il Manifesto di Ventotene, tra piazza e Parlamento, di Alice Vergnaghi

il Vassoio di Ventotene (1940). Opera di Ernesto Rossi che si dilettava in caricature e rappresenta una delle più importanti testimonianze artistiche della vita dei confinati.

Il Manifesto di Ventotene, tra piazza e parlamento

La scena politica italiana si è contraddistinta nelle ultime settimane per una piazza gremita di europeiste/i che si sono ritrovati per condividere i principi di un Manifesto, quello europeista di Ventotene, che l’ha riempita di bandiere europee, ma anche di idee differenti soprattutto in materia di riarmo/disarmo, difesa comune, politica estera e istituzionale europee.

È seguito un infervorato dibattito parlamentare acceso dalla lettura decontestualizzata e incompleta di parti di quel Manifesto che ha provocato sdegno, indignazione e una frattura politica non ricomponibile in un momento delicatissimo della storia di quell’Unione europea che quel documento per primo immaginava.
Le/gli addetti ai lavori considerano quanto è accaduto un esempio da manuale di “uso pubblico della storia”, cioè quando un fatto, un processo, insomma tutto ciò che è oggetto della ricerca storica viene usato al di fuori dei luoghi e dei modi in cui e con cui la si fa al fine di produrre effetti di qualsiasi tipo.
L’uso pubblico della storia non è sempre e comunque negativo: può essere terreno di confronto e di scontro in cui coinvolgere attivamente cittadine e cittadini, ma può diventare anche una forma di manipolazione che nel migliore dei casi appiattisce sul presente la profondità e complessità del passato; nel peggiore genera pericolosi revisionismi che decostruiscono il passato e i valori condivisi da esso prodotti con l’obiettivo di fare propaganda, demagogia e populismo. Proprio per questo bisogna diventare consapevoli di ciò ed essere capaci di scendere dalla giostra, che a volte impazzisce, soprattutto se l’uso pubblico che si fa della storia è di tipo politico. Per sottrarsi, nel nostro caso, ci conviene viaggiare con la mente fino a Ventotene per conoscere tre uomini e due donne che, tra i 30 e i 40 anni, hanno pensato l’impensabile nella storia, e per lasciarci guidare dalle loro parole e azioni più autentiche.

L’isola di Ventotene, situata nel Mar Tirreno, al largo della costa laziale e campana, per le sue ridotte dimensioni e per la sua conformazione, divenne per 13 anni una colonia di confino politico. Il confino era la forma di segregazione mediante la quale, a partire dalle leggi speciali del 1926, il regime fascista condannò al domicilio coatto le e gli oppositori politici, allontanandoli dalle loro attività, dai loro affetti, per far perdere loro la dignità e per evitare che continuassero a credere e agire il loro antifascismo, visto che erano sottoposti alla stretta sorveglianza della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, cioè le camicie nere.
Non era il Tribunale speciale per la difesa dello stato a emettere la sentenza di confino, ma delle Commissioni provinciali presiedute dal prefetto che stabilivano non una condanna, ma una misura preventiva per allontanare i veri o presunti oppositori che non potevano, non essendoci un regolare processo, difendersi. La colonia di confino di Ventotene venne attivata nel 1930 e divenne nota, a partire dal 1939, sia per il numero di oppositori politici confinati (circa 800 nel momento di massima espansione), sia per la loro presunta pericolosità. Tra gli antifascisti che vennero reclusi a Ventotene ci furono il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini; il futuro comandante del Corpo Volontari per la Libertà, vicesegretario e poi segretario del Pci Luigi Longo e il gruppo di coloro che sarebbero poi diventati i fondatori del movimento federalista europeo: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.
La storia politica di questi tre uomini era diversa, ma tutti e tre condividevano, come scrivono nel loro Manifesto, la convinzione che «la civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita» e a partire da ciò imbastirono un grandioso processo storico che aveva la libertà e l’autodeterminazione della persona come centro propulsore.

Altiero Spinelli nella foto segnaletica del Ministero degli Interni

Altiero Spinelli, iscrittosi nel 1924 al PCd’I, era stato un attivo divulgatore delle idee comuniste, all’età di vent’anni venne arrestato e, dopo dieci anni di carcere, fu confinato a Ponza e poi a Ventotene dove maturò la sua critica nei confronti dello stalinismo, in particolare delle purghe staliniane, e dell’abolizione della proprietà privata di cui dice nel Manifesto che: «una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia». La sua posizione di denuncia nei confronti della trasformazione del governo rivoluzionario sovietico in una dittatura personale di Stalin venne giudicata a tal punto pericolosa dalla Direzione del PCd’I da radiarlo dal partito nel 1937; da quel momento venne guardato con sempre maggiore sospetto dagli ex compagni di partito, che temevano, accompagnandosi con lui, di essere a loro volta radiati. Ciò gli permise di passare il poco tempo concesso per i contatti con altri confinati con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.

