toponomastica e memoria, percorsi di antimafia, di Barbara Belotti

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Assegnare un nome a uno spazio pubblico non è mai un atto neutro perché le intitolazioni delle strade e delle piazze sono lo specchio dei saperi, della lingua, del pensiero politico e del costume della società, raccontano il modello culturale che stabilisce quali figure sono degne di memorabilità per le generazioni successive. Non sono atti neutri e neppure immutabili. Il sincretismo culturale presente nel tessuto urbano fornisce uno sguardo d’insieme sul passato collettivo: prima dell’Unità d’Italia la toponomastica e l’odonomastica seguivano modalità descrittive facendo prevalere le caratteristiche fisiche di un luogo, la presenza di elementi devozionali, di luoghi di culto o di attività umane. Dopo la nascita dello Stato unitario l’esigenza di cementare gli ideali nazionali impose la necessità di dedicare le vie a personalità e avvenimenti del Risorgimento, mentre con l’avvento della Repubblica giocoforza si cancellarono le scelte onomastiche del regime e si misero in luce storie e figure eroiche della Resistenza.

Attualmente ‒ come afferma il linguista e studioso di onomastica Enzo Caffarelli, da sempre amico di Toponomastica femminile ‒ «le vittime della mafia si sostituiscono nella partecipazione emotiva della vita italiana agli eroi dell’indipendenza e delle guerre mondiali», soprattutto a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, all’indomani dell’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro. Con le intitolazioni al generale e, dieci anni dopo con le intitolazioni ai giudici Falcone e Borsellino, la memoria dell’antimafia, fino ad allora più localistica, ha cominciato a essere avvertita come riflesso della storia nazionale.
Uno studio pubblicato nel 2020 da Giuseppe Muti e Gianluigi Salvucci dal titolo Odonomastica e vittime innocenti: una geografia della memoria antimafia in Italia ha cercato di disegnare il paesaggio odonomastico di questa memoria. La ricerca sottolinea come in ogni regione e ogni provincia italiana si possano trovare intitolazioni a vittime della mafia, pur con distribuzioni territoriali molto differenziate; di contro va sottolineato anche che circa il 70% dei Comuni italiani non ha odonimi di questo tipo.
La regione dove si concentra il maggior numero di strade dedicate alle vittime innocenti della mafia è la Sicilia con più di 1600 intitolazioni, quella con minor presenze è la Valle d’Aosta.

Il primato siciliano trova conferma con le oltre 500 intitolazioni della provincia di Palermo, delle quali un po’ meno di 100 nel solo capoluogo di regione; delle venti province italiane con più di 100 targhe toponomastiche in onore delle vittime di mafia, sette sono siciliane e dimostrano come l’isola sia, scrivono Giuseppe Muti e Gianluigi Salvucci, «la regione con più odonimi antimafia, ovvero col più elevato numero di strade intitolate alle vittime innocenti, per oltre un quarto del totale nazionale». I numeri non confermano la medesima attenzione nelle altre regioni meridionali interessate da gravi fenomeni organizzati di criminalità, ovvero Calabria, Campania e Puglia: solo in 5 province su un totale di 16 (Cosenza, Caserta, Napoli, Lecce e Bari) sono state denominate più di 100 aree di pubblica circolazione e se la Puglia ha più di 500 intitolazioni, in Campania e in Calabria ce ne sono meno di 500.
La toponomastica e l’odonomastica legate alla memoria delle vittime innocenti della mafia (ma anche della ‘ndrangheta, della camorra e delle altre forme di criminalità organizzata) sono fenomeni partecipati e, nelle iniziative di intitolazione, alle Amministrazioni pubbliche si è spesso affiancata la società civile nelle sue varie forme ed espressioni, molte volte con la funzione di vero e proprio traino. Questa convergenza di azioni è riuscita a far assumere ad alcune figure dell’antimafia il ruolo di genius loci, come ha scritto Marcello Ravveduto: è il caso per esempio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di Pio La Torre e dei giudici Falcone e Borsellino.

Sono diventate figure degne di intitolazione perché, al di là della cronaca, sono percepite e proposte come numi tutelari della legalità e della giustizia di tutto il Paese, il loro sacrificio è stato innalzato a una sorta di immolazione per la difesa delle libertà dell’intera Nazione.
Gli autori dello studio hanno provato a stilare una lista dei nomi con il maggior numero di intitolazioni, basandosi sull’elenco delle vittime innocenti di mafia che l’Associazione Libera ha pubblicato sul suo sito https://vivi.libera.it/it-ricerca_nomi. Partendo dalla considerazione che circa il 70% dei nomi presenti in elenco non viene commemorato con intitolazioni di strade, va sottolineato come sia il generale dalla Chiesa (con oltre 1000 odonimi dedicati) il personaggio con il maggior numero di vie dedicate, sparse sul territorio nazionale. Ha un migliaio di targhe toponomastiche anche il giudice Giovanni Falcone, seguito dal collega Paolo Borsellino con meno di 1000 odonimi; a questi numeri vanno aggiunte le intestazioni doppie (circa 300) e quelle che comprendono i nomi degli agenti delle scorte e, per quanto riguarda Falcone, quelle nelle quali è ricordato con la moglie, la magistrata Francesca Morvillo. Nel loro caso la distribuzione è su quasi tutto il territorio nazionale, con numeri più elevati in Lombardia che in Sicilia, a dimostrazione del fatto che, con le loro commemorazioni, si intende celebrare il carattere nazionale di quelle tragiche vicende rafforzando ‒ scrivono gli autori ‒ il valore «iconografico e paradigmatico […] per rilanciare e completare il “quadro primario” dell’antimafia civile, sul quale ha inciso, e inciderà sempre più anche il mondo sia di informazione che di intrattenimento».

