L’acqua cheta al teatro Lo Scantinato di Firenze

Uno dei testi più classici del teatro vernacolare fiorentino, l’intramontabile “L’acqua cheta” di Augusto Novelli, è stato riproposto al piccolo ma delizioso teatro Lo Scantinato in via san Domenico per la regia di Silvia Rabiti.

Non ve ne racconto la trama perché è troppo conosciuta; preferisco soffermarmi sulle novità immaginate dalla regista e sulla bravura degli attori del cast che hanno ricevuto lunghi, calorosi e meritatissimi applausi anche da parte della sottoscritta.

Inizio dai complimenti per poi raccontarvi le idee registiche di Silvia Rabiti: in primis semplicemente straordinari Ilenia Leoncini e Diego Marchi nei ruoli, rispettivamente, di Sora Rosa e Ulisse, i genitori delle due figlie “papabili”, da marito, non mi era ancora capitato di applaudirli e spero mi accada nuovamente presto: bravissimi, non hanno mai perso il ritmo.

E brave anche le “figlie”, Elisa Marchi – Anita, la figlia “buona”, e Cecilia Agostini – Ida, “l’acqua cheta che rovina i ponti”. Deliziosi anche i futuri generi, Alessandro Romei – Cecco, il fidanzato falegname di Anita che si rivelerà il “salvatore”, e Alberto Goglia – Alfredo, il pretendente di Ida con la quale metterà in atto il tentativo di “fuitina” (termine che prendo in prestito dal siciliano).

Bravissima la dolce Francesca Ranfagni nel ruolo di Stinchi, il narratore sempre un po’ brillo, che presenta ogni personaggio appena entra in scena e “spiega” gli accadimenti.

Bravi anche Giulia Nigrelli – Zaira, la vicina di casa che dice la celebre frase “I figli? Meglio i polli, almeno gli si tira i’collo…”, Martino Pozzi, il buffo avvocato Asdrubale, e David Contri, il giornalista anzi, come lo chiama Ulisse, “la pressa”, italianizzando il termine inglese.

Ed ecco le “novità” immaginate dalla regista Silvia Rabiti che hanno arricchito lo spettacolo e che vorrei proporvi direttamente con le sue parole:

Il richiamo al mondo di celluloide:

•La scenografia come un negativo d’epoca: Appena entrati in casa di Anna e Anita (perché di questo si tratta, in quanto come sempre nelle scenografie dello Scantinato si “entra” e non si “assiste”) a ben vedere si percepisce di essere come in un negativo di una pellicola fotografica. Le pareti che in una casa sono bianche qui sono nere, i mobili in legno che in casa sono scuri qui sono ricostruiti di legno crudo, chiarissimi. Volutamente lasciati “nudi e crudi” a significare nuda schiettezza senza il velo dell’artificio.

•Il rewind come una pellicola che si riavvolge: la scenografia non è il solo richiamo al mondo di celluloide, l’inizio dello spettacolo è segnato da un divertente  rewind. Gli attori “riavvolgeranno” le azioni per riportare la storia all’inizio e riproiettarla di fronte al pubblico.

•L’arresto della proiezione: Ad ogni ingresso di personaggio, per presentarlo al pubblico uno stop ovvero un fermo immagine con tanto di rallentamento sonoro (come ai vecchi giradischi quando andava via la corrente) qui tanto la musica quanto le parole dell’attore rallenteranno andando a trovare i toni bassi e deformati fino a fermarsi.

L’audacia più divertente e incredibile di questa lavorazione sta nel fatto che alcuni momenti di maggior intensità sono stati resi facendo muovere, in delle coreografie, attori e attrici a cui la danza era completamente sconosciuta. E ciò non per gusto della sfida (dal sapore di dilettanti allo sbaraglio), ma perché l’attore è stato portato a esprimere il sentimento del proprio personaggio “a crudo”. Come a crudo sono i mobili della scenografia. Autentico, non mediato. L’emozione uscirà da tutti i canali che l’attore ha a disposizione e se quel canale non è ancora pronto o addestrato? Meglio! Ancora più autentica l’emozione, più vero l’imbarazzo, più audace l’osare una dichiarazione d’amore, più tentennante l’incertezza”