che genere di referendum, di Danila Baldo

L’istituto referendario è un momento importantissimo di democrazia diretta, un momento in cui chiunque può partecipare alla vita politica non solo attraverso rappresentanti, ma in modo diretto esprimendo la propria volontà. È uno strumento di democrazia che va tutelato e la migliore salvaguardia è andare a votare e non inficiarne l’autorevolezza, facendolo diventare inutile, accusandolo di essere spreco di risorse pubbliche.
Quindi, al di là dell’essere pro o contro, andare a votare l’8 e il 9 giugno, in questo come in tutti gli altri referendum, è un diritto oltre che, secondo quanto afferma l’articolo 48 della nostra Costituzione, un dovere civico, ineliminabile nella nostra idea di cittadinanza attiva.
È inaccettabile che la stampa e l’informazione pubblica in generale non ne parlino in modo adeguato e che addirittura ci siano parti politiche che esaltino l’astensione al voto: è poi del tutto inappropriato che — al di là di entrare efficacemente nel merito di ciò che si intende modificare — si configuri anche questo momento come una battaglia della più bassa politica fra partiti di maggioranza e di opposizione!
I cinque referendum sono stati richiesti da oltre quattro milioni di persone che hanno firmato per ottenerli e riguardano l’abrogazione di alcuni articoli di legge sul lavoro e sulla cittadinanza.

Di questo abbiamo parlato il 10 maggio 2025 in un incontro promosso dalla CGIL di Lodi, che si è tenuto nella Sala Granata della Biblioteca lodigiana. Perché è importante informare, discutere, approfondire…
Abbiamo visto smantellato a poco a poco l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori fino alla sua totale abolizione, dal 1970 in poi. Era fondamentale per tutelare lavoratori e lavoratrici dipendenti in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio. L’articolo, dapprima modificato nel 2012 dalla riforma del lavoro Fornero, è stato poi abrogato in seguito alla promulgazione e attuazione del Jobs Act da parte del governo Renzi, attraverso l’emanazione di diversi provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2016. Nella sua versione iniziale costituiva l’applicazione della tutela reale, disciplinando il reintegro con risarcimento e l’indennità in sostituzione della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo (cioè effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) di un lavoratore o lavoratrice.
Il primo dei quattro referendum sul lavoro riguarda le imprese con più di 15 dipendenti e chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Infatti le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento dichiarato illegittimo da un/una giudice. Sono oltre 3 milioni e 500mila a oggi e aumenteranno nei prossimi anni le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da questa legge. Occorre abrogare questa norma, dare uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.
Il secondo riguarda le piccole imprese, quelle con meno di 16 dipendenti e qui si chiede la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti, in caso di licenziamento illegittimo. Oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione. L’obiettivo è innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato affinché sia la/il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
Il terzo referendum punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato. In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Occorre rendere il lavoro più stabile, ripristinando l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.
Il quarto interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi 1000 i morti, che vuol dire che in Italia ogni giorno tre lavoratori o lavoratrici muoiono sul lavoro. Occorre modificare le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Per questo diventa necessario cambiare le leggi che favoriscono il ricorso a ditte prive di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche, abrogando le norme in essere ed estendendo la responsabilità anche a chi commissiona il lavoro, garantendo in modo efficace maggiore sicurezza sul lavoro.
Quando si parla di lavoro precario si deve sapere che sono — in modo documentato — in maggioranza le donne a essere penalizzate da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. La segretaria nazionale della Filt, Cecilia Casula, ha invitato tutte le donne a votare sì ai referendum, perché «è proprio il mondo femminile a essere più colpito dai gap» che caratterizzano il mondo del lavoro.
Il tasso di occupazione femminile in Italia è tra i più bassi d’Europa, e l’occupazione femminile tocca il 63% dei part time. Le donne sono sempre più istruite ma anche meno pagate. Nel report del Forum disuguaglianze e diversità presentato a metà maggio Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta si evidenzia bene la componente di genere del fenomeno: tra i diversi fattori che hanno inciso sulla sua crescita c’è l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro che è passata dal 45,4% del 2004 al 52,2% del 2023. Parallelamente è cresciuta la quota di lavoratrici che sul totale delle donne occupate lavora a orario ridotto: dal 24,9% al 31,5% (dati Istat).