Ernesto Rossi era più vecchio di una decina d’anni rispetto a Spinelli, aveva pertanto potuto partecipare come volontario alla Prima guerra mondiale e, nel primo dopoguerra, aveva fatto parte del gruppo di ispirazione repubblicana e antifascista che nel 1923 aveva dato vita alla formazione Italia Libera. Successivamente, fece parte del gruppo dirigente di Giustizia e Libertà, movimento politico nato a Parigi e fondato da un gruppo di fuoriusciti antifascisti, i cui nomi più noti erano Carlo e Nello Rosselli ed Emilio Lussu. GL si proponeva di preparare una rivoluzione antifascista che portasse al superamento della vecchia democrazia liberale, giudicata inadeguata perché si era dimostrata incapace di guidare l’Italia nel primo dopoguerra e aveva favorito l’avvento del fascismo; questo ambizioso progetto politico aveva come obiettivo quello di creare una vera democrazia in cui convivessero i principi del liberalismo con quelli di un socialismo non marxista. Rossi condivideva pienamente questa posizione, avendo sviluppato una profonda critica nei confronti del comunismo, del regime stalinista e del dogmatismo marxista.

Ernesto Rossi
Ada Rossi

A causa della sua militanza politica giellista e antifascista, Rossi venne arrestato nel 1930 a Bergamo mentre faceva lezione ai suoi studenti. Trascorse gli anni successivi tra il carcere e il confino, costretto addirittura a sposarsi nel carcere di Pallanza con Ada Rossi, figura di spicco del Movimento federalista europeo per averne organizzato la prima riunione; essere riuscita a trafugare comunicazioni e scritti antifascisti del marito e di altri confinati e aver pubblicato clandestinamente l’opuscolo Per un’Europa libera e unita.

Eugenio Colorni

Eugenio Colorni era il più giovane del gruppo originario dei federalisti europei, era infatti nato nel 1909 a Milano, da una famiglia ebrea. Dopo la laurea in filosofia, che divenne il suo principale campo d’interesse, si recò in Germania dove conobbe Ursula Hirschmann, anch’essa ebrea e oppositrice del nazismo, cosa che l’avrebbe costretta poi a emigrare a Parigi dove i due si rincontrarono nuovamente e decisero di sposarsi. Ursula seguì a Trieste Eugenio, che aveva ottenuto una cattedra in filosofia, e si laureò poi in letteratura tedesca a Venezia. Accanto agli studi e alla famiglia, i coniugi Colorni coltivarono insieme l’antifascismo e l’opposizione clandestina. Eugenio Colorni si era già avvicinato al gruppo di GL, che venne poi colpito da molteplici arresti da parte dell’Ovra, per questo prese contatto con alcuni socialisti milanesi che avevano dato vita a Milano a un comitato di coordinamento di cui poi sarebbe diventato lui stesso il responsabile. Con l’inizio della campagna razziale, Colorni venne arrestato nel 1938 a Trieste dall’Ovra e condannato al confino a Ventotene, dove rimase dal 1939 al 1941, continuando i suoi studi filosofici, ma anche avvicinandosi alle idee federaliste di Spinelli e Rossi con i quali collaborò nell’ideazione del Manifesto.
Lo seguì a Ventotene anche Ursula che, non essendo sottoposta, come la moglie di Rossi, a nessun tipo di restrizione, ebbe un ruolo decisivo nella diffusione delle idee federaliste di cui fu sempre un’indomita attivista, partecipando alla prima riunione clandestina del movimento federalista, collaborando alla redazione del foglio clandestino L’Unione Europea e, nel secondo dopoguerra, fondando l’associazione Donne per l’Europa nella convinzione fosse necessaria una maggiore partecipazione femminile al progetto europeista.
Nel 1941, Colorni venne trasferito a Melfi, da dove riuscì a scappare e si rifugiò a Roma, dedicandosi all’organizzazione del Partito socialista italiano di unità proletaria e continuando la sua militanza federalista, che lo portò a pubblicare, nel gennaio 1944, 500 copie del libro Problemi della Federazione Europea che conteneva il Manifesto e una sua prefazione. Fermato pochi giorni prima della liberazione della Capitale da una pattuglia fascista della tristemente nota Banda Koch, tentò la fuga, ma venne raggiunto da tre colpi di pistola che lo portarono alla morte pochi giorni dopo: aveva 35 anni.

