Matilde Festa Piacentini, di Barbara Belotti

Matilde Festa non prese parte alla prima mostra d’arte della Secessione, nel 1913, però ottenne altri riconoscimenti importanti a conferma del buon avvio della sua carriera di artista: la partecipazione a due manifestazioni organizzate al circolo femminile Lyceum di Roma, città in cui era tornata a vivere stabilmente proprio nel ’13, il secondo posto nel Concorso per il pensionato Artistico Nazionale, l’ammissione all’Esposizione Internazionale di Arte Femminile di Torino.

La sua presenza alle mostre della Secessione è documentata nel ’14 e nell’edizione dell’anno successivo: la prima volta figurò col suo cognome d’origine, mentre in quella del ’15, dopo il matrimonio coll’architetto Marcello Piacentini, aggiunse il cognome maritale che, nel bene e nel male, giocò un ruolo significativo nella sua vita d’artista. Da un lato quel cognome celebre le offrì importanti opportunità artistiche e professionali, dall’altro la fagocitò condannandola a un feroce e doloroso processo di epurazione e di soppressione del ricordo. Doppia cancellazione la sua: di genere e politica, perché essere stata la moglie di Marcello Piacentini, architetto, urbanista e massimo interprete della concezione monumentale dell’architettura durante il periodo fascista, le attirò addosso una revisione critica estremamente punitiva, capace di rendere pressoché ignoto il suo illustre nome e gran parte della sua produzione pittorica. Neanche al potente e celebre marito toccò una sorte così rovinosa. Solo recentemente le ricerche della studiosa Francesca Bottaccin e il restauro condotto dalla Scuola di Conservazione e Restauro dell’Università di Urbino su quindici opere autografe provenienti da una collezione privata, hanno permesso di ricostruire in maniera più accurata il percorso umano e artistico di Matilde Festa. Ma cominciamo con ordine.
Matilde nacque a Roma il 14 marzo 1890, in un ambiente capace di stimolare la sua sensibilità artistica di bambina e di prevedere per lei, senza frapporre ostacoli, una carriera pittorica e «un lieto avvenire», come scrisse sua madre Maria Cristina Forcella in una lettera.

Frequentò l’Accademia di Belle Arti di Napoli agli inizi del Novecento, dopo aver vissuto alcuni anni a Il Cairo insieme alla famiglia: nella capitale egiziana lavoravano gli zii materni Nicola e Francesco Paolo Forcella, entrambi pittori orientalisti di successo, e furono loro a guidare i primi passi artistici della ragazzina. Terminati gli studi accademici e ottenuto il diploma nel 1909, già l’anno successivo Matilde partecipò alla prima Esposizione Internazionale di Arte Femminile di Torino, vetrina significativa per la giovane e talentuosa pittrice che univa temi di gusto orientalista alla pittura en plein air, all’indagine della realtà e a una tavolozza dai suggestivi effetti cromatici.
Un esempio del suo primo linguaggio artistico è il quadro Tramonto alla Tomba dei Califfi del 1911 (scelto come copertina di questo articolo), in cui le fascinose atmosfere del tramonto armonizzano la scena e, come scrisse l’artista Ettore Ximenes nel 1915, «[…] il pensiero si culla nel ricordo di una luce radiosa, di un cielo tranquillo e puro, di un’atmosfera trasparente che vorremmo tornare a respirare: lo strano e tormentoso desiderio che si chiama nostalgia d’Egitto». All’Egitto, alle sue costruzioni e ai suoi scorci, la pittrice dedicò la prima produzione di quadri: alcuni di essi, presenti nella pubblicazione a lei dedicata da Francesca Bottaccin, consentono di ricostruire quei primi anni di carriera. I dipinti, firmati M. FESTA, mostrano vedute quasi magiche, immote e silenti, coinvolgenti proprio per l’aura di attesa, per la capacità di sintesi formale, per gli accordi cromatici e le luci avvolgenti che introducono in una dimensione interiore.


Altri lavori, pubblicati sulla rivista “Emporium” (n° 243 del marzo 1915), rivelano come la pittrice fosse al corrente delle esperienze artistiche d’oltralpe, in particolare quella Nabis che riecheggia nella bidimensionalità e nella linea sinuosa ed elegante con cui concepisce figure e ambienti della vita quotidiana egiziana.

Al rientro a Roma nel ’13, Matilde Festa trovò intorno a sé un ambiente stimolante e favorevole alle donne artiste, conobbe giovani con cui condividere idee e ricerche artistiche, in particolare strinse una profonda amicizia col pittore Ferruccio Ferrazzi, tra le figure più interessanti nel panorama romano, che le dedicò tre ritratti nel corso degli anni.

