco propenso a confrontarsi con gli altri gatti bellicosi pronti alla guerra al momento del cibo, mentre Fusto, un gattone bianco e nero con l’orecchio in parte mozzato e cicatrici diffuse sul corpo, segni di lotte per cibo o femmine in calore, domina il circoscritto territorio del giardino in cui la piccola Albertina cresce e impara a osservare. Nel tempo con lei trascorrono le vacanze estive due tartarughe, la cagnetta Caterina, di taglia piccola ma col vocione così profondo e forte da essere scambiata, da chi non la vedeva, per un grosso cane; un’estate viene portato anche lo scoiattolo giapponese Hashimoto che, nell’appartamento di Roma, Albertina è riuscita ad addomesticare, o almeno così sembra. Ha piano piano abituato l’animaletto a uscire dalla gabbietta, a correre tra gli scaffali della libreria, a rosicchiare i libri; ma ogni volta che passa davanti alla finestra della cameretta, lei lo vede incantarsi alla vista di un alto abete: «Sembrava sparire in un mondo tutto suo, quello dei suoi avi che avevano realmente vissuto tra gli alberi e che a lui avevano trasmesso il ricordo. Il suo sguardo era però triste».
Quando arrivano nella casa al mare per la villeggiatura, Hashimoto non può essere liberato: vive all’esterno in una gabbia molto più grande e alta di quella in città, in cui può muoversi, saltare e correre; tutt’intorno gli alberi del giardino che, Albertina immagina, possano attirarlo così come accadeva con l’abete di Roma. E invece nella vita dello scoiattolo e della ragazzina scoppia il dramma: la piccola creatura comincia a muoversi in maniera vorticosa, a non mangiare, sembra impazzita. «Cosa era successo? Tutti quegli alberi lo avevano reso folle? Anche quando vedeva l’abete di fronte alla mia finestra sembrava perdere la cognizione del tempo e rimaneva fermo come in trance. Ora vederne così tanti lo aveva fatto uscire di senno? […] Il quarto giorno lo abbiamo trovato immobile. È morto impazzito a veder gli alberi dove i suoi avi avevano vissuto e che lui non poteva raggiungere» conclude l’autrice.
A ricomporre il rapporto col mondo felino dopo la morte del gatto Gustavo sarà la gatta Micia, una cucciola forse abbandonata, forse scappata che l’autrice trova per caso tra le macchine parcheggiate: gattina e donna si incontrano, si scelgono e i percorsi di vita restano a lungo intrecciati. È lei la protagonista della seconda parte del libro, una presenza incontrastata nella nuova casa romana dove l’autrice sta vivendo una ennesima fase della sua esistenza. Giocherellona da piccola, più scontrosa con passare del tempo, Micia è un vero pezzo di vita, lungo e complesso. Con lei, una volta diventata adulta, la tribù felina aumenta: nascono i cuccioli, la casa si trasforma in un regno felino e la famiglia umana, con la cagnetta Camilla che nel frattempo è arrivata in casa, sembrano ospiti a volte tollerati.
Ogni animale ha il suo carattere: ci sono i timidi, i presuntuosi, i prepotenti, gli egoisti, i pestiferi, i giocherelloni, i docili, tutti insieme in un vivace caleidoscopio di emozioni, sensazioni e scambi. Il libro non vuole essere un trattato di etologia, ma il racconto dei rapporti tra l’autrice e gli animali che hanno attraversato la sua vita, vere e proprie relazioni, spesso complesse, tra esseri viventi. Non troviamo osservazioni oggettive e scientifiche, ma interpretazioni libere e soggettive. Degli animali, nessuno escluso, vive il ricordo, la lettura psicologica, la descrizione di comportamenti, azioni e reazioni costruite secondo riferimenti antropomorfici. Sono proprio queste note di umori e caratteri a rendere la scrittura di Albertina Vittoria godibile, così vicina a quanto tutte e tutti noi possiamo comprendere degli animali. Le gioie, i divertimenti ma anche le angosce e i dolori provati vivendo accanto a essi costruiscono un universo di sentimenti reali, condivisibili e comprensibili attraverso i quali imparare a leggere noi stesse/i.
Un riferimento a parte spetta alle illustrazioni di Margherita Mazzoli, delicate immagini che interpretano a colori alcuni passi del piccolo volume. Sembrano prese da un libro illustrato per l’infanzia e il giudizio non vuole minimamente essere sminuente, tutt’altro. La vivacità cromatica e la freschezza del segno grafico sono complementari al flusso dei ricordi dell’autrice.