dove andranno?, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Dove andranno?

Carissime lettrici e carissimi lettori,
«Uno straniero percepisce alcune parole meglio di chi le parli nella lingua madre. Leggendo vari testi sui profughi il fatto di aver notato una grande profusione di termini italiani quasi ci fosse l’impossibilità di esprimere ciò che realmente accade ho raccolto una decina di parole che hanno significati vicini, talvolta sinonimi: profughi, rifugiati, immigrati, fuggiaschi, sfollati, deportati, esiliati, emigrati, espulsi, respinti, espatriati. Potrei aggiungere anche altre, per esempio, clandestini irregolari». Questo scriveva, all’inizio di un suo contributo su una rivista italiana, Predrag Matvejevic, nato nel 1932 a Mostar, luogo significativamente segnato, da padre russo e madre croata, docente, a Roma, di Filologia Slava (per un soffio, purtroppo, non sono stata sua alunna!), ma anche di Letteratura a Zagabria e di Letterature comparate a Parigi e morto nel 2017 a Zagabria. Quasi in un’involontaria visione del futuro, di altre guerre, di altri profughi e profughe, di altri genocidi, di altri sconfinamenti e invasioni, da esperto della parola quale era, grande dicitore di tante lingue, continuava: «Si potrebbe parlare della migrazione anche partendo dalla storia o dalla fede. I libri sacri contengono esperienze importantissime. Nell’Esodo, ad esempio, (esodo ed esilio si differenziano solo per il fatto che l’esodo è un esilio collettivo) si legge: «Non molestare lo straniero né l’opprimerai perché foste anche voi stranieri in terra d’Egitto. Nel Deuteronomio è scritto: ama il forestiero e dagli pane e vestito e ancora quando raccogli la messa nel campo e dimentichi un covone non tornare a prenderlo sarà per il forestiero, per l’orfano, per la vedova, affinché ti benedica il Signore tuo».
Il professor Matvejevic fa un distinguo: «Possiamo distinguere l’immigrazione del libro e l’immigrazione senza libro. L’ immigrazione italiana, ad esempio, era partita con una piccola fotografia, con un breviario, e quando viaggia attraverso gli Stati Uniti si accorge che alcuni emigrati italiani sono diventati grandi scienziati, ingegneri o altro, ma tra loro, in relazione alla letteratura italiana non si trovano nomi di grandi scrittori. Gli italiani sono partiti senza libro. L’immigrazione russa, o più esattamente l’esilio, ha avuto tre premi Nobel per la letteratura o, almeno, un grandissimo scrittore. Bunin, Solgenitsin, Brodskij (sepolto a Venezia, città a cui ha dedicato pagine bellissime) e Nabokov, forse il più dotato fra tutti. L’immigrazione polacca da parte sua ha avuto, nell’Ottocento Mickiewicz e nel secolo scorso Gombrowicz». Continua ancora: «Un altro criterio per definire l’esilio esiste fin dai tempi più antichi e lo si trova già in una metafora omerica: è simile ad alcuni esuli senza onore. Essere esiliato con onore, ovvero, essere esiliato senza onore, è un’altra alternativa antichissima. È doloroso essere a un tempo esiliati e disonorati senza potersi difendere. I regimi totalitari praticano questo tipo di esilio e disonorano colui che se ne va che è un traditore, ha venduto il suo paese. Potrei citare tantissime menzogne che si pubblicavano. In varie parti dell’ex Jugoslavia, ad esempio, si pubblicavano a proposito di alcuni scrittori, me compreso , se avevano scelto di emigrare per non condividere la responsabilità dell’aggressore contro la Bosnia-Erzegovina, la città di Vukovar, l’assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica, l’ebbrezza della distruzione del vecchio ponte di Mostar, mia città natale… Il discorso della migrazione a volte è un discorso di consolazione. Ci si consola paragonando il proprio destino a quello di un altro. C’è un testo di Plutarco, all’alba della storia, di consolazione alla moglie in cui diceva: molti erano esiliati. Aristotele era di Stagira, Teofrasto di Ereso, Stratone di Lampsaco, Glicone della Troade, Aristone di Chio, Critolao di Fraselide e, nella scuola stoica, Zenone era di Cisio, Creante di Asso, Crisippo di Sori, Diogene di Babilonia e tutti hanno dovuto abdicare, e aggiungeva, se non fossero partiti forse non avrebbero fatto quello che hanno»
Qui la consolazione. Nella disperazione delle partenze, degli abbandoni, degli addii, per sempre, lontani e lontane dalla propria terra, dalle origini concrete.
Uno stralcio lungo di un articolo che apparentemente sembra staccato dalla cronaca dell’oggi. Ma a me riporta con estrema forza alla realtà della situazione, ugualmente estrema, tra le due guerre: quella di ieri e quella di oggi, entrambe etniche, che sottendono una volontà di genocidio, uno spingere a un esodo “giustificato”, detto “volontario”, a un esilio forzato di un popolo. La realtà della Jugoslavia, allora, che si smembrava dolorosamente, e quella di Gaza, ora. Gaza con i suoi e le sue abitanti bersaglio che non sa dove ripararsi. «Nessuno li vuole»! Dice l’ambasciatore Ettore Sequi. Dell’esodo, detto “volontario”, viene deciso anche il paese di approdo, il Sud Sudan, pieno di guerre e di carestia, con un clima pessimo. Un olocausto, l’orrore sull’orrore. Alternative? L’Egitto, i paesi arabi, la Giordania. «Non li vuole nessuno». In quali metaforici o concretissimi deserti vagherà chi è sopravvissuto alle bombe di Gaza? «Non li vuole nessuno»!