Matilde dava conferma, con le tante esperienze che affrontava, di essere una pittrice valida, «brava tra le brave nostre contemporanee» come la definì Carlo Villani nel suo dizionario bio-bibliografico Stelle femminili del ‘13. Il suo stile e la sua ricerca pittorica denotavano una personalità interessante e in crescita, la sua vita si rivelava vivace, professionalmente brillante e confortata da riconoscimenti che confermavano quel “lieto avvenire” auspicato alcuni anni prima dalla madre.
Nel mondo della Secessione Matilde Festa conobbe Marcello Piacentini e, vero colpo di fulmine per entrambi, nel giro di breve tempo si sposò con lui, nel giugno del 1914. La vita di coppia fu subito intensa e appagante, ricca di stimoli e opportunità, di relazioni importanti e incontri di alto livello. Nel 1915, anno della seconda e ultima partecipazione di Matilde alla Secessione, moglie e marito partirono per gli Stati Uniti per consentire a Marcello di seguire i lavori di costruzione del padiglione italiano alla Panama-Pacific International Exposition di San Francisco, da lui progettato.
Per lei quel viaggio si trasformò in una significativa opportunità lavorativa perché, oltre ad alcune esperienze espositive, ebbe modo di partecipare alla decorazione del padiglione realizzando nelle lunette del chiostro «un affresco tipo umbro che è riuscito bellissimo e pieno di carattere e di stile» come annotò Marcello in una lettera al padre. Quell’«affresco tipo umbro» tracciò una prima linea di demarcazione nella carriera e nello stile della pittrice che, assecondando i caratteri neorinascimentali del progetto piacentiniano, si allontanò dal linguaggio che le era proprio, «una piccola incrinatura nella sua autonomia creativa […] una prima deviazione del suo stile, che cambia asservito al progetto e alle idee del coniuge» sottolinea Francesca Bottaccin nelle sue ricerche. Ma è anche vero che fu una sfida non da poco introdurre, accanto alla pittura da cavalletto, l’esperienza dell’affresco, tradizionalmente campo artistico maschile.
Negli anni seguenti la carriera di Matilde Festa non conobbe interruzioni e il fatto di per sé non costituirebbe una notizia, visto il favore con cui era stata accolta nell’ambiente artistico romano già prima del matrimonio. Ma dopo le nozze cominciarono a diffondersi commenti e giudizi poco generosi nei suoi confronti, cioè che il lavoro e le occasioni espositive dipendessero dall’essere moglie di “quel” marito affermato, potente, il più delle volte promotore e responsabile dell’organizzazione di manifestazioni artistiche pubbliche e private. Gli studi accademici, le mostre dei primi anni Dieci, i riconoscimenti e i favorevoli giudizi critici ottenuti da Matilde grazie alle proprie capacità cominciarono a sbiadire, a dissolversi, a essere inquinati da voci insinuanti, messi in discussione dai pregiudizi e da notevoli dosi di misoginia.
L’esperienza decorativa per il padiglione italiano alla Panama-Pacific International Exposition di San Francisco costituì per lei l’inizio di nuove ricerche, rivolte alla dimensione ornamentale e al rapporto stretto tra architettura e arti applicate. Ne seguirono subito altre: un arazzo per il cinema Corso a Roma (1917), progettato da Piacentini; due pannelli con intarsi di stoffe antiche per il cinema-teatro Savoia (oggi Odeon) di Firenze ristrutturato sempre da Piacentini.


Nel ’23, a ribadire il percorso intrapreso nel campo delle arti applicate, Matilde Festa partecipò alla prima Biennale di Arti decorative nella Villa Reale di Monza presentando alcuni cuscini e, dieci anni dopo, alla quinta edizione della Triennale di Milano (1933) in cui espose un frammento di pittura murale.
Parallelamente alle esperienze nel campo della decorazione, la carriera pittorica procedeva attraverso eventi di grande risonanza, come la Biennale di Venezia, nella quale fu presente con regolarità tra il 1928 e il 1936. La sua pittura si misurava sia con temi più emozionali e intimistici che con soluzioni in linea con le ricerche artistiche del Novecento, monumentali nelle forme e orientate verso i linguaggi della tradizione nazionale.


Negli anni Trenta un’altra sfida, questa volta mettendosi alla prova con la tecnica del mosaico. Le venne offerta la possibilità di partecipare, insieme ad altre personalità artistiche, alla decorazione dei Palazzi delle Poste e Telegrafi di Gorizia (1932) e di Agrigento (1934-35), progettati da Angiolo Mazzoni amico e in passato collaboratore di Marcello Piacentini. Matilde Festa realizzò per entrambi gli edifici un’immagine di San Cristoforo con Gesù bambino sulle spalle. A Gorizia la figura del santo giganteggia «[…] sull’acque [sic], tra scene di ferrovie, di strade e di porti» si legge nell’edizione del quotidiano Il Piccolo di Trieste, due giorni dopo l’inaugurazione dell’edificio avvenuta il 28 ottobre 1932.