Ursula Hirschmann

Nella sua prefazione, Colorni sottolinea come la lontananza dalla vita politica, consentì ai redattori del Manifesto di guardare con distacco la vicenda politica che aveva determinato l’affermazione del fascismo, cancellando qualsiasi forma di libertà, reprimendo in modo feroce il dissenso e conducendo l’Italia in una guerra disastrosa. Per prepararsi a combattere il fascismo, i federalisti sentivano il bisogno di trovare un altro modo di considerare i problemi politici, sgombrando la mente da dogmatismi, miti e preconcetti legati alla propria appartenenza politica. Ciò li portò alla decisione di percorrere un’altra strada che si basava su un’intuizione geniale: la causa di crisi, guerre, miserie e sfruttamenti è l’esistenza di stati sovrani dominati dalla volontà di dominio di uno sull’altro.

Per una pace duratura e non temporanea, era necessario cambiare radicalmente il sistema politico europeo e, quando si immaginano trasformazioni di questo tipo, non si può pensare ad altro che a una rivoluzione: il lessico rivoluzionario utilizzato nel testo è, quindi, da ricondurre a questa prospettiva e alla prassi rivoluzionaria, non a uno spirito antidemocratico e antilibertario, altrimenti non si spiegherebbe la premessa con cui si apre Il Manifesto nella quale si pone a fondamento del progetto il principio della libertà, il valore permanente dello spirito critico, che deve valutare l’azione politica senza accettare dogmi in modo aprioristico, e l’appello a tutte quelle forze progressiste che non si sono lasciate modellare passivamente dal fascismo: le classi lavoratrici, i ceti intellettuali e gli imprenditori.
L’obiettivo da raggiungere è la nascita di uno stato federale che disponga di una forza armata europea, al posto di singoli eserciti nazionali; che sia in grado di spezzare i sistemi autarchici tipici dei totalitarismi attraverso la nascita di un mercato comune europeo e soprattutto sia dotato di organi e strumenti sufficienti per fare in modo che nei singoli stati federali vengano attuate deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune.

Come si diceva prima, per creare un’Europa libera e unita, Spinelli e Rossi auspicano una rivoluzione. Nel contesto in cui storicamente si colloca la loro riflessione, la rivoluzione era praticabile perché la sconfitta delle potenze dell’Asse, che loro speravano sarebbe avvenuta, ma che nell’agosto del 1941 in cui scrissero il documento, non era scontata, avrebbe determinato le condizioni ideali per trasformare radicalmente il sistema europeo secondo un modello alternativo al nazionalismo, quello federalista.
Quando Spinelli e Rossi immaginano la rivoluzione europea la pensano socialista, ma bisogna capire cosa intendano con quell’aggettivo perché allora come ora esso racchiude in sé molteplici significati, ecco perché bisogna andare oltre la parola e continuare a leggere quello che gli autori dicono dopo: «cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita» e ancora «il principio veramente fondamentale del socialismo […] è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime».
Un socialismo, quindi, di stampo umanitario finalizzato al reale superamento delle disuguaglianze sociali ed economiche che, per Spinelli e Rossi, non si ottiene con la statalizzazione generale dell’economia perché, una volta realizzata, essa porta alla costituzione di un regime, come quello stalinista, criticato perché la popolazione si trova sottomessa alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia.

Alla luce di quanto sopra, va contestualizzata e spiegata meglio anche l’affermazione: «la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio» che gli autori sentono di dover esplicitare dicendo che: «questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei Paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei Paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica». L’idea proposta quindi è che non si possano lasciare ai privati quelle imprese monopolistiche che sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori ricattando loro e lo Stato su beni e servizi essenziali oppure imponendo per loro una politica vantaggiosa così come l’accumulo eccessivo di ricchezza nelle mani di pochi dovrà essere corretto con forme di ridistribuzione della terra (riforma agraria) e forme di gestione cooperativa dell’industria (riforma industriale).
Bisogna poi chiedersi che cosa intendessero Spinelli e Rossi quando scrivevano: «La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria». Per rispondere è opportuno ricordare che con metodologia politica democratica gli autori intendono la strategia politica e non la democrazia tout court che loro non conobbero nei nostri termini, ma in quelli dello Stato liberale che aveva dimostrato la sua inarrestabile crisi alla fine della Prima guerra mondiale quando, non solo non era riuscito a guidare il Paese nella fase di transizione tra periodo di guerra e quello di pace, ma perché la prassi politica liberal-democratica aveva favorito l’avvento del fascismo a cui il parlamento aveva confermato la fiducia anche dopo il riconoscimento della responsabilità politica di Mussolini nell’assassinio Matteotti.
Non condividere una strategia politica non significa però non sostenere un vero movimento rivoluzionario che «dovrà sorgere da coloro che hanno saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica». Il movimento federalista non esclude aprioristicamente la collaborazione con altre forze politiche, ma evidenza la necessità di mettere in atto strategie differenti.