L’informazione è stata uccisa a Gaza. Quasi 300 giornalisti e giornaliste morti/e, caduti per aver raccontato quello che vedevano. Ultimi i cinque, inspiegabilmente voluti “anonimi”, uccisi insieme a Anas Al-Sharif che si dice “fiancheggiatore” di Hamas, ma, fondamentalmente ed evidentemente, voce importante di Al Jazeera. Sospettando della volontà di essere ucciso, Anas aveva scritto: «Questa è la volontà e le mie parole finali. Se queste parole vi giungono sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce…Ho vissuto il dolore in ogni suo dettaglio. Ho assaporato il dolore e la perdita molte volte. Eppure non ho mai esitato un solo giorno a trasmettere la verità così com’è, senza falsificazioni o distorsioni…Vi esorto a tenere stretta la Palestina…Vi esorto a prendervi cura del suo popolo, dei suoi bambini oppressi a cui non è stata data la possibilità di sognare o di vivere in sicurezza e pace, i cui corpi puri sono stati schiacciati da migliaia di tonnellate di bombe e missili, fatti a pezzi, i cui resti sono stati sparsi sui muri…Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o fermare dai confini…Se dovessi morire, morirei saldo nei miei principi…Non dimenticate Gaza… (Anas Jamal al-Sharif, 6 aprile 2025).

Ferragosto, le Feriae Augusti, in onore dell’imperatore che voleva per Roma un lungo periodo di pace, sta trascorrendo via. Chi può (o non può) si gode la città ai tempi desiderati del silenzio. Dovremmo celebrare questa anelata Pax imperiale che darebbe quiete al mondo, ora troppo in subbuglio. «Purtroppo — è stato detto — la questione non sono i musulmani/e, cristiani/e, ma la Palestina, non ci sono errori di bombardamenti a chiese (con quasi 90 moschee buttate giù) o divieti di entrata a sacerdoti cattolici». I Governi del globo (non…”terraqueo”!) devono lavorare in questa direzione e non permettere nessun “esodo” consigliato perché non voluto e perché sarebbe una sconfitta per tutti.
Intanto, sotto il sole cocente di questo Ferragosto tre ragazzini uccidono con un’auto rubata allo sbando, una donna, nella periferia sud di Milano (la prossima settimana uscirà, a riguardo, in questa rivista un articolo scritto da un’insegnante). Il più grande, che si era messo alla guida, è un maschio, di 13 anni, la più piccola una bambina di undici. Di chi è la colpa? Su questo dobbiamo riflettere. Il motivo è palese: ragazzini e ragazzine così giovani non sanno distinguere bene e capire la responsabilità e la gravità delle loro azioni. La Legge non può “punire” perché, più degli adulti, i e le giovanissime vite devono essere ri-educate e, soprattutto, formate. C’è responsabilità familiare, ma è richiesta l’esigenza della presenza della Scuola che è istituzione sociale.
I ragazzi e le ragazze, a maggior ragione se vivono già nell’emarginazione, devono essere messi in grado di andare a scuola e di prendere lì gli strumenti per formare una propria regolare idea del mondo, imparando il rispetto delle persone e delle cose.

