“Indaco”, di Simonetta Monesi, recensione di Daniela Domenici

Un libro non recentissimo che mi ha chiamato dagli scaffali della narrativa italiana della mia biblioteca preferita, un tomo di dimensioni ragguardevoli, 478 pagine, un’autrice sconosciuta, Simonetta Monesi, di cui leggo, in terza di copertina, che è originaria di Firenze, che ha vissuto a Roma dove ha lavorato per il teatro, che da dieci anni si è trasferita sulle colline bolognesi, che insegna latino e greco a Bologna e che collabora con l’università di Ferrara.
Tutte questo incipit mi sembrava necessario, e non è comunque sufficiente, a tributare il giusto merito a un’opera che (sto per sconvolgervi, sedetevi…) sento di poter definire, per alcuni motivi, l’Odissea del 21 secolo e la frase, a guisa di sottotitolo, scritta in copertina sembra darmi ragione: “la vita, le guerre, gli amori di un uomo con il cuore che batte al ritmo di questo secolo”.
Come l’omerico Ulisse viaggia per vent’anni vivendo mille avventure nei luoghi più disparati per poi ricongiungersi, nella sua Itaca, all’amata moglie Penelope così anche Ignatius, chiamato dalla madre Indaco, il protagonista di questo straordinario libro, vive infinite, dolorose, appassionate vicende per poi incontrare, dopo vari anni, il figlioletto Emmanuel creduto ormai morto.
A differenza di Ulisse Indaco inizia, suo malgrado, non per scelta, a vagabondare fuggendo da un luogo all’altro, sin da bambino e seguiremo la sua crescita, sia fisica che psicologica che spirituale, attraverso le varie “tappe” della sua vita che l’autrice ha voluto connotare con un colore; e quindi avremo la prima fase, quella “rossa”, che ha per sottotitolo “nascere, morire, combattere”, poi quella “arancio” che recita “specchiarsi, conoscere il tempo”, quella “gialla” “sentire, scoppiare nel sole; i racconti del deserto”, quella “verde” “il libro degli amori e delle torture e, finalmente, delle radici”, quella “blu” “le parole sono azioni proprio come il silenzio”, quella “indaco” “la rara pienezza” e, infine, quella “viola” connotata da una frase del poeta Dino Campana “la vita bizzarra de le figure nella luce bianca, e noi discesi…”
Dalla seconda di copertina: “il trascorrere degli anni è scandito dal succedersi dei sette colori che, secondo un’antica dottrina indiana, corrispondono via via a una nuova situazione affettiva ed esistenziale…la conoscenza di uomini e paesi, gli amori e le esperienze meravigliose e drammatiche, saranno uno stimolo a proseguire lungo un moderno percorso di crescita che potrà dirsi compiuto solo quando Indaco avrà realizzato la sua ambizione: essere all’altezza della pace che cercava”.
Altri due elementi importanti hanno colpito la mia attenzione e mi hanno portato a definire questo libro in termini così elogiativi: la profonda, dettagliata conoscenza della musica da parte dell’autrice (ignoro se sia anche una musicista oltre che docente e scrittrice ma propendo per il sì…) di cui è intriso il libro, soprattutto negli ultimi capitoli; e la straordinaria cultura geografica degli innumerevoli luoghi (e degli eventi storici che vi hanno avuto luogo) in cui si svolge l’odissea di Indaco, descritti con una tale delicata passione e una eccezionale accuratezza dei dettagli che sorprendono, ammaliano e commuovono.
Come avrete capito non è un libro “facile”, non si legge come un romanzo, va assaporato lentamente perché è un viaggio dell’anima e concludo con l’ultimo paragrafo dell’opera: “…è una musica struggente che assomiglia soltanto a uno stato del pensiero; dilaga dal basso e, raggiunti gli spettatori, ne guida il battito vitale perché si sveli…che in ciascuno c’è un canto implicito e uguale, un canto che è tutti i suoni e tutte le voci del mondo”.