Un ulteriore passaggio che merita un’attentissima disamina si colloca alla fine del Manifesto quando viene pianificata la gestione di quella che Spinelli e Rossi definiscono crisi rivoluzionaria e che può essere intesa come la fase di transizione dal regime fascista alla federazione europea. Se ci si limita a dire che: «[il movimento federalista] dà le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato», non si coglie assolutamente l’essenza del discorso che non è quello di instaurare un altro regime totalitario, ma «organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le masse rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate».
È evidente che non si voglia negare la partecipazione popolare alla rivoluzione federalista, ma non si può prescindere dal fatto che non sia possibile «una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare» e questo non perché, come è stato detto, «il messaggio di quel testo è che il popolo non va ascoltato», ma perché qual era il popolo italiano nell’agosto del 1941? Era un popolo indottrinato da vent’anni di fascismo al nazionalismo, al culto della violenza e della guerra; era un popolo a cui erano stati negati diritti e libertà e che stava combattendo sui vari fronti e in patria una guerra disastrosa.
Un popolo può essere ascoltato se ha una voce, ma quella del popolo italiano era stata silenziata dai pestaggi squadristi, dal sistema di repressione del dissenso e da una martellante propaganda fascista. Quando il popolo italiano tornò ad avere una voce? Quando disse: “NO” all’occupazione nazista, al governo fantoccio della Repubblica sociale italiana e in mille modi e forme diverse si impegnò nella Resistenza che diventò una palestra di democrazia ed è quello che dicono Spinelli e Rossi nella parte finale del Manifesto: «il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere».

Tutto questo accadrà, ma lentamente e progressivamente dall’8 settembre 1943 e fino al 25 aprile 1945 nelle Brigate partigiane, all’interno delle fabbriche, nei Gruppi di difesa della donna, nei Comitati di liberazione nazionale, nelle Repubbliche partigiane, nelle zone libere, nei campi di concentramento e di sterminio, insomma in tutti questi luoghi si impara a camminare dopo un ventennio in cui si era capaci solo di strisciare oppure essere eliminati.
Il Manifesto di Ventotene è stato scritto dalla “Meglio gioventù”, da chi non si è piegato, ha resistito, sacrificando la propria giovinezza, passata tra carcere e confino, o addirittura la propria vita. Nonostante le condizioni non fossero favorevoli, è riuscita a mantenere uno sguardo lucido e acuto, a mettere in discussione la propria militanza politica, a vedere e comprendere gli errori commessi per produrre un modello politico alternativo.

Non solo, perché il Manifesto va oltre e vede lontano, arrivando fino a noi: «le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed abituati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere.
Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti. Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera. Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto.
Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti […]. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra. Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani».

Gli Stati uniti d’Europa e il progetto federalista di Spinelli e Rossi non si sono di fatto realizzati. L’Unione europea è stata e continua a essere un ente intergovernativo, fortemente condizionato dagli interessi dei singoli Stati e ciò ha inficiato pesantemente i processi decisionali delle istituzioni europee, evidenziando quanto i federalisti avevano già previsto: il nazionalismo, sotto mutate spoglie, sarebbe riemerso in varie occasioni, mettendo in discussione l’integrazione europea.
Ripartire dal sogno di Ventotene, quello vero, leggendolo integralmente, studiandolo, contestualizzandolo storicamente e progettando nuovi itinerari per trasformarlo in realtà può essere la strada giusta. È un’impresa lunga e ardua, che in 80 anni non è riuscita, e che ha bisogno di una nuova generazione di europeiste/i, operatrici e operatori di pace, che raccolgano l’eredità dei padri e delle madri d’Europa e, dal basso, sappiano costruire un’alternativa al nazionalismo, fondando un nuovo movimento europeista capace di ideare e diffondere un programma veramente democratico e pacifista per la costruzione di un soggetto politico federale che attui i principi della Carta fondamentale Ue e politiche veramente comuni, senza rimanere vittima degli interessi particolari delle forze politiche nazionali.

Si ringrazia Sara Marsico per il prezioso contributo alla stesura dell’articolo.