Tante persone e tanti avvenimenti da ricordare in questi giorni che dovrebbero essere spensierati. Mi coglie il ricordo di una cara amica alla quale ho promesso affetto, ma soprattutto fedeltà all’impegno della “consolazione” poetica a chiusura di ogni editoriale. Piera Degli Esposti è stata una grande attrice del teatro, del cinema (indimenticabile il suo monologo a L’ora di religione di Bertolucci) e della televisione. Un incontro incredibile che per me non ha solo “firmato” un’introduzione a un libro sulle donne, per i cui diritti si è sempre battuta, insieme a Dacia Maraini, per lei quasi sorella. Piera, che se ne è andata il 14 agosto di quattro anni fa, era il mio punto di riferimento, la luce attraverso cui vedere l’arte. Il sogno del suo carattere bello, pieno di pace e di curiosità della vita. Il giorno prima era morto a Milano Gino Strada che insieme alla prima moglie, Teresa, aveva dato vita a quella grandiosa esperienza che è stata ed è Emergency. Quell’estate (o fine primavera) ci lasciarono, oltre a Piera e a Strada, altri nomi a noi cari: da Milva a Franco Battiato, a Carla Fracci. Perdite grandi. Insostituibili.
Alla vigilia di Ferragosto di sette anni fa a Genova crollava il Ponte Morandi che correva dentro la città. Con il suo schianto, a circa venti minuti da mezzogiorno del 14 agosto 2018, procurò ben 43 vittime e costretto tantissime persone a lasciare la propria casa. «La rapida ricostruzione di un così importante tratto stradale, il Ponte Genova San Giorgio, riconnettendo la Città e l’Italia, è stata un atto di ripartenza. La tutela delle infrastrutture per garantire piena sicurezza nella circolazione, non ammette alcuna forma di negligenza. Nel commemorare le vittime del Ponte Morandi, la Repubblica si unisce al dolore dei familiari» (Sergio Mattarella).
Con ancora più forza e affetto, in nome di Piera Degli Esposti, in nome della quale ho preso questo impegno e promessa con la speranza di “consolarci” insieme, leggendo, passo all’atto finale delle poesie. Compresa quella per Gaza finché non finisce la guerra che Gino e Teresa Strada volevano non si facesse più.
Il dialetto è l’altra lingua madre degli italiani e delle italiane, come diceva il grande linguista Tullio De Mauro. In tempi di guerra il poeta Trilussa, al secolo Carlo Albero Salustri (1871-1950) scrisse versi sulla guerra e la finta pace. Ringrazio per la segnalazione il mio caporedattore che mi è caro e indimenticabile, Piero Mei: mi ha insegnato tante cose del giornalismo alla redazione della cronaca romana de Il MessaggeroNinna Nanna è del 1914, prima guerra mondiale ed è recitata da Gigi Proietti.
Per Gaza leggiamo una poesia di una donna, Dareen Tatour, classe 1982, poeta, fotografa e attivista nata a Raineh, città araba in Israele. Condannata più volte per le sue poesie, per incitamento alla violenza, per l’ambivalenza del termine arabo shaeed che vuol dire “testimone” o “martire” tradotto invece in ebraico “terrorista”.

La Pace
Un Omo aprì er cortello
e domannò a l’Olivo: — Te dispiace
de damme un «ramoscello»
simbolo de la Pace?
— No… no… — disse l’Olivo — nun scherzamo.
perché ho veduto, in più d’un’occasione,
ch’er ramoscello è diventato un ramo
e er simbolo… un bastone.
(Proietti)

Ninna nanna 
Ninna nanna della guerra
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che
s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
(Trilussa, 1914)

Un attimo prima della morte
Rimarrò qui
Perché le ferite nella terra di Galilea
Risvegliano i sentimenti
E attraggono tutte le lettere verso di essa
Affinché possa continuare a cantare
Rimarrò
Perché cantare sulla riva di Acri è nostalgia,
Dove si posano i gabbiani
Perché l’abbraccio
Perché l’incontro
Perché tutto l’amore viene dalla brezza della patria
Perché amo ciò che è insopportabile
Rimarrò qui
E cavalcherò il frastuono dei venti tempestosi
Che non si piegano ai tiranni

Rimarrò
Perché i sentieri qui nella mia patria
Scorrono con una sofferenza simile alla mia
E malgrado il sangue versato
Mi restituiscono la sensazione della vita
Rimarrò
Perché i bambini
Qui comprendono la risposta come me
Se chiedi al bambino
Racconta, cosa sognerai stanotte?
Lui guarda a lungo il cielo
E ascolta per un’eternità il fragore dei proiettili
Risponde con tristezza
Perché pensare a questa cosa
E potrei non vivere fino a stasera?

Perché qui non vivo a lungo
E in qualsiasi momento
Il fischio dei proiettili
Si porta via ciò che desidero e ciò che voglio
Qui potrei vivere, qui potrei morire
E con tutto questo…
Rimarrò qui
Amando la vita
Rimarrò io
Per scrivere di me e di chi soffre
Lettere di verità
Perché scrivere in guerra è una morte rapida
In essa c’è vittoria e c’è suicidio
E c’è salvezza

Scriverò
Dalle tenebre delle caverne
Forse potrò risuscitare il fiore del mattino
Perché la poesia
È come il filo delle spade
Come il tuono del cielo
Perché tutti i proiettili che hanno sparato
Per soffocare le parole
Per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo
Per il nostro annientamento
aumentano la resistenza
rafforzano la volontà
(Dareen Tatour)