Ginevra Cantofoli e la Bologna del Seicento, di Nicole Maria Rana

autoritratto

Ginevra Cantofoli e la Bologna del Seicento

Ginevra Cantofoli (ca. 1618–1672) è stata una pittrice italiana barocca͏ che lavorò a Bologna, una città che nel 1600 era un punto ͏chiave nel mondo dell’arte europeo: qui, a differenza di altre città, le donne potevano͏ sperare͏ in una educazione artistica e una visibilità pubblica, cosa che non era ͏possibile quasi da nessuna parte; nonostante questo, lei riuscì a͏ emergere in questa scena, notevole per uno stile dolce fatto ͏di luci ͏tenui, volti tranquilli e atmosfere intime: i suoi dipinti spesso ͏di tema religioso ͏allegorico o mitologico mostrano un gusto forte per l’eleganza. La sua carriera si sviluppò in uno luogo che risultava ostico per una donna ͏ma la Bologna del ͏tempo offriva spazi impensabili altrove; qui una pittrice aveva possibilità di͏ ͏ricevere commissioni, mostrare le proprie opere persino, e insegnare come vedremo più avanti; nonostante questo, molte delle tele vennero a lungo attribuite agli artisti finendo͏ per oscurare la sua figura nella storiografia artistica successiva.

La pittrice comincia a muovere i primi passi nel momento in cui il capoluogo emiliano inizia a essere punto di riferimento dell’arte e della cultura: purtroppo non conosciamo esattamente il suo maestro, ma è probabile che abbia lavorato nell’ambiente carraccesco o nella cerchia di Reni. Il confronto con il pittore bolognese infatti è inevitabile, dato che entrambi provenivano dalla stessa città: nei loro dipinti rintracciamo la stessa dolcezza espressiva delle figure rappresentate, la luminosità della pelle, la compostezza quasi eterea dei soggetti, tutti elementi che Cantofoli avrebbe potuto apprendere del grande maestro. Ma è proprio la Bologna del Seicento che costituì un vero e proprio unicum nel panorama artistico italiano: la vecchia città di Felsina offriva spazi, opportunità e possibilità che altrove sarebbero stati impensabili. Tra le molte ragioni di questa eccezionalità c’era senza dubbio il carattere intellettuale e progressista della città: difatti era sede di una delle università più antiche d’Europa, e vantava una certa apertura verso l’istruzione femminile, e alcune famiglie nobili e borghesi sostenevano l’educazione artistica delle figlie, e non era raro che le ragazze apprendessero il disegno e la pittura già in ambito domestico. Anche il clima religioso giocava un ruolo importante: l’influenza dei gesuiti e dei riformatori cattolici, infatti, favoriva una visione dell’arte come strumento di catechesi; questo orientamento più spirituale e decoroso, rispetto al dramma teatrale di altre scuole barocche, rendeva l’ambiente più adatto anche alla produzione femminile del tempo.

In questo contesto vivace e sorprendentemente inclusivo, sorsero altre figure femminili straordinarie. Lavinia Fontana, attiva già alla fine del Cinquecento, fu una vera pioniera: figlia del pittore Prospero Fontana, è considerata la prima donna in Europa ad aver esercitato la professione artistica con continuità e successo, ottenendo importanti commissioni pubbliche e private. La sua carriera aprì la strada a molte altre. Qualche decennio dopo, infatti, Elisabetta Sirani si dimostrò altrettanto dotata di un talento precoce: non solo dipinse oltre 200 opere in meno di trent’anni di vita, ma fondò anche una scuola d’arte per donne, forse la prima nel suo genere. Grazie a lei, la pittura divenne una possibilità concreta anche per altre giovani allieve, che fino ad allora avrebbero avuto ben poche occasioni di formazione: l’iniziativa di Sirani permise loro di imparare l’arte senza doversi appoggiare a un padre, a un fratello o a un marito — un gesto che possiamo dichiarare veramente audace per l’epoca. Accanto a loro, altre artiste come Anna Maria Crescimbeni o Veronica Fontana (incisora), seppure meno conosciute al grande pubblico, contribuirono a formare un tessuto culturale femminile unico in Italia: in nessun’altra città si contava un tale numero di pittrici attive e riconosciute.
Anche se formalmente escluse dalle accademie, molte di queste donne si formarono in ambienti familiari o ricevettero lezioni private. L’Accademia degli Incamminati, fondata dai Carracci, aveva rivoluzionato il linguaggio pittorico promuovendo una pittura più “colta” e naturalistica, i cui influssi arrivarono anche alle artiste.

Dopotutto, dobbiamo sottolineare un elemento di grande rilevanza: la visione femminile che emerge dalle opere di queste artiste. Le donne che popolano i loro quadri non sono semplici muse o figure decorative, come spesso accadeva per le rappresentazioni maschili di figure del sesso opposte. Le protagoniste dei quadri di queste pittrici sono eroine, martiri, regine, spesso rappresentate con forza, dignità e un’intensità emotiva nuova: Giuditta, Lucrezia, Cleopatra non sono solo soggetti biblici o che rimandano ai miti classici, ma diventano simboli di coraggio e autodeterminazione. Non vanno dimenticati i ritratti e gli autoritratti, che mostrano una ferma consapevolezza del proprio ruolo, un desiderio di affermare la propria identità attraverso l’arte, da protagoniste. Il Seicento bolognese ci restituisce un piccolo miracolo culturale: una scuola al femminile che seppe esistere e durare, anche se per lungo tempo dimenticata: solo oggi stiamo tornando a riconoscere il valore di queste donne che, con talento e determinazione, seppero lasciare il segno in un mondo che non era pensato per loro.

