Virginia Tomescu Scrocco, di Barbara Belotti

Presentando il dipinto Gioco di bambine nel corso della III Esposizione internazionale della Secessione, Virginia Tomescu si fece conoscere dal pubblico e dalla critica romana come un’artista dotata e con lo sguardo rivolto alle suggestioni pittoriche impressioniste e post-impressioniste.

Era il 1915 e da non molti anni era approdata a Roma dove aveva brillantemente conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti, premiato con la medaglia d’argento.
Nata a Bucarest nel 1886, aveva avuto la fortuna di crescere in una famiglia agiata e attenta ad assecondare le sue doti artistiche. Nel periodo dedicato alla sua formazione culturale e professionale è possibile individuare alcuni aspetti che rivelano un percorso di tutto rispetto e di apertura verso le espressioni artistiche d’Oltralpe: se infatti i suoi studi artistici cominciarono in Romania, fu il soggiorno in Francia a plasmarne i tratti. Accompagnata dalla madre, Virginia intorno al 1903-1904 partì per Parigi dove frequentò l’Académie Julian, un’istituzione privata che fin dalla sua fondazione, nel 1867, ebbe un’impostazione liberale e di apertura verso allieve e allievi, soprattutto stranieri. Uomini e donne potevano frequentare insieme l’atelier, apprendere nozioni di pittura, scultura e anatomia, raffigurare modelle e modelli in posa nudi senza distinzioni di genere; il fatto poi che, per accedere ai corsi, le/gli studenti stranieri non fossero sottoposti a un severo esame di francese rendeva l’Académie Julian una meta accessibile e i corsi organizzati una valida alternativa alla formazione ufficiale dell’École des Beaux Arts.

A Parigi Virginia si appassionò all’arte en plein air, imparò ad assorbire le emozioni visive, a cogliere gli effetti luminosi e i loro cambiamenti, a costruire una tavolozza cromatica brillante e suggestiva. L’incontro con l’Italia Virginia lo fece dopo aver terminato la formazione parigina, quando intraprese un viaggio di formazione nelle principali città d’arte italiane, scegliendo infine Roma come luogo per concludere la sua formazione.
Il dipinto Gioco di bambine, accolto con favore tanto da essere acquistato dal Campidoglio, riassumeva sulla tela le ricerche fino a quel momento svolte dalla giovane artista: un composto di solidità e studio accademico, per i corpi flessuosi e aggraziati delle due ragazze, e una felice consuetudine con la stesura del colore, rapida e dinamica, di tipo impressionista e post-impressionista utilizzata soprattutto negli scorci esterni visibili dai battenti della finestra. Un quadro che evidenziava l’incanto per la luce naturale e l’eleganza dei corpi nel rispetto di una lunga tradizione formale, ma nessun interesse per le ricerche artistiche più contemporanee e d’avanguardia. Lontana quindi dalle altre artiste della Secessione romana, distante dalle suggestioni fauve che Leonetta Pieraccini aveva saputo accogliere, dalla sintesi formale condotta da Evangelina Alciati, dalle rivoluzioni su forma e colore dei dipinti di Deiva De Angelis, Pasquarosa e Maria Grandinetti Mancuso. D’altra parte, dopo il diploma dell’Accademia, aveva scelto di proseguire la sua formazione nello studio del pittore Cesare Maccari e tra il linguaggio della tradizione e quello delle sperimentazioni, Virginia preferì di certo sempre il primo. Lei stessa in seguito affermò l’importanza di non deviare dalle lezioni del canone artistico italiano: «Noi stranieri che abbiamo ammirato nei musei di tutto il mondo la bellezza plastica della figura e le grandiose scenografie dell’arte italiana siamo colpiti nel vedere interrotte queste profonde potenzialità dell’ingegno italiano: al veder largo si è sostituita l’analisi del particolare, allo stile la sperimentazione, alla composizione lo studio, al quadro il frammento».

Il 1915 fu per Virginia un anno importante anche dal punto di vista sentimentale: sposò infatti un giovane medico, Amedeo Scrocco, e si trasferì con lui a Tivoli che rimase, per il resto della vita, il luogo di abituale residenza sua e della sua famiglia, più numerosa dopo la nascita del figlio Eolo, nel 1916, e della figlia Marisa nel 1925.

Matrimonio e maternità non ostacolarono la carriera che mantenne un andamento regolare, soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali, sia con esposizioni collettive e personali in Italia (a Roma le mostre della Società Amatori e Cultori tra il 1916 e il ’26, la personale nel foyer del teatro Argentina del ‘19 e la Terza Biennale del ’25; a Torino l’Esposizione Nazionale del ‘26, le personali di Milano, Torino, Genova), sia con mostre all’estero, in primo luogo in Romania dove, nel 1929, si recò per decorare un castello reale in Transilvania su commissione di Maria di Sassonia-Coburgo-Gotha, principessa di Edimburgo e regina di Romania, dalla quale Virginia ricevette diversi premi. Una brillante carriera alla quale si sommarono i numerosi interessi culturali e artistici che l’accompagnarono sempre e che la videro animatrice di salotti culturali e autrice di saggi e articoli pubblicati su giornali e riviste, sia italiane che rumene.