Il mosaico ha dimensioni imponenti e la figura del santo mostra una solida struttura fisica, quasi scultorea, al centro della scena la cui profondità viene scandita da due quinte paesaggistiche e da riflessi luminosi e dorati sulla distesa di acqua azzurra. San Cristoforo, pur nella sua monumentalità e possanza, ha un gesto affettuoso nei confronti del piccolo Gesù sulle spalle, lo tiene per mano e volge lo sguardo verso il bimbo con un’audace torsione del capo. L’atteggiamento, raramente presente nella tradizione iconografica del santo, denota gentilezza e attenzione e Matilde Festa, evidentemente interessata all’aspetto emotivo, lo ripropose pochi anni dopo nel mosaico all’interno del Palazzo delle Poste e telegrafi di Agrigento. In questa occasione, oltre a fornire i cartoni, l’artista seguì in loco la messa in opera delle tessere e il procedere dei lavori.


Una terza opportunità di operare con il mosaico le venne proposta, sempre dall’architetto Mazzoni, per la decorazione della chiesa della stazione Termini di Roma, opera che ebbe un epilogo drammatico per Matilde Festa. La prestigiosa commessa allettò più di un artista (tra cui anche Benedetta Cappa Marinetti) e le pressioni arrivarono a Mazzoni da molte parti. Il progettista prima difese la presenza di Matilde, successivamente sfumò la versione lasciando intravedere sollecitazioni esterne importanti che avrebbero condizionato la sua scelta. La guerra mise definitivamente fine al progetto, ma non alle polemiche e agli strascichi velenosi.
Nell’estate del ’44, l’allora direttore generale delle Ferrovie Giovanni Di Raimondo accusò l’architetto Mazzoni di aver pagato «senza contratto e senza alcuna regolante L. 300.000 alla moglie dell’architetto Piacentini improvvisatasi pittrice di alto valore per aver abbozzato “un pupazzo” per la chiesa della Stazione di Roma Termini». Viene da domandarsi: sarebbe stato scritto un attacco diretto e così feroce a un artista maschio? Senza concedere la dignità del nome e del cognome alla persona, umiliandola con la definizione di “moglie di”, ironizzando crudelmente sull’autorevolezza della sua arte, parlando di “improvvisazione” rimarcata nel successivo sostantivo “pupazzo” per indicare i disegni preparatori? In altre stroncature si arrivò a dire come Matilde Festa non fosse un’artista «ma una dilettante», Gino Severini affermò brutalmente che la «Signora Piacentini […] non sa niente di mosaico ed è un’artista inesistente» e un collaboratore di Mazzoni dichiarò «non mi risulta che la signora Piacentini sia una pittrice di larga fama».
«Matilde, dunque, — scrive la studiosa Bottaccin nel suo testo — colpevole innanzi tutto di essere la moglie dell’architetto di regime, oltre che di essersi arrischiata in un campo di dominio prettamente maschile, diviene il capro espiatorio usato per incastrare Mazzoni, attaccando contemporaneamente Piacentini. […] Matilde diventa la vittima sacrificale e subisce un attacco fazioso revanscista e misogino, a cui lei non ha voce per rispondere».
È indubbio che, come moglie di Piacentini, Matilde Festa poté godere di un canale privilegiato nel campo artistico, trovò aperte molte porte, anche all’estero, fu circondata da persone influenti e giunse ai vertici sociali di allora.

Ma ha pagato un duro prezzo: l’ascesa del marito ha coinciso con lo schiacciamento e la riduzione del suo talento e del suo valore professionale nel mortificante ruolo di “moglie di”; l’ecletticità del suo percorso artistico, gli studi accademici compiuti in un periodo in cui la formazione femminile era quasi una sfida, l’ambizione di cimentarsi in campi tecnici poco frequentati dalle donne non ebbero alcun peso nei giudizi successivi, anzi. Tutto fu letto come un’inopportuna invasione di campo. E alla misoginia si aggiunse lo spirito di epurazione del dopoguerra che, paradossalmente, colpì più Matilde che Marcello.
Senza diritto di difesa né di replica, si ritirò nella dimensione privata e familiare, abbandonando l’arte. Quando morì, nel 1957, dopo anni di silenzio e di assenza dalla scena espositiva, uno scarno trafiletto sul giornale la ricordò come moglie e madre, senza alcun accenno alla carriera passata. L’oblio, continuato per molto tempo, è diventato sempre più consistente a causa della dispersione di molte opere, la ricostruzione del percorso artistico e le obiettive analisi critiche sono state colpevolmente rimandate. Fino a ora.