Ginevra Cantofoli, Donna con turbante, 1650 ca,
Palazzo Barberini, Roma

Ma ritorniamo a Ginevra Cantofoli, esplorandone la produzione.
Tra le opere più affascinanti di Ginevra Cantofoli, Donna con turbante è un esempio di eleganza misteriosa la cui resa pittorica rimane, dopotutto, delicata. Non abbiamo notizie certe circa l’identità della figura ritratta: potrebbe raffigurare una persona reale, probabilmente Beatrice Cenci (una nobildonna che uccise il padre che le aveva provocato diversi traumi), ma più probabilmente rappresentare anche un semplice ideale di bellezza femminile, come spesso accadeva nell’arte seicentesca. Alcuni studi, d’altro canto, hanno ipotizzato che possa trattarsi di un autoritratto celato sotto le vesti orientali, altri ancora pensano a una nobildonna bolognese o persino a una cortigiana, a giudicare dalla ricercatezza dell’abito. Il turbante e l’abbigliamento ricercato, d’altronde, suggeriscono un gusto per l’esotico — le cosiddette turqueries — molto in voga nell’Europa barocca. In particolare, la donna nel dipinto è colta in una posa di tre quarti, con il volto leggermente rivolto verso chi guarda; lo sguardo calmo ma intenso, come se celasse un segreto; la luce, poi, le accarezza il viso con estrema dolcezza, mettendo in risalto la pelle chiara e quasi perlacea: è qui che si vede l’influenza di Reni, celebre per la sua resa eterea delle figure femminili: i dettagli dell’abbigliamento — i tessuti, le pieghe, la resa materica del turbante — risultano curati con grande attenzione.

Ma Cantofoli non è sola nell’uso di questi elementi: il suo stile dialoga con quello di Reni, ma si può accostare anche ad artiste come Giovanna Garzoni (a cui abbiamo dedicato un articolo), che condivideva la stessa attenzione per i dettagli e la raffinatezza, pur lavorando sulle miniature. Anche con Artemisia Gentileschi troviamo caratteristiche affini: sebbene prediligesse tematiche più drammatiche e chiaroscuri più marcati, anche lei sapeva restituire, nei volti femminili, uno sguardo profondo e ricco di significati. Un altro rimando, infine, è dato dal turbante che richiama inevitabilmente la celebre Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, un’altra figura femminile dall’aria enigmatica, resa eterna proprio da quell’elemento che la rende senza tempo.

Ginevra Cantofoli, Berenice, II metà del XVII secolo,
collezione Borghese, Roma

Il dipinto Berenice di Ginevra Cantofoli, oggi conservato alla Galleria Borghese di Roma, invece, ha una storia attributiva lunga e complessa. La prima menzione documentata dell’opera risale al 1833, quando compare negli inventari fidecommissari della collezione Borghese come un ritratto attribuito al pittore viterbese Giovanni Francesco Romanelli. Nel corso del tempo, però, l’opera fu variamente assegnata: a Simon Vouet da Adolfo Venturi (1893), a un anonimo pittore romano influenzato da Guido Reni da Roberto Longhi (1928) e infine pubblicata come tale da Paola della Pergola nel catalogo del 1955. Fu solo nel 2004 che lo studioso Massimo Pulini chiarì definitivamente l’attribuzione, restituendo l’opera a Cantofoli. Secondo Pulini, Berenice riflette pienamente lo stile raffinato e intimo di Cantofoli, avvicinandosi per posa e sguardo alla sua Ninfa marina (oggi nella collezione Koelliker di Milano). Anche il soggetto del dipinto ha suscitato interpretazioni divergenti: inizialmente identificata come sarta per la presenza delle forbici, poi come la parca Atropo — simbolo del destino che recide il filo della vita — è stata infine riconosciuta da Pulini come Berenice, la regina di Cirene che, secondo la leggenda, offrì ad Afrodite la sua chioma in cambio della salvezza del marito Tolomeo. Il gesto, apprezzato dagli dèi, fu premiato con la trasformazione della chioma in una costellazione. Databile intorno agli anni Sessanta del Seicento, l’opera si inserisce nel periodo in cui Cantofoli ebbe un fecondo legame artistico con Elisabetta Sirani.

Cantofoli morì nel 1672, a circa 54 anni, lasciando poche tracce biografiche. Non sappiamo se avesse allievi o una bottega, ma la sua presenza è oggi riscoperta e valorizzata. Dopo secoli di silenzio, Ginevra Cantofoli sta finalmente ricevendo l’attenzione che merita: il suo stile è oggi apprezzato per la luminosità dei volti, per la compostezza elegante delle sue figure femminili e per una sensibilità pittorica che svela il mondo interiore delle donne del suo tempo — non più muse passive, ma presenze fiere, spirituali, affascinanti.