Le lezioni impressionista e post-impressionista che — immagino — l’incantarono negli anni degli studi parigini rimasero ben visibili in tutta la sua produzione, soprattutto quella legata al tema del paesaggio e alle raffigurazione della natura, prima della campagna romana e dei dintorni di Tivoli e, in seguito, delle campagne beneventane, a Buonalbergo, paese d’origine del marito, dove si trovava un’abitazione per i soggiorni estivi e dove si rifugiò negli anni più difficili del secondo conflitto mondiale.
Osservare e lavorare a contatto diretto con la luce e l’ambiente fu un’esperienza di meraviglia e di immersione totale e l’esperienza visiva fu insieme esperienza dell’animo. «Per abituarsi a osservare la natura» ha scritto ancora Virginia Tomescu «occorre una lunga educazione dell’occhio: solo dopo molto studio si arriva a percepire le infinite finezze del plein air, molto diverse dalla durezza di contorni che si osserva in un ambiente chiuso».

Costruiva la sua tavolozza con tonalità brillanti, vibranti, capaci di restituire l’atmosfera della luce mediterranea in cui si immergeva e in cui immergeva anche i personaggi dei suoi quadri, persone della sua famiglia, amiche e conoscenti sui cui volti fissava espressioni di serenità e di pacato appagamento dell’animo.

Si trattava perlopiù di figure femminili, di temi familiari, di scene campestri in cui erano assenti eccessi cromatici o formali, come se le ricerche d’avanguardia, in primis quelle futuriste, non fossero comprese nei suoi orizzonti. Quando si cimentò con temi ispirati al mondo antico e al mito la lezione, più classicista, invase la cornice di idealità delle sue scene, con suggestioni rinascimentali — botticelliane come nel quadro La danza dei gigli — in cui non erano estranei riferimenti alla pittura preraffaellita e a quella di Giulio Aristide Sartorio.

Per il pacato e colto linguaggio della sua pittura, Virginia era destinata a essere apprezzata. Margherita Sarfatti, in una recensione del gennaio 1919 in occasione di una personale a Milano, riconobbe in lei i caratteri di «una pittrice seria, appassionata e diligente, lontana dal dilettantismo frettoloso di troppe pittrici italiane e straniere». A parte la nota polemica nei confronti delle artiste, tacciate di fare della pittura vaga, superficiale e senza studio, come fosse solo un piacevole passatempo o poco altro, Sarfatti sottolineò la «brillante esteriorità del colore» di Virginia e la sua minor attenzione per la «solidità della forma. Perciò ella è un’impressionista e una divisionista. […] Tuttavia è in lei un lodevole sforzo per ben comprendere e ben penetrarsi, per riuscire a rendere, anche le plasticità corpose della materia», arrivando ad accostare alcuni suoi dipinti all’arte di Renoir e alla sua «pastosità di bianco-rosee ignude carni femminili nel gran guizzo del sole e nel brivido stupendo dell’aria aperta e del verde».

Lungo tutto l’arco degli anni Venti la ricerca pittorica di Virginia Tomescu Scrocco proseguì su note impressioniste e divisioniste, senza scossoni e trasformazioni; ma verso il decennio successivo il suo linguaggio si arricchì di caratteri di monumentalità, coerentemente con le contemporanee atmosfere novecentesche.

Si interessò a nuovi temi, quelli legati al mondo rurale e al lavoro nei campi, cominciò a raffigurare donne e uomini nelle campagne intorno a Tivoli e, soprattutto, le contadine e i contadini incontrati durante i soggiorni estivi a Buonalbergo.

Figure solide e solenni, circondate da un’aura di lirismo e di incanto capace di rimuovere ogni riferimento alla durezza della vita dei campi, alla fatica delle braccia e delle schiene spezzate, preferendo non affrontare — probabilmente non percependole — le contraddizioni sociali della realtà contadina.

Dal 1942, poi, la casa estiva di Buonalbergo si trasformò nella dimora abituale dopo che un bombardamento aveva distrutto l’edificio in cui viveva a Tivoli con la famiglia. Fece rientro nella cittadina laziale solo nel ’46, ma la sua vita era quasi giunta al termine. Dopo aver assistito alla scomparsa del marito Amedeo nel 1947, Virginia si spense a Tivoli nel 1950.
«L’arte riempie la mia esistenza d’un incanto ineffabile» ha scritto Virginia Tomescu Scrocco. Eppure questa profonda compenetrazione tra lei e la pittura non è bastata a salvarla dall’oblio. La sua produzione artistica è stata “riscoperta” venti anni fa, in seguito alla donazione delle sue opere fatta dal figlio Eolo e dalla figlia Marisa al Museo del Sannio di Benevento.

Per molti anni, dopo l’ultima sua mostra personale a Roma, nel 1930 alla Camerata degli artisti di Piazza di Spagna, di lei si è scritto e parlato poco, quasi nulla. Nel Museo del Sannio si è dato vita invece a un bel nucleo di opere che consente di tracciare le linee principali della sua produzione e della sua ricerca che è, soprattutto, “poesia del colore”.