Nella lista di Giuseppe Muti e Gianluigi Salvucci la prima e unica figura femminile ricordata con più di 100 odonimi (su un totale di 13 nominativi) è quella di Ilaria Alpi; la presenza della giornalista della RAI ‒ a volte ricordata coll’operatore televisivo Miran Hrovatin ‒ deriva dalla lista stilata dall’Associazione Libera, che da alcuni anni ha ampliato i criteri cominciando a comprendere anche le vittime innocenti di stragi non strettamente legate alla mafia; ferma restando l’importanza delle intitolazioni in suo onore, mi sembra che l’inserimento in elenco del nome di Ilaria Alpi sia po’ dissonante rispetto al resto dell’elenco, viste le vicende accadute, il difficile e tortuoso prosieguo degli atti giudiziari e i molti dubbi ancora irrisolti.
I primi nomi femminili più specificatamente legati alla violenza della criminalità mafiosa sono quelli dell’agente di Polizia Emanuela Loi e della magistrata Francesca Morvillo, entrambe con meno di 100 odonimi, seguite da Emanuela Setti Carraro (< di 50 odonimi), di Rita Atria e Lea Garofalo (< di 20), di Renata Fonte (< di 15); poco più di dieci nomi femminili hanno meno di 10 intitolazioni.

Non vengono citate, nella ricerca di Muti e Salvucci, le intitolazioni alle persone che hanno combattuto le organizzazioni criminali di stampo mafioso senza rimanere uccise. In questo caso i numeri appaiono molto contenuti perché la politica odonomastica sembra privilegiare il ricordo delle persone cadute in modo violento, quasi a concedere la precedenza ad una toponomastica del martirologio che rischia, però, di nascondere e cancellare modelli altrettanto forti ed educativi.

Considerando le figure femminili che hanno avuto il coraggio di combattere le organizzazioni criminali e denunciare gli episodi di sangue accaduti hanno ricevuto intitolazioni Felicia Bartolotta Impastato (la prima intitolazione in suo onore è del 2006, non in Sicilia ma in Emilia Romagna); Saveria Antiochia (una sola targa toponomastica a Roma); Serafina Battaglia, prima donna a testimoniare contro la mafia (una strada a San Casciano Val di Pesa in Toscana e nessuna in Sicilia); la giornalista Giuliana Saladino (una intitolazione a Palermo e una ad Alcamo); Francesca Serio e Anna Nicolosi Grasso (una via ciascuna a Palermo).

I nomi delle strade urbane sono un’infrastruttura astratta e simbolica che convive con le necessità più concrete della nostra attività quotidiana. Come scrive Italo Calvino nel libro Le città invisibili «la città non dice il suo passato, lo contiene, come le linee d’una mano, scritte negli spigoli delle vie […] Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso». Le targhe toponomastiche vanno a formare, quindi, un libro a cielo aperto che ci accompagna ogni giorno e le cui pagine devono essere redatte con cura e attenzione per preservare e tramandare alle nuove generazioni il patrimonio della memoria.

Separare l’odonimo dalle corrette e complete informazioni storiche determina il sopravvento della denominazione geografica-stradale sul valore simbolico dell’intitolazione che rischia di diventare incomprensibile. Alcuni esempi possono aiutare a capire. Le nuove normative sull’aspetto delle targhe toponomastiche tendono a semplificare le informazioni. I «segnali nome-strada» in metallo, con le scritte in nero su fondo bianco, a stento riescono a contenere l’inserimento del nome e del cognome, sembrano rivolti soprattutto ad agevolare il traffico veicolare considerando i nomi delle vie più un indirizzo che un’espressione di memoria storica. Ecco quindi che ad Avigliana, nell’area metropolitana di Torino, la strada con la doppia intestazione a Francesca Morvillo e a Giovanni Falcone si tramuta, in modo sintetico ed errato, nella via Falcone, odonimo parziale, impreciso e penalizzante per Francesca Morvillo che scompare del tutto. L’imprecisione e la scarsa attenzione per le informazioni storiche “puniscono” in misura maggiore le figure femminili, la cui notorietà è sempre minore e poco diffusa. Il rischio di aumentare l’invisibilità femminile esiste anche quando si utilizza la sola iniziale per il nome o si declina il ruolo professionale al maschile, ritenendolo un genere neutro.

