quando l’arte racconta le diversità, parte prima, di Livia Capasso

L’arte col suo linguaggio puramente estetico ci restituisce anche molte storie su cui l’umanità dovrebbe riflettere, come quelle collegate al problema delle diseguaglianze etniche. Ed è importante parlarne oggi perché purtroppo il razzismo continua a serpeggiare in molti luoghi, inquina i social, gli ambienti scolastici, lavorativi, sportivi, esplode nella violenza.
Già nei dipinti del Rinascimento compaiono figure africane, non erano comuni e spesso erano frutto di immaginazione piuttosto che di osservazione dal vero. Gli artisti infatti, non avendone conoscenza diretta, ricorrevano a rappresentazioni stereotipate, a volte esagerando le caratteristiche dei tratti fisici. Andrea Mantegna nell’Adorazione dei Magi sul finire del ‘400 inserisce un re nero. Il pittore raffigura anche una serva nera con un copricapo a strisce nel celeberrimo Oculo della Camera degli sposi nel Palazzo Ducale di Mantova.


Vittore Carpaccio dipinge gondolieri neri nella Caccia in laguna, e nell’affollatissimo Miracolo della guarigione dell’ossesso descrive una città multirazziale, quale doveva essere realmente Venezia.

Botticelli nella Cappella Sistina, nell’affresco dedicato alle Prove di Mosè, tra i tantissimi personaggi dipinge due ambasciatori etiopi riccamente vestiti, dall’aria seria e posata.

E chi entra nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma può notare, non senza meraviglia, la tomba e il busto di Emanuel Ne Vunda (1629), primo ambasciatore africano accreditato presso la Santa Sede, proveniente dal Regno del Kongo, oggi Angola.

Certo la presenza di figure di colore nei dipinti antichi non significa parità perché i neri spesso avevano il ruolo di servi. Tuttavia non erano sempre subalterni, quelle presenze ci raccontano un’Italia che era multiculturale.
Nei secoli seguenti, con l’avvento della tratta degli schiavi e del colonialismo, lo stereotipo del “diverso” come essere inferiore si diffonde ancora di più e i governi fanno passare il messaggio del “bianco” come essere superiore, civilizzato, e dell’indigeno come barbaro, selvaggio. Ma molti artisti ne denunciano la vergogna e l’ingiustizia, rappresentando la schiavitù in modo crudo ed esplicitamente negativo.
Il pittore George Morland in un suo dipinto del 1789, La tratta degli schiavi, coglie tutta la violenza con cui i componenti di una famiglia vengono brutalmente separati da negrieri bianchi. Ne Il battello negriero di William Turner una nave è sbattuta dalla tempesta e nelle acque si scorgono i corpi di schiavi neri in balia delle onde e di pesci famelici. Il dipinto fa riferimento a un tragico evento accaduto nel 1781, quando sulla nave negriera Zong scoppiò una terribile epidemia tra gli schiavi; furono tutti buttati in mare, uomini, donne e bambini, con mani e piedi incatenati, nelle acque infestate di squali dei Caraibi.
La zattera della Medusa di Théodore Géricault ricorda un altro terribile evento, il naufragio di una nave francese, la Medusa, avvenuto nel 1816 al largo delle coste africane, dopo che erano stati imbarcati degli schiavi di colore. All’apice del groviglio di corpi nudi, tra vivi e morti, uno schiavo, avendo avvistato un’imbarcazione di salvataggio, sventola un brandello di stoffa; la scelta di mettere in risalto l’uomo di colore fu considerata come l’espressione della simpatia dichiarata dell’autore verso l’abolizionismo. La punizione dei quattro paletti del pittore francese Marcel Verdier (1843) mostra ancora una volta gli orrori della schiavitù: nella scena un uomo nero nudo, legato a quattro paletti sul terreno, viene punito a frustate da un suo compagno, mentre una famiglia bianca con bambini osserva indifferente la scena.




Manifesto dell’emancipazione delle persone di colore e del femminismo fu invece Ritratto di donna nera (Madeleine) di Marie Guillemine de Laville-Leroux, Benoist. Pittrice scomoda e rivoluzionaria, espose il suo dipinto al Salon del 1800 creando scandalo, ma riportandone anche grande successo. A far scalpore non fu solo il colore della pelle, ma anche la posa solenne della giovane donna, che, seduta, avvolta da una tunica bianca, fortemente contrastante con la pelle scura, richiama i classici ritratti di dame e personalità illustri.

