Lapvona, di Ottessa Moshfegh, recensione di Loredana De Vita

“Lapvona” (Feltrinelli, 2023) di Ottessa Moshfegh è un romanzo inquietante, destabilizzante, eppure uno da cui non ci si può staccare fino all’ultima parola. È la storia, ambientata nel medioevo di un immaginario villaggio, Lapvona, i cui abitanti, poverissimi e sfruttati dal signore del castello, sembrano non rendersi conto delle angherie e usurpazioni cui sono sottomessi dal loro signore e padrone. In questo villaggio vive Marek, presunto figlio di Jude e Agata, deforme e non amato che, come il padre, crede che solo nella punizione sia possibile la salvezza. Marek si macchia di un delitto che lo porterà a mutare la sua condizione di vita diventando da figlio abbandonato a figlio sostituo del figlio del padrone del castello che aveva ucciso. Si accontenta, ancora una volta Marek si accontenta. La vita nel castello e nel villaggio si svolge senza sentimenti, senza emozioni, senza idee, ma con una violenza innata che rende le persone peggiori delle bestie. Non c’è dinamicità, ogni azione sembra perpetuare quello stato di angosciante staticità in cui le persone e gli ambienti e la natura stessa è come se rifiutassero di emergere. Emergere per cosa? Come può una società senza idee, pensare che esista la libertà, che siano possibili altri modi di vivere? Sono molti i personaggi che si succedono in questa storia di un anno (primavera/estate/autunno/inverno/primavera) della vita nel villaggio e nel castello, ma nessuno ha uno spessore psicologico, umano, sociale tale da suggerire un cambiamento. In principio, a causa della sua deformità, si è spinti a credere (o sperare) che Marek fosse un novello Quasimodo, il gobbo di Notre Dame di Victor Hugo, ma non è così, non c’è il bene nel cuore di Marek, forse neanche il male, solo un vuoto profondo di senso; persino l’anziano Grigor che è l’unico a percepire che ci sia qualcosa di sbagliato in quello che accade nel villaggio e nel castello, e che ricorda il poeta Grigoire, narratore della suddetta storia di Hugo, persino lui, improvvisamente e senza una ragione chiara, smette di essere diverso. Religione, stregoneria, pura invenzione si confondono e confondono il lettore lasciandogli percepire solo la malvagità latente in ogni essere umano. La conclusione del romanzo sembra confermare questa staticità e ciclicità della narrazione e della vita. Sembra che morte chiami morte, ma che mai ci sia un anelito di vita e di speranza. Non nascondo che dopo aver finito il romanzo ho provato un senso di disgusto, ma non riuscivo a capire il motivo e il significato di una storia del genere. Analizzando lo stile della scrittrice ho notato quanto fosse acuto, curato; il linguaggio è corretto, adeguato, evocativo; è evidente l’abilità letteraria dell’autrice e, allora, ho continuato a chiedermi come fosse possibile una storia del genere. Così, ho cambiato il punto di osservazione, per fortuna questa è una possibilità che la letteratura può offrire. Non mi sono più chiesta che cosa volesse dire l’autrice, ma che cosa io mi aspettassi da quella storia, quali erano gli elementi che mancavano affinché potessi sentirmi a mio agio nella lettura. Questa strategia mi ha portato a una lettura diversa. Ho odiato questa storia (pur amando la scrittura della Moshfegh) perché mi era impossibile indentificarmi in quel tipo di narrazione, in quel tipo di umanità perversa, perché mai potrei accettare una società talmente involuta da privare di valori e di significato qualsiasi azione umana, qualsiasi respiro. Concludendo, mi è parso che il romanzo possa esere considerato una moderna distopia (proiezione nel futuro delle conseguenze negative del presente) in cui persino la retrotopia (cioè immaginare il passato come migliore del presente) abbia perso il ruolo di un rifugio possibile. Che cosa sarebbe degli esseri umani se perdessero il signifcato del loro vivere? Quante delle situazioni del notro presente ci riconducono a questo dilemma? “Lapvona” (Feltrinelli, 2023) di Ottessa Moshfegh è un romanzo difficile da accogliere, eppure uno che pone molte domande cui ciascuno è chiamato a dare la propria interpretazione e risposta.