i casini della prima guerra mondiale, di Ester Rizzo

C’è una storia nella Storia della Grande Guerra che si tenta di non divulgare ed è quella relativa ai postriboli di guerra italiani nelle zone vicine al Fronte.
All’inizio della Prima guerra mondiale, l’Ispettore Pulcinelli, in una relazione inviata alla Direzione generale della Sanità pubblica di Roma, così scriveva preoccupato: «Operaie, modiste, sarte concedono i loro favori a chi sappia destar loro simpatia». Per riportare l’ordine e il decoro le donne che saranno additate di “dubbia moralità” verranno allontanate dalle zone di guerra e internate. Ma pochi giorni dopo si capì che i soldati dovevano dare sfogo ai propri istinti sessuali e si decise così di istituire i “Casini di Guerra”. Anche i medici dell’epoca asserivano che l’atto sessuale era una necessità fisica del soldato che non poteva essere soppressa.
A Vicenza, in quegli anni, c’erano ben venticinque case di tolleranza. Stesso numero a Padova. A Palmanova ne esisteva soltanto uno che “soddisfava” tra i cinquecento e i settecento soldati al giorno.
E le donne? Perché si prostituivano?
Sono sempre i medici dell’epoca a spiegarlo come scrive Emilio Franzina nel suo saggio La Venere vagante e il buon soldato: «… per gli impellenti bisogni economici, per i desideri sfrenati di appagare l’ambizione e la vanità femminile… per la seduzione maschile irresistibile per molte donne moralmente e intellettualmente molto deboli».
Così si sentenziò.
E dopo queste considerazioni non c’è da stupirsi se anche tante donne appartenenti a tutte le categorie di assistenti femminili in guerra erano spesso accusate di essere donne di malaffare e circondate dall’aureola di una cattiva fama. Non fecero eccezione a essere sottoposte a questo giudizio neanche le donne del personale di cucina dei campi, le aiuto-infermiere e financo alcune crocerossine.
Guerra e misoginia andavano a braccetto.
Leggendo Ritorno sul Carso di Luigi Bartolini (autore anche del romanzo Ladri di Biciclette da cui De Sica trasse l’omonimo film) si ha l’impressione che queste donne fossero delle vere e proprie schiave, costrette a intrattenere rapporti anche con 120 soldati al giorno: «Quei soldati coi calzoni sbracati, in fila indiana come ad aspettare il rancio, fermi dinanzi a certi uscioli… Invece aspettavano un’altra specie di rancio. E, porta aperta, c’era un lettaccio rosso, sudicio, scricchiolante: in presenza di tutti la meretrice. E il secondo soldato aspettava lì, quasi addosso al compagno che lo stava precedendo».
Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare. Le donne friulane, venete, come tutte le altre italiane, vivevano nella miseria più nera. Gli uomini, spesso fonti primarie di sostentamento, erano al fronte, e loro cercavano di sopperire alle esigenze della famiglia dove e come potevano. Ma quando non ci riuscivano la disperazione le spingeva a prostituirsi.
Ma la “prostituzione clandestina” era punibile con l’arresto.
In una circolare del Comando supremo del Regio esercito con oggetto Vigilanza e disciplina del meretricio (circolare numero 268 11 giugno 1915) al punto a) si legge: «Vietare che le prostitute girovaghe s’insinuino tra le truppe o si stabiliscano nei pressi degli alloggiamenti. La loro presenza dovrà essere immediatamente segnalata… alle Autorità di P. S. locale o all’arma dei R.R.CC, le quali provvederanno al loro allontanamento…».
Ed ancora al punto d) «Qualora la guerra dovesse prolungarsi, si potrà nei luoghi ove siano forti concentramenti di truppa, e dove se ne riconosca l’opportunità, raccogliere, d’intesa con l’Autorità politica e civile del luogo, le femmine che consentano a sottoporsi a speciale sorveglianza e disciplina, in appositi locali sotto la vigilanza dell’Autorità sanitaria militare e accessibili soltanto ai militari. Ciò anche a scongiurare… che i militari si affidino alle prostitute clandestine che pullulano un po’ da per tutto sotto le apparenze più diverse…». Questo documento porta una firma: “Il capo di stato maggiore dell’Esercito Luigi Cadorna”.
Spesso le autorità religiose cercarono di opporsi alla costituzione di questi postriboli di guerra ma ricevevano risposte che sottolineavano come tali aperture erano nell’interesse supremo della moralità e dell’igiene delle truppe. Nella memoria della guerra la prostituzione altro non è che un’attività come tante altre e la prostituta un debole ingranaggio.
E se quell’ingranaggio si ammalava cosa succedeva? Spesso gli ospedali le rifiutavano anche perché pieni di soldati feriti e per loro erano riservate alcune ali delle carceri. Ci si dimenticò anche che non tutte le donne che si prostituivano lo fecero “per libera scelta”. La maggior parte non aveva mai esercitato la prostituzione, la fame e la miseria le costringeva a ciò. Invece a quelle che la esercitavano non fu data libertà di scelta. I loro corpi dovevano soddisfare le voglie dei soldati in modalità rigidamente regolamentate, perché nelle zone di guerra non ci si poteva permettere che le donne li «rovinassero nel corpo e nello spirito proprio adesso che corpo e spirito devono essere intatti e pronti ad affrontare i maggiori cimenti», così scrisse l’onorevole Giuseppe Roi ad Antonio Salandra Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia. E le donne diventarono semplicemente foraggio buono per sfamare la voglia di sesso di milioni di soldati. Del resto le donne in generale godevano di scarsa considerazione e si riteneva fossero sempre in procinto di peccare cedendo alle debolezze dello spirito e del corpo, come asserivano eminenti medici del tempo.
Dalle testimonianze non è possibile calcolare a quanti rapporti al giorno erano costrette, ma ragionevolmente si può ipotizzare che fossero centinaia. Nei postriboli di guerra, specialmente quelli di più bassa categoria dove si recavano i semplici soldati, non c’erano prostitute ma vere e proprie schiave che in nome della Guerra furono costrette a offrire i loro corpi non alle pallottole del fuoco nemico, ma al sesso dei soldati.
Cadute su giacigli sfatti senza onore e con pessima memoria.