Anche le motivazioni dell’intitolazione poco chiare, quando non errate, possono costituire un vulnus per la memoria toponomastica. Palmina Martinelli è una giovane pugliese bruciata viva perché non accetta di prostituirsi. Il suo assassino Giovanni Costantini, di cui la ragazza è innamorata, la cosparge di benzina facendosi aiutare dal fratello Enrico e inscenando poi il finto suicidio di Palmina. Prima di morire, dopo diversi giorni di agonia, la giovane trova la forza di denunciare i suoi aguzzini.

Nel libro Sdisonorate. Le mafie uccidono le donne, scritto da Associazione daSud, si legge: «Questo di Palmira è l’ennesimo caso di una morte dimenticata, archiviata, rimossa in fretta non solo dalla giustizia, ma anche dalla comunità. Palmina non è solo una vittima della mafia e della violenza alle donne, ma anche dell’indifferenza e del silenzio di una città che ha dimenticato la sua morte, perché legata ad una storia di degrado, prostituzione e violenza di genere». Le targhe toponomastiche, ricordandola con la generica frase «vittima di violenza», sembrano ripetere l’eco della rimozione della verità, scegliendone una parziale che lascia sullo sfondo la reale portata del gesto di Palmina che, nonostante la denuncia in punto di morte, non fu creduta.
Appare travisata anche l’intitolazione di una via a Emanuela Loi, morta nella strage di via D’Amelio nel luglio del 1992, che il Consiglio comunale di Belluno ha approvato a maggioranza nel dicembre del 2022. Nella mozione Emanuela Loi è presentata come vittima di violenza di genere e non di strage mafiosa, una motivazione «contraddittoria e fuorviante» nei confronti dei fatti accaduti a Palermo, ma anche una pericolosa distorsione nei confronti delle numerosissime donne che subiscono violenza di genere.

Pure scrivere solo «vittima di mafia» nella targa toponomastica in onore di Renata Fonte è una verità parziale. Significa cristallizzare la sua figura al momento della morte cancellando l’intera sua vita fatta di impegno politico e ambientalismo, di lotta per la tutela del territorio e contro le speculazioni edilizie, come se fosse difficile riconoscerne il ruolo pubblico. Ma davvero abbiamo bisogno solo di una toponomastica di lutti? Oppure, per poter tramandare oltre ai nomi anche le storie, abbiamo bisogno di targhe che presentino le attività e i meriti delle persone celebrate, soprattutto se donne?
Ha scritto Alessandra Dino che il riconoscimento del ruolo pubblico delle donne dell’antimafia procede ancora con affanno. «Ne sono spia il modo spesso stereotipico e la dimensione quasi esclusivamente privata e familiare attraverso cui vengono ancora rappresentate […] le figure delle donne che contrastano il potere mafioso».


Due esempi possono aiutare a comprendere meglio. Le targhe toponomastiche in onore di Felicita Bartolotta Impastato e di Francesca Serio a Palermo presentano la stessa frase «familiare vittima di mafia». Entrambe sono state donne e madri coraggiose capaci di ribellarsi alla logica mafiosa di chinare il capo e tacere. Hanno preso il testimone dai figli, Peppino Impastato e Salvatore Carnevale assassinati dalla mafia, hanno portato avanti le loro scelte condividendole in pieno, chiedendo per la loro morte verità e giustizia. Sono state capaci di trasformare la forza soverchiante del dolore in attivismo civile, divenendo simboli della condanna e della lotta alla mafia. Evidenziare nella targa toponomastica il solo legame familiare le confina all’interno della sfera dei sentimenti, di nuovo disconoscendone il ruolo pubblico che hanno ‒ e continuano ancora ‒ a incarnare.

Il silenzio odonomastico intorno alla figura di Saveria Antiochia, madre di Roberto Antiochia poliziotto in servizio a Palermo ucciso nell’agosto del 1985, si rivela incredibile: l’unica targa dedicatale si trova a Roma all’interno del parco di villa Paganini sulla Nomentana. [15]Eppure le parole scritte il 22 agosto 1985 in una lettera indirizzata all’allora Ministro degli Interni Scalfaro restano indimenticabili: «SIGNOR ministro degli Interni, ho letto e riletto le sue parole e i suoi giudizi su quanto accade a Palermo e le scrivo per dirle che il mio dolore di madre è diventato anche rabbia, la stessa rabbia dei poliziotti di quella città». Quella rabbia si trasforma prestissimo in impegno civile: Saveria comincia a parlare nelle scuole, fa parte di coloro che fondano il Circolo Società Civile di Milano, dà vita insieme a don Luigi Ciotti all’Associazione Libera e al lungo elenco di nomi di vittime innocenti. «Con gli stessi sentimenti e con senso di responsabilità verso una memoria che non doveva essere retorica celebrazione, ma seme di impegno, Saveria suggerì di raccogliere tutti nomi delle vittime, anche le più sconosciute» si legge sul sito di Libera. Ora tocca a noi non dimenticarla.