A partire dalla fine del XVIII secolo, con le campagne napoleoniche in Egitto e in Siria, la pittura a soggetto orientalista diviene popolare in tutta Europa, accolta anche dal movimento romantico. Il Grand Tour si allarga e include le coste nordafricane e quelle del Vicino Oriente. Spesso viaggiando fisicamente, ma non di rado anche solo con la fantasia, come nel caso di Ingres, gli artisti contribuiscono a diffondere attraverso le loro opere visioni di un’alterità, a tratti imponente e sfarzosa, a tratti umile e misera: scene di musulmani in preghiera, o al mercato, danzatrici dell’harem, bagnanti e odalische popolano i dipinti. La Grand Odalisque di Ingres, dipinta nel 1814, mostra un’odalisca nuda in un harem nell’atto di agitare un ventaglio di piume di pavone. L’ambientazione sfarzosa del dipinto, con i suoi tessuti e arredi opulenti, trasporta lo spettatore in un mondo di lusso e sensualità, ma è anche il risultato di una visione stereotipata, distorta e lasciva che l’Occidente aveva, durante l’Ottocento, di culture lontane, quali quella islamica.

Un accenno di razzismo si nota anche nell’Olympia di Manet (1863): il volto nero della serva che entra porgendo alla donna un mazzo di fiori portato da un cliente non si distingue dal fondo scuro, perdendo così ogni rilevanza.

La Negresse (1868) di Jean-Baptiste Carpeaux è una scultura nata come studio preparatorio per un lavoro molto più imponente, la Fontaine de l’Observatoire, una fontana parigina che rappresenta le quattro parti del mondo, l’Africa, l’Asia, l’Europa e l’America, attraverso figure femminili che sorreggono il globo. Nella Negresse, conosciuta anche come Perché nascere schiava, l’artista ha messo in evidenza la sofferenza della donna, stretta in corde che le impediscono di muoversi. In Forever Free di Edmonia Lewis, prima artista afroamericana di fama internazionale, completata nel 1867, un anno prima della Negresse di Carpeaux, l’artista scolpisce invece due figure libere: l’uomo nero sta in piedi con una catena rotta in mano, e appoggia l’altra mano protettivamente sulla spalla della sua compagna che si inginocchia e congiunge le mani in segno di ringraziamento.
Due anni prima era stato approvato un emendamento alla Costituzione che aboliva la schiavitù in tutti gli Stati Uniti d’America.

Altra scultrice prolifica e attivista per i diritti civili è Augusta Savage, (Green Cove Springs, 1892 – New York, 1962) pioniera dell’Harlem Renaissance. Nel 1937 Savage riceve l’incarico di realizzare una scultura per l’esposizione universale tenutasi a New York. Ispirata dalla canzone Lift Every Voice and Sing, un inno nazionale per i neri, una preghiera di ringraziamento per la libertà, Savage trasforma il canto in una scultura monumentale, che gli organizzatori della fiera ribattezzano The Harp. L’enorme calco in gesso, rifinito in maniera da sembrare un blocco di basalto nero, raffigurava dodici cantori neri che si elevano come colonne di altezze graduate, tanto da sembrare le corde di un’arpa, sostenuti da un lungo braccio e una mano che rappresentavano il sostegno di Dio. Per mancanza di fondi sufficienti per la fusione in bronzo al termine dell’evento l’opera fu distrutta.

Col fascismo la fortuna dell’arte a soggetto esotico e coloniale arriva in Italia. L’alterità coloniale è un concetto fondamentale nella retorica della comunicazione fascista, e va dalla rappresentazione folcloristica, basata su clichés di indigeni come “selvaggi”, dai tratti animaleschi o deformi, a quella di fattezze piacenti e seduttive. Molti artisti partono in maniera autonoma o su invito di enti, e riportano in patria la visione di popolazioni controllate dagli europei e subordinate. Anche la nudità, parziale o totale delle figure femminili esprime sempre un concetto di subordinazione.

Valga per tutti l’esempio di Michele Cammarano, artista napoletano, che ottiene, nel 1888, una commissione ministeriale per una grande tela commemorativa della Battaglia di Dogali. Cammarano, fedele ai principi di oggettività e osservazione dal vero, si reca di persona nei luoghi della battaglia. Ne scaturisce un’opera celebrativa dell’esercito italiano nel contrasto tra bianco/nero, vestito/seminudo. Il gruppo candido delle divise dei soldati italiani è schiacciato sui due lati da masse nere di africani e all’apice dello scontro, al centro dell’opera, l’ufficiale italiano blocca con la sinistra la lancia di un nemico, minacciandolo con la sciabola. Alla sua destra un guerriero africano, coperto da una pelle di leopardo e accovacciato per prendere la mira, simboleggia il nemico selvaggio ma temibile, che come una fiera si prepara all’attacco.
Intanto anche le riviste, in sintonia con gli indirizzi del regime fascista, contribuivano a diffondere la propaganda coloniale.