Il 20% delle donne con figli piccoli lascia il lavoro a causa della mancanza di supporto adeguato, sia in termini di welfare sia di politiche aziendali family-friendly. Uno studio della Banca d’Italia mostra che le dimissioni delle neomadri aumentano il precariato femminile: il 45% delle donne che si dimettono dopo la nascita del primo figlio/a fatica a trovare un lavoro stabile. L’Italia, a differenza di altri Paesi europei, necessita di riforme per migliorare il supporto alle madri lavoratrici e ridurre la precarietà. Per Susanna Camusso intervenire su questo fenomeno è fondamentale per garantire i diritti delle donne: «Se il lavoro deve essere il luogo della libertà femminile che permette autonomia, autodeterminazione e autosufficienza, quando è un lavoro costrittivo e che per giunta non permette quell’autodeterminazione, diventa una nuova forma di violenza nei confronti delle lavoratrici».
Il lavoro, poi, è uno degli ambiti in cui i divari di genere sono più visibili. Troppo spesso le donne incontrano maggiori difficoltà a trovare un impiego e a coprire ruoli di prestigio e responsabilità, soprattutto a causa di stereotipi riguardo al lavoro familiare e di cura, per cui sono le donne che si ritrovano più spesso inattive. È una condizione che riguarda il 30,5% delle donne europee, quasi 10 punti percentuali più degli uomini. Oppure risultano sottoccupate, costrette a lavorare meno tempo per dare spazio alle svariate incombenze familiari.
Nell’Unione europea risulta occupato l’80% della popolazione maschile in età lavorativa, contro il 69,3% di quella femminile. L’Italia è il secondo paese Ue per differenza di genere rispetto al tasso di occupazione: gap di 17 punti percentuali nel 2024. La segretaria confederale della Cgil, Lara Ghiglione, in merito al Rendiconto di genere 2024 dell’Inps, afferma: «Le donne italiane sono ancora profondamente vittime di una grave discriminazione di genere, rafforzata, se non aggravata, da alcuni provvedimenti dell’attuale governo. Nonostante un livello di istruzione superiore rispetto agli uomini, lavorano meno, guadagnano meno e hanno minori possibilità di crescita professionale. Questa non è solo un’ingiustizia, ma anche una perdita di competenze per il Paese, su cui si dovrebbe intervenire in modo strutturale per rilanciare economia e sviluppo». E sul referendum ha aggiunto: «La Cgil sostiene il referendum sul lavoro, con l’obiettivo di migliorare la condizione delle lavoratrici, garantendo maggiore equità e stabilità nel mercato del lavoro, riducendo discriminazioni nei contratti e nelle carriere».
Il Servizio studi della Camera, che ha analizzato il rapporto fra donne e uomini nella sfera occupazionale nel 2024, presenta dati che parlano di disparità di genere e di ancora una forte discriminazione lavorativa e salariale che va a impattare notevolmente sulle scelte di vita delle donne. Qui in sintesi i risultati:
– la percentuale di donne in posizioni apicali a livello mondiale è salita al 33,5% nel 2024 (dal 19,4% nel 2004), mentre in Italia il 36% dei manager è donna, superando per la prima volta la media dell’Eurozona (35%). Ma solo il 28% delle posizioni manageriali complessive è ricoperto da donne;
– in Italia, solo il 51% delle donne in età lavorativa è occupato, contro il 69% degli uomini: un divario alimentato da stereotipi di genere, precarietà lavorativa e part-time involontario;
– le donne italiane guadagnano in media il 10,7% in meno rispetto gli uomini, con un divario che raggiunge il 27,3% nei ruoli dirigenziali;
– il 18% delle donne in Italia è sottopagato e l’inattività femminile nel Mezzogiorno si posiziona al 43,6%, 30 punti sopra la media Ue;
– nel 2024, il 42% delle nuove assunzioni ha riguardato donne, offrendo quasi il doppio di part-time rispetto agli uomini (49,2% vs 27,3%). Questa forma contrattuale riguarda il 64,5% delle lavoratrici a termine, rispetto al 33% degli uomini;
– il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è di 56,5%, 19,5 punti inferiore a quello maschile (76%) e 20 punti percentuali in meno rispetto il Centro-Nord.
Per concludere, il quinto referendum abrogativo propone di dimezzare da 10 a 5 anni il tempo di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. Nel dettaglio si va a modificare l’articolo 9 della legge n. 91/1992 con cui si è innalzato il termine di soggiorno legale ininterrotto in Italia ai fini della presentazione della domanda di concessione della cittadinanza da parte di maggiorenni. Nel concreto, vissuto anche nella nostra esperienza di docenti, questo permette di partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutte e tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi incivilmente negati alle persone maggiorenni che pagano le imposte e i contributi sociali, lavorano insieme a noi, vivono nelle nostre città e contribuiscono allo sviluppo del nostro Paese.